Roma Scipione l’Africano

Roma Scipione l’Africano


-Publio Cornelio Scipione Africano nacque a Roma nel 235 a. C.e morì a Literno nel 183 a.C.. Era figlio del proconsole che portava lo stesso nome e che era morto ad Antorgi. Era molto noto a Roma sia per la sua generosità che per la religiosità e le leggende che correvano sulla sua nascita. Si favoleggiava, infatti, che sua madre fosse stata fecondata, per volere degli dei, da un serpente. Durante la prima famosa battaglia con Annibale presso il Ticino (aveva appena 18 anni), salvò la vita del padre che allora era console, mettendo a repentaglio la propria. L’anno seguente, dopo la memorabile rotta di Canne nella quale si era trovato col grado di tribuno militare, aveva impedito a Canusio ad un gruppo di giovani patrizi di mandare ad effetto il disegno turpe di rifugiarsi in Grecia e li costrinse a giurare, sulla sua spada, fedeltà a Roma.[La presa di Cartagena] A soli 25 anni, nel 211, nonostante la ferma opposizione del settore più tradizionalista dei Senatori, ottenne il comando delle operazioni belliche in Spagna dove la situazione era gravissima.Aveva sollecitato l’onore di recarsi in quella nazione per poter vendicare la morte del padre e dello zio; per questo fu nominato proconsole e nell’autunno del 546 di Roma, con un esercito composto da 10.000 fanti, mille cavalli ed una flotta di trenta quinquiremi comandata da Caio Lelio, partì dal porto di Ostia. Con lui c’era il propretore Marco Giunio Silvano. Sbarcò ad Ampurias e pose i quartieri d’inverno a Tarracona. Qui richiamò le truppe di Claudio Nerone ed iniziò a progettare i piani che avrebbe messo in atto in primavera. Si trovavano in quel tempo in Spagna quattro Capitani cartaginesi e, sorte fra di loro delle discussioni, dopo aver diviso gli eserciti, avavano posto i loro accampamenti in quattro diversi punti: Asdrubale Barca nella regione dei Carpentani; Magone alla foce del fiume Tago; Asdrubale di Gi-sgone nelle terre dei Conii, poste nel mezzogiorno della Lusitania; Massinissa comandava la cavalleria dei Numidi.

La dislocazione delle forze dei nemici suggerì a Scipione l’idea di affrontare uno per volta gli eserciti avversari, di portare il più lontano possibile la guerra dal fiume Ebro e togliere così al nemico la sua base più importante: Cartagena, la città fondata dal cognato di Annibale nel 526 (di Roma). Publio Cornelio Scipione iniziò a mettere in atto il proprio piano assalendo Cartagena, che non era difficile da espugnare poiché la guarnigione che la difendeva era composta da soli mille uomini comandati da un certo Magone. Inoltre gli eserciti cartaginesi che distava-no parecchi giorni di cammino, non potevano recarle soccorso. Mandò quindi Caio Lelio, con la flotta, verso la città che aveva intenzione di conquistare, mentre lui stesso marciò alla testa del suo esercito verso Cartagena e, seguendo il litorale, la raggiunse dopo sette giorni percorrendo più di trecento miglia. Magone, vedendo l’arrivo improvviso della flotta e delle legioni di Roma non perse la trebisonda, ma chiamati alle armi tutti i cittadini osò addirittura fare una sortita fuori dalle mura e assalire le truppe di Scipione. Tuttavia, respinto dai romani fu costretto a rientrare in città. A questo punto il proconsole diede l’assalto alla piazzaforte che sorgeva su un promontorio unito al continente da un istmo difeso da mura molto solide. Non era proprio il caso di assediare la città; era necessario, al contrario, prenderla al più presto possibile per non dar il tempo agli eserciti cartaginesi di accorrere in aiuto di Cartagena. Scipione inviò allora un corpo di legionari verso il lato occidentale della città che, dando sul mare, era munito con mura più basse; assalì, con il rimanente delle truppe, gli altri lati della città per distrarre i di-fensori dal loro punto più vulnerabile. Il piano riuscì in tutto e per tutto. Poiché una parte del porto, a causa della bassa marea, era rimasto all’asciutto, il corpo dei legionari scalò facilmente le mura e occupà Cartagena. Mago-ne, vedendo i nemici in città, si ritirò nella rocca con la propria guarnigione, ma si arrese dopo poco tempo. Nella casa del presidio vennero trovati seicento talenti e i vincitori fecero bottino di armi, navi, vettovaglie e numerosi ostaggi. Scipione, mostrando la propria generosità e saggezza politica, lasciò liberi gli ostaggi, non ridusse in schiavitù i cittadini e ad essi lasciò i loro beni e impiegò gli operai come rematori, promettendo loro la libertà alla fine del conflitto. Nella primavera del 546 (di Roma) Scipione entrò nella Betica, dove era accampato il più con-sistente esercito cartaginese, comandato da Asdrubale Barca. Sul fiume Beti a Becula o, come vuole Polibio, presso Castula, l’esercito Cartaginese e quello romano si scontrarono. Asdrubale venne sconfitto. Con l’esercito ridotto alla metà, Asdrubale Barca,richiamato con insistenza dal fratello Annibale, sperando di potere ingrossare le proprie truppe durante il cammino, si mosse verso i Pirenei per portare soccorso al fratello, consigliato dalla stessa Cartagine. In Spagna rimasero Asdrubale di Gisgone, Magone e Massinissa. Nessuno dei tre osò venir a singolar tenzone con Scipione. Il primo si ritirò anzi in Lusitania, il secondo si recò nelle isole Baleari con lo scopo di assoldare alcuni mercenari e solo il terzo ebbe l’incarico di molestare l’esercito dei romani.