RIVOLTA DI NIKA

RIVOLTA DI NIKA

RIVOLTA DI NIKA


Nell’Impero romano d’Oriente non c’erano veri e propri partiti, ma c’erano
comunque delle fazioni che dividevano la città. Le due più importanti erano i
Verdi e gli Azzurri.
I Verdi erano seguaci di un’eresia chiamata monofisismo (per loro Gesù era
solo divino e non era umano) e ostili a Giustiniano che invece era cattolico,
perciò sostenevano che il vero sovrano doveva essere uno dei due nipoti di un
imperatore morto nel 518. I Verdi inoltre erano aristocratici.
Gli Azzurri invece appartenevano alla classe popolare, erano persino detti i
Miserabili; sostenevano Giustiniano e Teodora, appoggiando il loro governo
(la stessa Teodora, prima di diventare imperatrice, faceva parte della classe
popolare). Pertanto, all’inizio, Giustiniano ricambiava il favore chiudendo un
occhio ogni volta che creavano disordini in città: in pratica non li puniva anche
se infrangevano la legge come dei teppisti. Col tempo, però, gli scontri tra
Verdi e Azzurri divennero sempre più violenti. Giustiniano decise quindi che
era il momento di usare le maniere forti.
Verdi e Azzurri, oltre a essere due fazioni sociali e politiche, erano anche
tifosi nelle gare dei cavalli che si svolgevano all’ippodromo; ovviamente tifavano
per squadre avversarie e spesso venivano alle mani. Il 10 gennaio 532, uno
spettatore morì e il prefetto (cioè un senatore col compito di gestire l’ordine
cittadino) fece arrestare sette tifosi. Cinque di loro morirono impiccati, gli altri
due – un Verde e un Azzurro – sfuggirono miracolosamente alla morte perché il
patibolo si era rotto. A quel punto scapparono e si rifugiarono in una chiesa là
vicino. I Verdi e gli Azzurri chiesero entrambi clemenza a Giustiniano, che era
affacciato alla tribuna imperiale del suo Gran Palazzo; Giustiniano rifiutò.
Per la prima volta, Verdi e Azzurri si coalizzarono contro l’imperatore. Il
motivo non era solo il rifiuto della grazia per i condannati. Da tempo, infatti,
Verdi e Azzurri, oppressi dalle tasse “necessarie” per mantenere il lusso della
corte imperiale, accusavano il governo di non ascoltare le loro richieste, essere
ingiusto e troppo severo, oltre che corrotto e fin troppo ricco. Fischi e proteste
si levavano dalle gradinate, finché tutti gridarono “Níka!” (“Vinci!” in greco).
Giustiniano, spaventato, si barricò nel Gran Palazzo assediato dai rivoltosi, fece
promesse e minacce: le cose promesse e i rinforzi arrivarono tardi. Giustiniano
decise di fuggire, lasciando la città e l’Impero. L’intervento di Teodora evitò il
disastro. “Anche se con la fuga mi dovessi salvare, non vorrò vivere senza essere
salutata da imperatrice, tanto vale morire qui; se vuoi, hai il denaro e la nave è
pronta, vai pure; quanto a me, sapevo già che la mia porpora sarebbe stato il
mio sudario, quindi non fuggirò con te, io resto!”, così disse al marito. La porpora
era il colore usato per le vesti della famiglia imperiale: lei preferiva morire da
imperatrice, nel palazzo, coi suoi lussuosi abiti addosso, piuttosto che continuare
a vivere come una donna qualunque, in esilio, vestita chissà come.
Giustiniano rimase e ordinò di prelevare il tesoro, portarlo all’ippodromo e
distribuirlo ai capi dei ribelli, al popolo, a chiunque era ancora nelle strade. Se ne
occupò il generale Narsete. La pace era tornata. Qualche giorno dopo giunsero
i rinforzi dal fronte persiano (l’Impero era in guerra con la Persia), al comando
del generale Belisario che, su ordine di Giustiniano, irruppe nell’ippodromo e
fece strage dei rivoltosi. Il bagno di sangue rafforzò il potere dell’imperatore:
nessuno avrebbe più osato contestare un suo ordine con una rivolta.