PROPAGANDA FASCISTA E LO SPORT

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E’ nel ‘900 che lo sport assume un ruolo sociale estremamente rilevante. Ed è tra le due guerre mondiali che esso diventa un efficacissimo mezzo di propaganda ideologica e politica al servizio dei regimi totalitari in Europa. Essi affidano ai successi sportivi l’immagine della grande potenza della loro nazione.
A dispetto del ruolo di potenza secondaria dell’Asse, è l’Italia fascista la vera grande protagonista dei trionfi sportivi degli anni ’30. Il regime fascista costituì il primo esempio di utilizzazione sistematica da parte di uno Stato dello sport come mezzo di propaganda. Il modello italiano trovò imitatori in un po’ tutti i regimi totalitari europei ed extraeuropei, ad esso contemporanei e non, a partire dal Terzo Reich. Fu Mussolini il primo ad intuire l’importanza che lo sport avrebbe potuto avere a fini propagandistici, nonché come mezzo per la creazione di un’identità nazionale. A tal fine promosse e incentivò le strutture sportive in ambito scolastico ed extrascolastico, oltre a presenziare spesso alle gare e a praticare in prima persona diverse discipline. Trasformò in breve lo sport in un vero e proprio fenomeno di massa. I risultati furono strepitosi. L’Italia, grande protagonista dei giochi di Los Angeles 1932, iniziò a fregiarsi del titolo di “nazione sportiva per eccellenza”. Erano quelli i primi frutti di un lavoro meticoloso sui giovani: dai balilla agli avanguardisti ai ragazzi dei fasci giovanili l’attenzione dedicata allo sport era notevole, sia a livello individuale che nelle competizioni di gruppo. A ciò fu progressivamente unito con sempre maggiore insistenza l’elemento ideologico: lo sport doveva divenire nel trionfo l’emblema della nazione fascista guerriera che primeggiava nel mondo. E i trionfi non si fecero attendere. Nel 1933 Primo Carnera divenne il primo (e unico) campione dei pesi massimi di boxe italiano della storia, per la gioia dei fascisti che non persero l’occasione di pubblicare le foto sui giornali del campione in camicia nera nella celebre posa del saluto romano. Per il Duce egli incarnava la “potenza della nazione fascista”. Quella fu indubbiamente un’occasione di propaganda formidabile sfruttata appieno dal regime che al contrario, quando il campione perse, censurò la notizia quasi del tutto. Se possibile in seguito l’attenzione del regime per lo sport andò aumentando: dai cinegiornali del Luce alle telecronache in radio, i successi nazionali raggiungevano tutti o quasi. Soltanto Gino Bartali diede qualche grattacapo al regime rifiutandosi di vestire la camicia nera in occasione della sua vittoria del Tour de France nel 1938 e, non a caso, fu parzialmente censurato.
Tuttavia il caso più emblematico di sport usato dal regime a fini propagandistici fu il calcio. Sebbene il fascismo preferisse sport tradizionalmente più accademici come la scherma, o più moderni come l’automobilismo, a differenza delle classi politiche che l’avevano preceduto comprese immediatamente la presa che poteva esercitare sulle masse uno sport come il calcio, pur tra molte perplessità a proposito della sua validità dal punto di vista strettamente sportivo; per questo ne fece uno sport istituzionalmente fascista già dal 1926, sfruttato in patria per distogliere l’attenzione dai contrasti politici e sviluppare il senso d’identità nazionale e all’estero come strumento diplomatico per migliorare l’immagine del regime a livello internazionale.

L’Italia riuscì ad ottenere l’organizzazione della coppa Rimet, la coppa del mondo, del 1934 a seguito degli enormi sforzi del Duce, perfettamente consapevole della ghiotta opportunità di propaganda per il suo regime agli occhi di tutto il mondo. La prima decisione fu di allestire un’organizzazione perfetta in ogni particolare. Furono costruiti stadi nuovi di zecca all’avanguardia in molte città e le strutture per gli atleti risultarono perfette. A coronare questa immagine di efficienza organizzativa fu il trionfo dell’undici di Vittorio Pozzo che mandò in visibilio la folla e un compiaciutissimo Mussolini. Quel trionfo fu magnificato a Roma e i campioni furono premiati con la medaglia d’oro all’onor sportivo per “l’epico trionfo dello sport fascista per il prestigio della nazione”. Ma la vera apoteosi dello sport fascista arrivò quattro anni dopo. La coppa Rimet fu organizzata dai francesi che si presentavano con una squadra fortissima e determinata a vincere. Si respirava già l’aria della guerra che sarebbe scoppiata di lì ad un anno. I transalpini avevano accusato gli italiani di aver pagato gli arbitri nel ’34 ed erano sicuri che avrebbero dato ora una lezione ai loro vicini.
Alla finale di Parigi arrivò invece un’Italia imbattibile, con i migliori giocatori di quattro anni prima e dei giovani fortissimi. La squadra italiana si sbarazzò dell’Ungheria siglando un bis iridato storico. Il Duce ne fu più che entusiasta. Quel trionfo in terra straniera suggellò il mito dell’invincibile nazione fascista e per i fascisti fu anche la prova schiacciante del trionfo degli ideali del regime su quelli della democrazia. Scrisse a proposito Bruno Roghi sulla Gazzetta dello Sport: “In un torneo faticosissimo e insidiosissimo, al di là della vittoria atletica per la bandiera, per la patria, per Mussolini, risplende la vittoria della razza e dimostra quanto possa, anche sui terreni incruenti dello sport, la guerriera gioventù fascista”.

BIBLIOGRAFIA
-Martin, Simon, Calcio e fascismo, Milano, Oscar Mondadori, 2006.
-Turrini, Leo, Bartali. L’uomo che salvò l’Italia pedalando, Milano, Mondadori, 2004.
-Storia della coppa del mondo, da “Storia illustrata”, Milano, Portoria, 1998.


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