[Fine della guerra in Spagna] Dopo la partenza di Asdrubale, Scipione riconduce sotto il dominio di Roma tutta la parte orientale della penisola. Di fronte ai successi del nemico, Magone ed Asdrubale di Gisgone stanno inattivi, aspet-tando aiuti dalla madre patria Cartagine. Questi giungono nella primavera del 547 e sono comandati da Annone, al quale si unisce anche Magone, con le truppe reclutate nelle Baleari. Scipione, per impedire che tutte le forze nemiche si uniscano insieme, invia contro Annone il pretore Marco Silano, mentre lui rimane a fronteggiare A-sdrubale. Silano, saputo che l’esercito di Annone è diviso in due campi, marcia il più velocemente possibile con-tro uno di essi, per non dar tempo all’altro corpo di giungere in soccorso, e, dopo averlo assalito con impeto, lo sbaraglia catturando lo stesso Annone. Magone, giunto alla fine della battaglia, riesce con una parte dei suoi a porsi in salvo fuggendo e s riunisce ad Asdrubale. Asdrubale dispone di settantamila fanti e quattromila cavalli, mentre Scipione dispone di soli quarantacinquemila uomini, tra fanti e cavalieri. Confidando nel proprio valore e nella buona sorte che gli è sempre stata propizia, marcia contro il nemico col quale viene in contatto a Becula. Qui avvengono alcune azioni di cavalleria che sono favorevoli ai Romani, poi ha luogo la grande battaglia che deve rendere Roma padrona di tutta la Spagna. Da alcuni giorni i due eserciti continuano ad uscire dal campo la mattina, si schierano pronti per la battaglia ma alla sera rientrano senza che avvenga alcuno scontro. In questo modo Scipione ha avuto la possibilità di osservare che tutti i giorni nello schieramento di Asdrubale gli Africani occupano il centro mentre i mercenari iberici, in maggior parte reclute, occupano le ali. Scipione fa immediatamente il suo piano, e così una sera ordina che l’esercito, dopo avere consumato il pasto, sia preparato fin dalle prime ore del giorno seguente e, giunta l’alba, invia la cavalleria per assalire il campo nemico, quindi avanza con la fanteria spagnola al centro e quella romana alle ali. Lo scopo di Scipione è di assalire con le sue truppe migliori le reclute di Asdrubale, sconfiggerle con una certa facilità e avere in seguito la possibilità di sopraffare le soldatesche cartaginesi. Il suo piano viene coronato dal più grande successo. Il nemico, sorpreso, non ha tempo di rifocillarsi e esce velocemente dal campo schierandosi secondo l’ordine dei giorni precedenti. La disposizione dell’esercito romano è a ferro di cavallo e le sue ali sono le prime ad ingaggiare la battaglia. Questa si svolge con grande accanimento; gli Africani che occupano il centro, pur vedendo che le ali se la passano male, non osano correre in loro aiuto ed attendonono l’urto del centro romano che tuttavia ritarda ad attaccare per far logorare il nemico e dare la possibilità alla sinistra e alla destra di sconfìggere le ali. Quando finalmente il centro dell’esercito di Scipione attacca, i Cartaginesi sono già stanchissimi per il lungo digiuno ed i mercenari spagnoli iniziano a cedere. L’esercito di Asdrubale, spintocon impeto alle ali, non riesce a mantenere le posizioni e rincula, ma l’arretramento,ordinato in un primo tempo, ben presto si cambia in fuga e la fuga segna l’inizio della strage e della relativa sconfitta. Questa sarebbe stata di ben più grandi proporzioni se una improvvisa pioggia violenta non avesse posto fine al combattimento. Asrubale, dopo essersi ritirato nell’accampamento, pensò di potersi rinforzare, ma poiché alcune schiere di mercenari tudertani erano passate dalla parte dei Romani, temendo altre diserzioni, abbandonò il campo. Fu una ritirata veramente disastrosa. Inseguito in un primo tempo dalla cavalleria romana prima e raggiunto in seguito anche dalla fanteria, l’esercito nemico fu distrutto quasi del tutto e di esso solamente settemila uomini, con a capo Asdrubale, riuscirono a salvarsi rifugiandosi sulòla cima di una montagna, dalla quale i due capitani fuggirono a Gades (Cadice). In seguito a questo gli Ispani se ne tornarono alle loro case, mentre una parte dei Cartaginesi raggiunse i loro capi, e una parte si rifugiò a Castula. La Spagna era oramai quasi completamente nelle mani di Roma; ai Cartaginesi restava solamente Gades, Castula e Illiturgo ai ribelli Spagnoli. Scipione a questo punto pensò ad un’ impresa più vasta e ancor più difficile; egli conosceva benissimo il fatto che il possesso della Spagna non sarebbe stato mai sicuro se prima non fosse stata sconfitta la potenza di Cartagine in Africa. Uomo politico di gran pregio oltre che geniale guerriero, Scipione pensa sia necessario, prima di fare una grande spedizione militare sulle coste dell’Africa, attirare dalla propria parte le popolazioni della Numidia e cercar l’alleanza dei sovrani di quella regione. Dopo aver inviato a Roma il fratello Lucio con i prigionieri, egli, con il suo luogotenente Caio Lelio, su due quinqueremi, parte da Cartagena per recarsi nella città di Siface, il re della Numidia che aveva concluso, otto anni prima, un trattato di alleanza con i due fratelli Scipioni. Dopo aver rinnovato il trattato, Scipione ritorna a Cartagena e da questa città marcia in un primo tempo verso Illiturgo che si oppone agli esercito dei Romani con una valorosissima resistenza, ma, presa d’assalto, viene saccheggiata e bruciata, in seguito marcia su Castula, i cui abitanti s’arrendono senza combattere e consegnano a Scipione Imilcone ed il presidio dei Cartaginesi stanziato in città. A quell’epoca sulle rive del fiume Beti viene fondata una nuova colonia romana alla quale è dato il nome di Italica. Nel frattempo anche i romani passano i loro piccoli guai; infatti a Sucrone il presidio romano si ammutina per non aver ricevuto la paga mentre una malattia coglie Scipione. Questi avvenimenti, uniti alla ribellione di Mandonio e Indibile, capi spagnoli molto influenti e potenti, rianimano i Cartaginesi che cominciano a sperare di potere riconquistare la Spagna; tuttavia Publio Cornelio Scipione guarisce, doma la rivolta dei legionari facendone decapitare i principali promotori, e si guadagna l’amicizia e l’obbedienza di Mandonio e Indibile con la propria generosità, mentre con la fama delle sue imprese gloriose suscita l’ammirazione di Massinissa, che, venuto a colloquio in segreto col proconsole, gli promette di servire la grande repubblica romana. Persa qualsiasi speranza di riconquistare la Spagna, Cartagine ordina a Magone di recarsi in Italia, di reclutare il maggior numero possibile di mercenari nella Gallia Cisalpina ed di portare soccorso ad Annibale. Magone abbandona Gades; si prenseta davanti a Cartagena e tenta di conquistare quella piazzaforte, ma, ricacciato dai legionari romani, in primo tempo si reca a Cimbo, poi va sull’isola Pitiusa cercando in seguito di sbarcare a Majorca. Ma, respinto dagli isolani, approda invece a Minorca e da quest’isola, con una flotta di sole trenta navi e un esercito di dodicimila fanti e duemila cavalli, nell’autunno dell’anno 548 [di Roma] parte per l’Italia dove approda in Liguria e prende d’assalto Genova.