Riassunto Il giardino dei Finzi Contini

Riassunto Il giardino dei Finzi Contini

Riassunto Il giardino dei Finzi-Contini


Questo romanzo, in apparenza, racconta una storia abbastanza semplice, quella di un amore che cresce negli anni fino a giungere a una disillusione finale. Fra i personaggi, invece, anche se la storia è narrata in prima persona dal protagonista maschile, domina la figura di Micòl, la fanciulla amata. Ella viene descritta in tutta la sua vitalità, quasi a crearne un ricordo imperituro e insieme per ottenere un netto contrasto con la morte che, ci viene preannunciato, le è destinata all’interno di un lager. E’ Bassani stesso a dividere Il giardino dei Finzi-Contini in quattro parti, più un Prologo e un Epilogo. Nel Prologo il protagonista ci informa di come, nel 1957, una visita alla necropoli etrusca di Cerveteri l’abbia spinto a riflettere sul rapporto di affetto dei vivi per i morti, che si mantiene costante in ogni epoca. Proprio queste riflessioni lo portano indietro alla sua giovinezza ferrarese e alle visite al cimitero insieme alla madre. Da questo pensiero scaturisce il triste ricordo della monumentale tomba dei Finzi-Contini, che sembrava costruita per accogliere generazioni innumerevoli e invece, fra tutti i membri della famiglia conosciuti dall’autore ne contiene solo uno. “Infatti non vi è stato sepolto che Alberto, il figlio maggiore, morto nel ’42 di un linfogranuloma; mentre Micòl, la figlia secondogenita, e il padre professor Ermanno, e la madre signora Olga, e la signora Regina, la vecchissima madre paralitica della signora Olga, deportati tutti in Germania nell’autunno del ’43, chissà se hanno trovato una sepoltura qualsiasi.”
La Prima parte prende spunto dalla descrizione della tomba per narrarne la storia, passando poi al ritratto della casa, un tempo “una specie di maniero neogotico” circondato da uno splendido giardino e ora danneggiata dai bombardamenti e occupata dagli sfollati, mentre “il giardino non esiste più, alla lettera”. Si passa poi alla narrazione della storia della famiglia, fino alla morte a sei anni del primogenito del professor Ermanno e della signora Olga; questo fa sì che Alberto e Micòl, nati in seguito, vengano protetti fino all’eccesso. In questo modo, l’unica occasione che il protagonista ha di vedere i due fratelli sono le cerimonie alla sinagoga. Durante le benedizioni, in particolare, i tre ragazzi si scambiano sguardi da sotto i lembi delle mantelle paterne: “Lo guardavo [il professor Ermanno]. Sotto di lui, per tutto il tempo che durava la benedizione, Alberto e Micòl non smettevano di esplorare anche essi fra gli spiragli della loro tenda. E mi sorridevano, e mi ammiccavano, ambedue curiosamente invitanti: specie Micòl.” Poi, un giorno, il narratore viene rimandato a Settembre: disperato, vaga per le strade della città fino a fermarsi piangente sotto il muro del famoso giardino, da cui improvvisamente sbuca la testa di Micòl. “mi guardava dall’alto, la testa bionda al sole, tranquilla come se il nostro non fosse stato un incontro casuale, assolutamente fortuito, ma come se, a partire magari dalla prima infanzia, le volte che ci eravamo dati convegno in quel posto non potessero nemmeno più contarsi.” Dopo un breve incontro, però, i due ragazzi devono separarsi, anche se il narratore nota che ” il suo ultimo sguardo era stato per me.”
La Seconda parte comincia dicendoci che, dopo un silenzio di circa dieci anni (i personaggi principali sono ormai universitari) i due fratelli si fanno nuovamente vivi per invitare il loro amico, con altri giovani ebrei e non, a una serie di partite di tennis nel loro campo privato. Siamo infatti nel 1938 e, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, tutti i ragazzi semiti sono stati espulsi dal Circolo Tennistico della città. A rispondere alla telefonata d’invito è il padre del protagonista, e questo è uno degli episodi usati nel corso del libro per delinearne il carattere. Ne emerge la figura di un uomo abbastanza anziano, amareggiato dai tempi e dall’atteggiamento del figlio, il quale sembra non comprenderlo. “E non vedevo come fosse invecchiato in quell’ultimo anno? Con la mamma e con Fanny non era il caso che si confidasse […] Con Ernesto nemmeno […]. Con chi doveva parlare, allora? Possibile che non capissi che era proprio di me che lui aveva bisogno?” D’altro lato, come quasi tutti, egli sembra non volersi accorgere fino in fondo di quanto sta realmente accadendo. “Però devi ammetterlo – dice al figlio – Hitler è un pazzo sanguinario, mentre Mussolini sarà quello che sarà, machiavellico e voltagabbana fin che vuoi, ma …”. E per questo, forse, si trova in contrasto con il narratore, che invece ha capito e accettato fino in fondo la terribile situazione e può prevederne le conseguenze. La sezione del libro prosegue poi con una garbata quanto lunga descrizione dei pomeriggi alla villa, dei contatti con gli altri membri della famiglia e delle visite al giardino in compagnia di Micòl.
