RECENSIONE A LETTERA A FRANCESCO VETTORI

RECENSIONE A LETTERA A FRANCESCO VETTORI


Recensione a “Lettera a Francesco Vettori” di NICCOLÒ MACHIAVELLI

Per tutto il periodo di Segretariato alla Seconda Cancelleria di Firenze, Niccolò Machiavelli è un personaggio importante, instancabilmente impegnato, con uno stile di vita necessariamente rivolto alla praticità. I suoi svaghi culturali, pur in una città fervente dal punto di vista artistico, sono ridotti al minimo. Egli rappresenta una figura di intellettuale completamente nuova rispetto al passato, come dimostra anche la visione utilitaristica dell’arte dello scrivere.

Solamente dopo le disgraziate vicende personali dovute alla caduta della Repubblica ed al ritorno mediceo, che lo estromettono dalla scena politica cittadina, trova il tempo di dedicarsi all’attività letteraria, componendo quei testi trattatistici o teatrali che lo rendono conosciuto al giorno d’oggi.

Uno dei primi documenti che segnalano questa svolta è la “Lettera a Francesco Vettori”, scritta dallo stesso Machiavelli e facente parte del suo “Epistolario”.

Si tratta di una lettera nodale per comprendere l’esistenza del personaggio nel periodo a cui si riferisce, in quanto è l’autore stesso a spiegare la sua nuova situazione, lo svolgimento delle proprie giornate, le delusione e l’amara rassegnazione per il presente, i progetti letterari e le speranze per il futuro.

“[…] mi pareva haver perduta no, ma smarrita la gratia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi, et ero dubbio donde potessi nascere la cagione”: l’incipit fa immediatamente capire quale sia lo sconforto che abbatte l’animo di Machiavelli. Il fatto di sentirsi punito ingiustamente dalle istituzioni per cui tanto si è prodigato ed il dover adattarsi ad un’esperienza di vita molto aspra per un uomo abituato ai contatti umani, toglie a Machiavelli ogni certezza mentre gli spiana la strana verso nuovi interrogativi, che lo portano a dubitare persino del rapporto con amici intimi come Francesco Vettori.

Con questa nuova realtà, l’ormai ex “Segretario fiorentino” deve comunque convivere. Lo fa attraverso la caccia, con le passeggiate nei boschi spese a chiacchierare con i boscaioli, mediante la lettura degli autori classici “[…] o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovvidio et simili […]”, ma anche scambiando qualche parola all’osteria. Tuttavia la piatta quotidianità della villa non è paragonabile a quella recalcitrante di città, cui Macchiavelli è avvezzo; non si presentano stimoli capaci di rendere meno pedante il tempo che scorre lento: “Così rinvolto entra questi pidocchi traggo el cervello di muffa, et sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi”. Macchivelli scrive di essere afflitto da un tedio insopportabile, tuttavia, non potendo far nulla per opporvisi, lo subisce  passivamente, ma in atteggiamento quasi di sfida verso la sorte, il tempo, la fortuna: la sua è una battaglia contro qualcosa di immateriale ma più spaventevole di qualsiasi esercito nemico, più pesante di un macigno, però Machiavelli vi resiste in un mirabile atto di forza dettato dalla pazienza: “Et poiché la Fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciala fare, stare quieto et non le dare briga, et aspettar tempo che le lasci fare qualche cosa agl’huomini”.

In un passaggio della lettera, l’autore dice di avere intanto riscoperto l’utilità (non solo pratica) dello scrivere: disquisendo alle corti di ricchi signori su svariate vicende ed “actioni”, appuntandosi i loro discorsi più interessanti, proiettando poi il suo modo di vedere e fare politica nei contesti pubblici a cui non poteva partecipare, Machiavelli arriva a comporre un testo, intitolato “Principe”, che sarà il suo capolavoro assoluto (“[…] composto uno opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, e’ si mantengono, perché e’ si perdono”).

Ma se nelle intenzioni iniziali lavorare a questo ambizioso progetto serve a Machiavelli per tornare in un certo senso parte integrante del sistema relativo alla cosa pubblica, in realtà la nostalgia del personaggio per il suo ambiente non fa così altro che aumentare: Machiavelli si sente pieno di idee, ricco di esperienza e pronto a servire il nuovo corpo governativo: i Medici (“[…] appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi incominciassero adoperare […]”). Non fa giri di parole Machiavelli con l’amico quando deve sostenere le proprie ragioni, ma presenta un chiaro panegirico di se stesso: “Et della fede mia non si dovrebbe dubitare, perché, avendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; et chi è stato fedele e buono 43 anni, che io ho, non debbe potere mutare natura; et della fede et della bontà mia ne è testimonio la povertà mia”.

La pregnanza delle parole profuse in tutta la lettera dall’autore, fa capire la centralità di essa per comprendere l’indole e i pensieri di un personaggio inarrestabile come Machiavelli è. Vero e proprio luminare nella sfera di sua competenza, dotto di nuovo genere, non astratto ma pragmatico, uomo centro del proprio universo, savio nell’accettare gli eventi così come vengono, caparbio nel riordinarli.