[SCIPIONE CONSOLE] – Partito Magone Romani vengono accolti nella città di Gades. Con la presa di questa città, dopo quattro anni che Scipione era venuto in Spagna, tutta la regione è tutta sotto il dominio di Roma. Portata a termine questa grande impresa, Scipione consegna la nuova provincia a Lucio Manlio Acidino e rientra a Roma portando un bottino di quattordicimilatrecentoquarantatre libbre d’argento. Il grande generale non riesce ad ottenere, tuttavia, il trionfo, ma l’entusiasmo del popolo per le sue grandi imprese è tanto grande che viene nominato console con Publio Licinio Crasso. La sua prima preoccupazione, appena avuta la carica, è di portare la guerra in Africa. Tuttavia questa sua proposta trova non poche ostilità da parte di alcuni senatori, e specialmente ad opera del vecchio Quinto Fabio Massimo [il Temporeggiatore], che sostiene che prima di tutto di deve pensare a cacciare Annibale dall’ Italia. Tuttavia Scipione è di testa dura, sicuro che il popolo appoggia la sua politica. Così minaccia di appellarsi alle tribù e ottiene di esser inviato in Sicilia con il permesso di passare in Africa, quando lo ritenga necessario. Tuttavia non gli vengono concesse né navi, né armi né denari, e si compren-de molto bene che non era possibile compiere un’ impresa di tale rilevanza con solamente le due legioni della Si-cilia e le trenta navi che erano adibite alla custodia di quelle coste. Scipione non rinuncia ai suoi piani e si rivolge direttamente alle popolazioni italiche affinché gli forniscano i mezzi per compiere la spedizione. La sua richiesta trova immediato riscontro: gli abitanti di Cere gli offrono subito delle ciurme per la flotta, mentre gli abitanti di Populonia gli danno il ferro, e quelli di Tarquinia la tela per poter fare le vele. Quelli di Volterra gli danno il frumen-to e gli armamenti per le navi, gli Aretini gli offrono trentamila scudi ed un uguale numero di frecce e celate, oltre ad una grande quantità di falci, scuri, lance e centoventimila moggi di grano. Gli abitanti di Chiusi, di Perugia, ed i Ruasellani gli consegnano gli abeti ed il frumento; gli Umbri, i Sabini, i Marsi, i Peligni e i Marrucini gli mandano dei soldati. In soli quarantacinque giorni Scipione riesce ad aumentare la sua flotta di altre trenta navi, le due le-gioni si accrescono di settemila volontari italici, e nell’estate del 549 si mette in viaggio per la Sicilia, con la spe-ranza di riuscire a passare il più presto possibile in Africa. Contrariamente alle sue speranze è trattenuto nell’ isola per circa un anno. Appena arrivato in Sicilia, una delegazione di Locresi lo invita a tentare un colpo di mano sulla loro città. Scipione dà il suo consenso e s’impadronisce di Locri, e qui lascia il suo luogotenente Quinto Pleminio. Quest’uomo tuttavia si macchia di ogni sorta di violenza contro i Locresi, che reclamano giustizia da Scipione. Il console accorre velocemente, tuttavia, pensando che i reclami dei Locresi non abbiano fondamento, riconferma il potere al suo luogotenente. Adirati gli abitanti di Locri si rivolgono al Senato. Molti nemici di Scipione approfit-tano di queste lagnanze. costoro accusano Scipione di essere complice del malgoverno di Pleminio, aggiungono inoltre che l’esercito della Sicilia è nell’anarchia più completa e che il console, invece di prepararsi alla guerra contro Cartagine, vive oziando e spassandosela nella città di Siracusa. Fabio stesso, credendo che queste accuse siano veritiere, chiede che Scipione venga richiamato a Roma. Al contrario il Senato, che era guidato da una prudenza degna di lode, vuole esser sicuro che le accuse mosse a Scipione siano vere, prima di prendere qual-siasi tipo di provvedimento e per questo manda dieci commissari affinché facciano una inchiesta approfondita. Costoro in un primo tempo si recano a Locri, constatano che Scipione è completamente estraneo nelle preva-ricazioni di Pleminio e ordinano di condurre il luogotenente disonesto a Roma, risarcendo anche gli abitanti di Locresi per i danni che hanno subito; in seguito si recano a Siracusa e trovano che nell’esercito regna la più gran-de disciplina e che i preparativi per la spedizione in Africano vengono portati avanti con grandissimo scrupolo. Rientrati così a Roma, i Commissari lodano moltissimo l’opera di Scipione.[Scipione in Africa] – Nel frattempo in Sicilia fervono i preparativi per la guerra e non si smette un istante osservare quello che sta facendo Cartagine dove si conoscono benissimo le intenzioni di Scipione. Caio Lelio con una parte della flotta fa la sua comparsa davanti alle coste occidentali della Numidia saccheggiandone il territorio di Hippo. Cartagine crede che sia arrivato anche Scipione e si prepara immediatamente a difendersi: assolda dei mercenari, acquista delle vettovaglie, munisce la città, invia degli ambasciatori sia a Siface che a Filippo il Macedone, pregando quest’ultimo di andare in Italia ed in sicilia; nel frattempo spedisce a Magone venticinque navi, seimila fanti, ottocento cavalli, sette elefanti ed ingenti somme di denaro affinché assoldi il maggior numero possibile di milizie e si unisca all’esercito di Annibale. Magone però, in Liguria, trova delle gran difficoltà per procurarsi gli uomini per combattere ed i Galli, spinti da lui, rispondono che sono obbligati a difendere il loro territorio dagli eserciti di Lucrezio e di Marco Livio, che sono accampati in Etruria e nel territorio di Arimino. Tuttavia, se Magone ed Annibale non sono nella possibilità di portare alcun utile alla patria, questa si è accattivata l’aiuto di uno dei suoi più potenti vicini : Siface. L’artefice di questa alleanza è stato Asdrubale