La Terza parte è quella in cui la figura della fanciulla è meno presente fisicamente, pur facendosi sentire. Questa sezione si apre infatti con la dichiarazione esplicita che l’autore fa a se stesso del proprio amore per lei (“Se quel pomeriggio di pioggia nel quale era terminata d’un tratto la luminosa estate di San Martino del ’38 io fossi riuscito perlomeno a dichiararmi forse le cose, fra noi, sarebbero andate diversamente da come erano andate”), amore che però non può più essere dichiarato facilmente. Prima, infatti, i “nostri” sono tenuti separati dal maltempo, e poi dal recarsi di Micòl a Venezia per completare l’università, e possono quindi sentirsi solo per telefono o per lettera. L’affetto del protagonista è però nutrito, oltre che da questi labili contatti, anche dalla frequentazione assidua di casa Finzi-Contini. Dapprima infatti Alberto prende a invitarlo spesso nel pomeriggio o a cena insieme a un altro amico, Giampiero Malnate, un giovane comunista di origini lombarde e dalle convinzioni piuttosto accese. In seguito è il professor Ermanno a insistere perché il giovane usufruisca della ricca biblioteca di famiglia per portare a termine la tesi di laurea su Carducci, e questi accetta volentieri, sia perché “Fra i quasi ventimila libri di casa ce n’erano sul serio parecchie centinaia che appartenevano alla letteratura della Nuova Italia. Di quanto poi era uscito dall’ambiente carducciano di fine secolo si può dire che non mancasse nulla”, sia spinto dal desiderio di stare il più possibile in quella casa che gli parla di Micòl: “forse sarei riuscito a finirla anche prima. Ma era davvero questo che avevo cercato? O non avevo cercato, piuttosto, di conservare il più a lungo possibile il diritto di presentarmi a casa Finzi-Contini anche di mattina?”. Finalmente Micòl torna, con la notizia della propria laurea col massimo dei voti ma senza lode perché ebrea. La notte di Pasqua, trovandola a casa, il protagonista non può trattenersi dal baciarla, ma per quella sera tutto si chiude in un solo momento subito cancellato per tacito accordo.
La Quarta e ultima parte potrebbe essere definita un lento e inesorabile precipitare verso la tragedia. I rapporti fra i due protagonisti continuano, con la finzione che non sia accaduto nulla, finché una sera, andando a trovare Micòl che è a letto ammalata, il narratore tenta di nuovo di baciarla. “Allora mi inginocchiai di fianco al letto, l’abbracciai, la baciai sul collo, sugli occhi, sulle labbra. E lei mi lasciava fare, però sempre fissandomi, e, con piccoli spostamenti del capo, cercando sempre di impedirmi che la baciassi sulla bocca E in uno schianto subitaneo di tutto me stesso, ebbi il senso preciso che stavo perdendola, che l’avevo perduta.” A questa scena imbarazzante fa seguito un periodo di freddezza, alla fine della quale il protagonista fa a Micòl una scenata “accusandola” di avere un altro innamorato, e ella gli impone di diradare i contatti. La separazione forzata spinge il giovane a frequentare più assiduamente Giampiero Malnate che, pur non sembrandone dispiaciuto, ha spesso un’aria strana, in particolare quando la sera si accomiata dall’amico accompagnandolo fino a casa. Nei loro discorsi, i due toccano anche il tema della salute di Alberto: “Non c’era dubbio, dissi: secondo me Alberto aveva qualcosa. Non aveva notato come respirava a fatica? E non gli sembrava perlomeno strano che nessuno di casa sua […] avesse preso finora la benché minima iniziativa per curarlo? […] Calmi, sorridenti, serafici, non muovevano un dito.” Ma anche Malnate sembra negare l’evidenza, ennesimo episodio di ottusità voluta del romanzo. Infine, una sera, l’autore si reca di nascosto nel giardino dei Finzi-Contini e, trovando illuminato lo chalet-capanno degli attrezzi, improvvisamente capisce. “Micòl, sicuro. Con Giampi Malnate. Con l’amico intimo del fratello ammalato. Di nascosto dal fratello e da tutti gli altri di casa, genitori, parenti, servi, e sempre di notte […]. Di nascosto proprio? O invece gli altri come sempre fingevano di non vedere, lasciavano correre, anzi sotto sotto favorivano, essendo in fondo umano e giusto che una ragazza a ventitré anni, se non vuole o non può sposarsi, abbia lo stesso tutto ciò che natura comanda? Perfino la malattia di Alberto mostravano di non vederla, in casa. Era il loro sistema.”
“La mia storia con Micòl Finzi-Contini termina qui.” Questo è l’inizio dell’Epilogo che, in tono scarno, ci informa degli ultimi avvenimenti, del resto già quasi tutti narratici nel Prologo: la morte di Alberto e la successiva deportazione degli altri. L’unico elemento aggiunto è l’uccisione di Malnate sul fronte russo. Infine, il romanzo si chiude con un’ultima dedica a Micòl e con un estremo dubbio sulla sua relazione, in fondo solo presunta, con Giampiero. Lo stile secco di quest’ultima parte non fa altro che acuire la sensazione che tutto il libro dà, a cominciare dall’anticipazione del finale, di un destino ineluttabile, anche però a causa del non voler vedere la realtà. Chissà, sembra dirci Bassani, forse ammettendola in tempo si sarebbe potuto curare la malattia di Alberto e evitare la deportazione. Ma, considerato il comportamento che è stato tenuto, queste drammatiche morti diventano solo l’epilogo inevitabile di una tragedia iniziata molto a monte.

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