di Gisgone. Costui infatti, conoscendo che il re della Numidia era vincolato con un trattato di amicizia a Scipione, Asdrubale aveva fatto conoscere al re Siface la propria figlia Sofonisba, fanciulla di bellezza impressionante, che aveva sollevato una violenta passione nel cuore del re africano ed era riuscita a diventare sua moglie. In seguito alle nozze era seguito un trattato di alleanza con Cartagine e lo stesso Siface s’era affrettato a mandare dei legati a Scipione, proibendogli di passare in Africa. In seguito aveva assoldato un esercito di cinquantamila fanti e diecimila cavalli e si teneva pronto a portare soccorso a Cartagine messa in pericolo dai Romani. La diserzione del re Siface non scoraggiò affatto Scipione. Infatti nell’estate del 550 [di Roma] sia la flotta che l’esercito si trovano stazionate a Lilibeo: l’esercito è composto da trentacinquemila soldati, mentre la flotta conta quaranta navi rostrate e quattrocento grosse navi da carico. Quando arriva il giorno della partenza la riva è gremita di curiosi arrivati da ogni parte dell’ isola. Impettito sul ponte della sua nave ammiraglia, Scipione si rivolge solennemente agli dei del mare e della terra affinché siano favorevoli all’ impresa che sta per iniziare e perché facciano ritornare ancora vittoriosi gli eserciti di Roma e che possanoconquistare un grande bottino. Quindi, dopo il sacrificio della vittima designata, getta in mare gli intestini e comanda che la tromba dia il segno della partenza. Scipione e il fratello Lucio si trovano nell’ala destra con venti legni rostrati, mentre sulla sinistra, con un uguale numero di navi da guerra stanno Lelio e Marco Porcio Catone. La flotta prende la direzione di Emporia, ma a causa di una fitta nebbia essa viene deviata verso occidente e all’alba si trova in prossimità del promontorio di Mercurio. L’armata sbarca in questo punto e le truppe, posero gli accampamenti sui colli nelle vicinanze. Nello stesso tempo arriva nella città di Cartagine la notizia dell’avvenuto sbarco dei romani e i profughi del territorio nel quale sono i nemici . Lo spavento che ne sopravvenne fu grandissimo,anche perché gli abitanti di Cartagine, pensando che il nemico approdasse ad Emporia, avevano mandato in quel luogo tutte le loro forze. Fu raccolto in tutta fretta un corpo di soli cinquecento cavalieri il cui comando venne affidato ad Annone, un nobile cartaginese, e fu spedito al promontorio di Mercurio; costui venne assalito immediatamente dalla cavalleria di Scipione, venne messo in fuga e una parte dei cavalieri venne fatta a pezzi. Fra i morti si potè annoverare lo stesso Annone.In seguito a questo primo successo, Scipione cominciò a razziare il paese intorno, portando in ogni luogo la paura, e dopo aver assalita una ricca città catturò ottomila uomini che s’affrettò ad inviare in Sicilia quali primi trofei della spedizione. [MASSINISSA]. – In quei primi giorni della campagna d’Africa Massinissa si unì all’esercito dei romani. Non portava con sé dei grandi aiuti, forse duecento cavalli, secondo la testimonianza di alcuni, forse duemila come sostengono invece altri ; ma la fama di grande guerriero, l’ascendente che possedeva presso i popoli africani e l’odio intenso che nutriva verso Siface e la città di Cartagine lo rendevano ben accetto ai Romani. Massinissa era caduto in disgrazia parecchio tempo prima. Mentre combatteva in Spagna al seguito dell’esercito dei Cartaginesi, suo padre Gala era morto e il trono era toccato al fratello del re, Desalce. Tuttavia, poco tempo dopo anche De-salce aveva lasciato questa valle di lacrime e gli era succeduto Capusa, il maggiore dei suoi due figli; ma costui aveva regnato poco, poiché un suo parente, un tale Mezetullo, marito di una sorella del Cartaginese Annibale, dopo averlo ucciso in battaglia, s’era impadronito del trono proclamandosi tutore di Lacumace, il secondogenito di Capusa, e stringendo una alleanza con Siface. Venuto a conoscenza della morte dello zio e dell’uccisione del primo cugino, Massinissa aveva abbandonato la Spagna ed era accorso in Mauritania, e qui, essendo protetto da Beccare, re dei Mauri, aveva avuto la possibilità di raggiungere i confini della Numidia. Dopo aver radunato in-torno a sé, grazie al suo carisma. cinquecento cavalieri che erano amici di suo padre, aveva assalito e conquistato la città di Tapso ed, dato che il numero dei suoi aderenti era aumentato parecchio, aveva vinto in battaglia l’usur-patore Mezetullo e aveva così riconquistato il regno del padre. Ma la fortuna di Massinissa aveva avuto una du-rata molto breve. Infatti, sconfìtto dalle forze molto più numerose che Siface gli aveva mandato contro, si era rifu-giato con pochissimi uomini fedeli sul monte Balbo donde aveva iniziato a molestestare con delle scorrerie il terri-torio di Cartaginese.. Assalito da un esercito di Cartagine nel suo rifugio, dopo aver resistito eroicamente per un po’ di tempo, era riuscito a mettersi in salvo con soli cinquanta cavalieri; ma, alla fine, raggiunto e circondato dai nemici vicon a Clupea, pure questa volta, anche se era romasto ferito, aveva potuto sopravvivere con due com-pagni passando a guado un fiume in piena e nascondersi in una caverna. Dopo la guarigione dalla ferita, era rien-trato nei confini del proprio regno riuscendo a raccogliere intorno a sé un piccolo esercito di soli seimila fanti e quattromila cavalli, e alla testa di questo esercito aveva sostenuto una durissima battaglia contro il re Siface e suo figlio Vermina, tra Cirta e Hippo.Tuttavia il suo valore non era stato sufficiente e venne sopraffatto dalla moltitu-dine degli avversari e Massinissa. ancora con pochi uomini, era riuscito a sfuggire a stento alla morsa dell’esercito nemico e aveva trovato rifugio nel paese dei Garamanti. Con i pochi seguaci che gli erano rimasti lo sfortunato combattente si presentava a Scipione e gli offriva due cose che nessun altro generale accorto poteva rifiutarsi di accettare: una grandissima sete di vendetta ed un coraggio da leone.[Le prime vittorie di Scipione in Africa.]

– Preoccupandosi diconquistare una base per le operazioni future in Africa, Scipione cinge d’assedio ad Utica. Molestato da Annone, figlio di Amilcare, che aveva il comando di un cesercito formato da quattromila cavalli, con l’aiuto di Massinissa, seppe trarlo fuori della città di Salera, in un agguato e distruggerne l’esercito quasi al completo. In seguito, venuto a conoscenza che l’esercito di Siface, a cui si era aggiunto Asdrubale di Gisgone con trentamila fanti e tremila cavalieri, dato che non era in grado di espugnare Utica, Scipione tolse l’assedio e pose gli accampamenti su un promontorio situato nei pressi. L’inverno trascorse senza che avvenisse nulla di importante sul piano della guerra. A circa sette miglia dagli alloggiamenti dell’esercito romano sorgevano, in luoghi ben diversificati, il campo di Asdrubale e quello di Siface, costruiti con canne e stuoie e riparati intorno da semplici steccati. I nemici erano quasi centomila e Scipione, non osando assalirli, a causa della inferiorità numerica del suo esercito, che contava appena quarantamila uomini, ricorse allora all’astuzia. In un primo tempo finse di volere avviare delle trattative con il re Siface e, stipulata una tregua, mandò dei messaggeri al campo dei nemici. Costoro avevano il compito di osservare la disposizione degli accampamenti degli africani e le abitudini dell’esercito nemico. Però il re Siface ed il generale dei Cartaginese ebbero come risultato la distruzione dei loro campi anziché la pace. Scipione infatti, rotte improvvisamente le trattative, ordinò ad alcune schiere di occupare una collina nelle vicinanze di Utica, per sorvegliare il presidio di questa città e, sopraggiunta la sera, divise l’esercito in due parti; una di queste venne affidata a Lelio ed al re Massinissa, ai quali diede l’ordine di marciare contro il campo di Siface, mentre l’altra tenne per sé per condurla verso l’accampamento di Asdrubale. Favoriti dalle tenebre, i Romani giunsero verso la mezzanotte agli accampamenti nemici e dopo averli circondati, ne appiccarono il fuoco in vari punti degli alloggiamenti. I Cartaginesi e gli abitanti della Numidia, svegliati dal crepiti continuo del fuoco che bruciava l’accampamento, furono prima presi da un improvviso panico, poi si diedero a correre da una e dall’altra con lo scopo di spegnere il fuoco che era divampato e che si faceva sempre più impressionante; tuttavia, caduti senza le loro armi in mezzo alle schiere dei nemici che si trovavano lì, moltissimi andarono incontro alla morte. La strage perpetrata durante quella notte fu enorme.

Morirono quasi quarantamila uomini; altri seimila vennero catturati e fra costoro si trovavano undici senatori e molti nobili cartaginesi; furono razziate centosettantotto insegne militari, duemilasetteconto cavalli e sei elefanti oltre ad una enorme quantità di armi. Tuttavia Asdrubale e Siface con un esercito di ventimila fanti e cinquecento cavalieri riuscirono a porsi in salvo fuggendo. La notizia dell’avvenuta strage recò a Cartagine una grande paura. Il Senato venne radunato, alcuni proposero di mandare dei legati a Scipione al fine di trattare la pace, altri volevano richiamare Annibale dall’Italia, altri ancora di riorganizzare gli eserciti e di continuare la guerra fino alla vittoria. Il parere di questi ultimi fu quello prevalente. Siface, vinto dalle suppliche di Sofonisba, sua moglie, decise di rinnovare gli sforzi e di resistere fino a quando anche l’ultimo romano fosse scacciato dall’Africa. Tra Cartaginesi e Numidi vennero raccolti circa trentamila uomini che marciarono contro Scipione. La battaglia fu combattuta nella pianura detta dei Campi Magni e fu combattuta accanitamente sia da una parte che dall’altra. L’esercito di Scipione era schierato con in testa i principi, a questi seguivano gli astati ed i triarii. Scipione dispose la cavalleria romana all’ala destra e alla sinistra i Numidi comandati da Massinissa. Siface ed Asdrubale posero al centro del loro esercito un forte nerbo di mercenari celtiberi, mentre alla sinistra schierarono i Numidi e alla destra i Cartaginesi. Dopo il primo scontro i corni dell’esercito africano vennero respinti, ma il combattimento continuò vigoroso contro le schiere dei Celtiberi che si difesero per lungo lungo, disperatamente ed accanitamente e quasi tutti furono uccisi sul campo. Siface ed Asdrubale, grazie alla resistenza valorosa dei loro mercenari spagnoli, riuscirono a salvarsi fuggendo con una parte delle loro truppe.[Battaglia di Cirta.] – La sconfitta dei Campi Magni fu un colpo gravissimo per la città di Cartagine. Tutte le città del suo dominio che erano dislocate sulla costa, tranne alcune, e tra queste Utica che continuava a resistere, -spaventate, aprivano le porte al vincitore o venivano catturate. L’esercito dei romani si era spinto a quindici miglia da Cartagine occupando anche Tunisi e di là minacciava la capitale. La situazione in cui la repubblica africana veniva a trovarsi era delle più pericolose. Molti dei suoi cittadini più influenti consiglia-rono di venire a patti con Scipione, ma la maggioranza degli uomini ch’erano al potere si opposero fermamente. Secondo loro non tutto era ancora perduto; Siface disponeva ancora di molte truppe ed era disposto a continua-re la guerra ad oltranza; lo stesso Annibale poteva essere richiamato dall’Italia e ribaltare le sorti della sua patria insieme con suo fratello Magone; infine la flotta cartaginese era molto numerosa e poteva distruggere le navi di Scipione isolandolo dalla madre patria Roma. Le più grandi speranze di riscatto vennero riposte nella flotta ed in Siface, tuttavia le navi africane, anche se erano molto numerose non riuscirono a catturare se non una quindicina di legni romani. Siface intanto s’era ritirato entro i confini del proprio regno e probabilmente avrebbe tentato di avviare trattative di pace con Scipione se Asdrubale e Sofonista non gli avessero fatto cambiare opinione. In mo-do particolare quest’ultima, mettendo in opera tutte le sue arti di donna, riuscì a convincere il marito che era mol-to pericoloso abbandonare la guerra a questo punto, perché i Romani non potevano aver dimenticato che pro-prio lui aveva rotto l’alleanza e Massinissa non avrebbe permesso che il rivale rimanesse sul trono. Persuaso così con facilità di ritentar le sorti della guerra, Siface, richiamati alle armi tutti gli uomini del suo regno che erano an-cora validi, mise insieme un numeroso esercito e si diresse contro Lelio e Massinissa che, nel frattempo, erano penetrati nel suo territorio. Tuttavia anche questa volta la sorte fu contraria al re della Numidia. Sebbene le sue truppe fossero più numerose, non erano tuttavia agguerrite come quelle dei romani ed erano più adatte alla guer-riglia ed alle scorrerie che ad una battaglia campale vera e propria. A poche miglia da Cirta, capitale del regno della Numidia, l’esercito di Siface si scontrò con le schiere comandate da Massinissa e da Lelio. Il combatti-mento risultò di breve durata e fu abbastanza facile per i Romani di mettere in fuga gli Africani, che, dopo aver abbandonato tutte le loro armi, si diedero ad una scomposta e velocissima fuga. Siface, mentre si dava da fare per far ritornare i suoi combattenti alla battaglia, ebbe il cavallo ferito e, piombato di botto a terra, venne cat-turato. I morti dell’esercito della Numidia sul campo di battaglia furono cinquemila e non meno di tremila furono quanti vennero fatti prigionieri. I superstiti, spaventati per la cattura del loro re, si rifugiarono a Cirta. [Sofonisba.] – La città, sbarrate le porte e poste delle guardie sulle mura, si preparava a difendersi quando arrivò Massinissa con una parte dell’esercito vittorioso. Dopo aver radunato i principali cittadini a parlamento al di fuori delle mura, Massinissa li esortò a consegnare la loro terra, ma dato che essi si rifiutavano di farlo (poiché non sapevano che il loro re era caduto in mano nemica) , venne condotto davanti a loro il re Siface legato da pesanti catene. Quando videro il loro sovrano prigioniero venne abbandonato qualsiasi proposito di resistere e le porte vennero subito aperte. Massinissa, dopo aver occupato le porte e le mura di Cirta con alcuni dei suoi miliziani, entrò a cavallo nella città e si diresse al palazzo reale. Era appena smontato di sella e stava mettendo piede sulla soglia della reg-gia quando gli si presentò dinanzi una donna: Sofonisba. La regina, avendo veduto Massinissa e riconosciuto in lui dal portamento e dalle vesti che era il capo dell’esercito vincitore, gli s’inginocchiò davanti e gli disse, tra le lacrime: – Gli dèi immortali ti hanno dato in sorte di poter disporre della nostra vita e dei beni che ci appartengo-no; ma se ad una prigioniera è permesso di rivolgere una supplica al vincitore, se le è permesso circondargli le ginocchia e toccargli con umiltà la mano destra, ti domando e scongiuro, in nome della terra nella quale io e tu siamo nati, che non mi consegni nelle mani dei crudeli Romani. Preferisco esser la schiava di un uomo che ha la mia stessa nazionalità piuttosto che la serva di uno degli odiati nemici della mia patria. E se tu non hai la possibilità di salvarmi da una così grande vergogna, abbi pietà di me uccidendo la figlia di Asdrubale. Vinto piuttosto dalla bellezza più che dalle lacrime della regina, Massinissa promise che non l’avrebbe mai consegnata ai Romam, ma subito s’accorse di aver fatto una promessa che non avrebbe avuto la possibilità di mantenere molto facilmente. Sofonisba apparteneva ai Romani per diritto di guerra. Tuttavia la regina era ancora giovane e bella; la sua voce era dolce ed armoniosa mentre il suo sguardo era molto affascinaqnte. Dal primo istante che Massinissa la vide e ne aveva ascoltato l’accento, s’era innamorato perdutamente di lei. Accecato dalla passione amorosa e deciso, ad ogni costo, di salvarla dalla prigionia, prese la decisione di sposarla. D’altronde Scipione, pensava, non avreb-be mai fatto un affronto all’amico conducendone schiava la moglie. Nel giorno stesso della resa di Cirta vennero celebrate le solenni nozze. Poco dopo giunse Lelio, e Massinissa ottenne a stento che Sofonisba non fosse man-data da Scipione con il marito prigioniero. Costui, una volta arrivato al campo dei romani, fu condotto alla pre-senza di Scipione e al generale che gli rimproverava di aver rotto il trattato disse che il responsabile di tutte le sue traversie era stata la moglie, la perfidia figlia di Asdrubale, che, avendolo stregato con la sua bellezza, lo aveva obbligato a tradire l’amicizia con Roma, e ad armarsi in favore di Cartagine. Aggiunse inoltre che Sofonisba,così come aveva rovinato lui, sarebbe stata la causa della rovina di Massinissa. Le parole riferite da Siface preoccu-parono moltissimo Scipione, che, dopo aver richiamato a sé Massinissa, lo rimproverò con cautela per l’incon-sulto matrimonio che aveva fatto e gli ordinò di consegnargli immediatamente la donna. Combattuto tra la voce imperiosa del dovere e la promessa che gli era stata strappata dalla regina, Massinissa mandò alla moglie, ser-vendosi di un fedele servitore, un veleno potente in modo che, usandolo per la bisogna, essa potesse sottrarsi alla schiavitù. Si dice che al servo che le porgeva la coppa con il veleno Sofonisba dicesse : ” Poiché il marito non ha potuto inviare alla moglie niente di meglio, ricevo volentieri questo regalo nuziale. E tu riferisci al tuo padrone che non mi lamento della morte, ma piuttosto di esser venuta meno, sposandolo, al giuramento che avevo fatto di odiare per sempre i Romani”. Dopo avere detto queste parole piene di fierezza, la coraggiosa figlia di Asdrubale bevve il veleno fino all’ultimo sorso.[Morte di Magone – Annidale lascia l’Italia.] – Dopo la sconfitta di Asdrubale e la cattura di Siface – che, mandato a Roma in un primo tempo, era stato in seguito confinato ad Alba, nella regione degli Equi – a Cartagine non restava che una sola speranza di salvezza: che Magone ed Annibale ritornassero in patria per dare man forte alla città. Tuttavia era di primaria importanza impedire che Scipione s’impadronisse della città prima che i due cartaginesi ritornassero in patria. Essendo a conoscenza del fatto che non avevano forze sufficienti per resistere ad un assalto diretto dell’esercito romano, il Senato cartaginese inviò a Scipione trenta ambasciatori con il compito primario di chiedere la pace. Il generale romano impose le queste condizioni per accordare quanto chiedevano: consegna di tutti i prigionieri, ritiro degli eserciti di Cartagine dalla Gallia e dall’Italia, rinuncia alla Spagna ed alle isole situate fra l’Italia e l’Africa, consegna di tutta la flotta tranne venta navi, pagamento di cinquemila talenti, cinquecento mila moggi di grano e trecentomila d’orzo. In un primo momento Cartagine finse d’accettare le condizioni imposte da Scipione e, dopo aver firmato una tregua, mandò degli ambasciatori a Roma al fine di concludere la pace. Tuttavia nello stesso periodo spedì dei legati ad Annibale e a Magone, pregandoli di tornare in patria con i loro eserciti. Quando gli ambasciatori approdarono in Liguria, Magone, che era rimasto gravemente ferito, ritornava dall’ Insubria dove il suo esercito era stato vergognosamente sconfìtto dalle legioni guidate dal proconsole Marco Cornelio e del pretore Publio Quintilio Varo. Considerate le sue condizioni di salute, Magone non ebbe problemi a lasciare l’Italia; infatti, imbarcatosi coi resti del suo striminzito esercito, fece prontamente vela per la la sua patria, tuttavia non potè mai rivedere le coste dell’Africa perché, giunto vicino all’isola di Sardegna, morì; molte delle sue navi, sorprese dalla flotta romana che incrociava in quelle acque, vennero catturate. Annibale invece si trovava a Cotrone quando arrivarono presso di lui gli ambasciatori di Cartagine scongiurandolo di ritornare in Africa. Non senza dispiacere il generale acconsentì all’ invito della patria. Egli si trovava in Italia da sedici anni ; parecchie volte aveva vinto gli eserciti dei suoi nemici, aveva espugnate numerose città, aveva per corsala penisola in lungo ed in largo, era giunto a spingersi quasi fin sotto le mura di Roma. Ora era costretto a rinunciare al suo progetto, di conquistare cioè d’Italia, prendere l’odiata Roma e andarsene invece come un fuggiasco, precipitosamente, per poter difendere la patria minacciata da Scipione. La notizia che Annibale era partito fu causa di una grandissima gioia a Roma. Per parecchi giorni furono rese pubbliche grazie agli dèi e al novantenne Quinto Fabio Massimo fu solennemente consegnata la corona d’alloro. Il venerando capitano, che con la sua saggezza una volta aveva salvato la repubblica, non potè però aver la gioia di vedere Cartagine sconfitta definitivamente poiché morì quello stesso anno prima della battaglia decisiva sui campi di Zama. Annibale lasciò dunque l’Italia nell’autunno del 551 [di Roma]. Il suoi esercito era ridotto a poche migliaia d’uomini e le navi di cui disponeva erano scarse. È stato scritto che il Cartaginese, non sapendo come portarli in Africa a causa della mancanza di mezzi di trasporto, fu costretto ad uccidere quattromila cavalli. Dopo una tranquilla navigazione, Annibale approdò a Lepti, città situata a sud-est del golfo di Cartagine, e da qui si recò ad Adrumeto. In questa località ricevette da Asdrubale di Gisgone alcune schiere di mercenari e quello che rimaneva dell’esercito del fratello Magone, quindi si recò in Numidia. Lo scopo principale di Annibale era quello di rifornirsi di cavalli e di aumentare il numero del suo ersercito prima di scontrarsi con Scipione. Dunque penetrato nel territorio dei Numidi, Annibale ricevette i pochi aiuti di cui poteva disporre il figlio dello spodestato Siface, Vermina, e con questi riconquistò una parte della Numidia. Il Cartaginese avrebbe potuto estendere maggiormente le sue conquiste e reclutare un numero più considerevole di soldati se Publio Cornelio Scipione gliene avesse lasciato il tempo; tuttavia il generale romano, dopo aver rotto la tregua con Cartagine, marciò in tutta fretta contro il nemico e lo raggiunse a Zama presso la città di Noraggara sul fiume Bagrada.[Battaglia di Zama.] – Gli storici raccontano che, prima di affrontare le sorti della battaglia, Annibale tentò di mettersi d’accordo con Scipione. Secondo la tradizione Annibale si dichiarò pronto ad accettare tutte le condizioni che Scipione aveva imposte ai Cartaginesi, ma, poiché costui aveva chiesto la restituzione di alcune navi che erano cadute cadute nelle mani dei cartaginesi durante la tregua ed una indennità per offese recate ad alcuni degli ambasciatori romani, Annibale oppose un netto rifiuto e si lasciò che le armi decidessero le sorti della guerra. La battaglia venne combattuta il 19 ottobre del 552 di Roma. Le forze erano pressochè uguali, poiché ciascuno disponeneva di due eserciti composti da circa cinquantamila uomini. Scipione, tuttavia, aveva l’unico vantaggio di possedere una cavalleria più numerosa e truppe di una stessa nazione che possedevano le medesime armi e gli stessi modi di combattere; inoltre erano rese baldanzose dalle recenti vittorie ottenute. Annibale era superiore per il numero della fanteria; ma questa era una superiorità che non poteva avere un grande peso nella battaglia poiché le sue truppe appartenevano a varie lingue ed a diverse nazionalità. Cartaginesi, Numidi, Balearici, Bruzi, Liguri, Galli e perfino Macedoni, che erano stati inviati da Filippo, per la maggior parte erano poi dei mercenari, per nulla animati dall’ amor di patria e non amalgamati da un’unica e salda disciplina. La cavalleria era molto inferiore per numero di componenti, quella stessa cavalleria che gli aveva fatto vincere tutte le battaglie che aveva combattuto in precedenza. Egli contava sull’arrivo dei cavalieri di Vermina, ma quando costoro giunsero sul luogo del fatto d’arme, la battaglia era finita da un po’ e l’esercito del figlio di Siface, circondato, aveva lasciato sul campo quindicimila fanti e millecinquecento cavalli. In compenso Annibale aveva ottanta elefanti ed egli faceva grande affidamento su questi, ma furono proprio gli elefanti coloro che diedero principio alla sua sconfitta. Scipione aveva schierato il proprio esercito lungo tre linee; nella prima aveva collocato gli astati, nella seconda i principi e nella terza i triari, ma volle che tra un manipolo e l’altro ci fosse una certa distanza perché gli elefanti del nemico potessero passare tra gli spazi vuoti senza recare disordine alle schiere. La cavalleria italica era comandata da Lelio e fu posta all’ala sinistra mentre quella numidica, comandata da Massinissa, venne collocata sulla destra. Davanti alle insegne furono schierati i veliti con l’ordine di aprirsi quando gli elefanti fossero apparsi e di attaccarli ai fianchi. Annibale mise alla testa del suo schieramento gli elefanti che dovevano costituire la massa di sfondamento, poi, come prima linea d’armati, i mercenari della Gallia e della Liguria mischiati con i Mauri e con i Balearici. In seconda linea collocò il nerbo delle sue truppe composto di milizie cartaginesi e della legione macedone, e nella terza i soldati d’Italia della cui fedeltà si fidava pochino. La cavalleria cartaginese trovò la propria collocazione sulla destra, la numidica sulla sinistra. I Romani iniziarono la battaglia allo squillo delle trombe e alzando grida fortissime, che spaventarono, a quanto riferisce Tito Livio, gli elefanti, i quali, girate le spalle ai Romani, misero lo scompiglio nell’ala sinistra di Annibale. Di questo episodio approfittò Massinissa che, con una carica vigorosa dei suoi cavalieri, finì di sbaragliare la cavalleria numidica. Pochi elefanti, non impauriti, riuscirono a penetrare tra i veliti, ma presi d’assalto di fronte dalle fanterie romane e di fianco dai soldati armati alla leggiera, furono costretti a girare le spalle, scompigliando, nella loro fuga caotica, la cavalleria cartaginese dell’ala destra, che, allo stesso modo della sinistra, venne caricata con vigore da Lelio e vergognosamente sconfitta. L’esercito dei Cartaginesi era stato sguarnito ai due lati della cavalleria, quando le fanterie di Annibale entrarono nella battaglia; ma i mercenari della prima linea non riuscirono a sostenere per lungo tempo l’urto degli astati romani e, ripiegando, cercarono riparo tra le schiere della seconda. Così i Cartaginesi ed i Macedoni li spinsero avanti e verso i lati e riuscirono ad entrare nel combattimento dando un gran da fare agli astati che erano già stanchi, e che Scipione si affrettò a sostituire con i principi e i triari. La battaglia andava avanti accanita da una parte e dall’altra delle fanterie quando la cavalleria di Lelio e quella di Massinissa, tornando dall’ inseguimento, assalirono alle spalle i fanti di Annibale e decisero così le sorti della battaglia in favore dell’esercito di Scipione. Più di ventimila delle truppe di Cartagine rimasero uccisi sul terreno ed altrettanti vennero fatti prigionieri. Vennero conquistare centotrentatre insegne ed undici elefanti catturati. Dalla parte dei Romani perirono diecimila soldati. Annibale con un manipolo di cavalieri, resosi conto che ormai la battaglia era perduta, fuggì ad Adrumeto. Da qui si recò a Cartagine e consigliò il Senato di concluderela pace. Questo successo gli procurò il soprannome di Africano.

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