PLATONE L’APOLOGIA DI SOCRATE

PLATONE L’APOLOGIA DI SOCRATE

PLATONE L’APOLOGIA DI SOCRATE


1. L’Apologia di Socrate è stata composta da Platone, che aveva assistito, come viene ricordato successivamente nel testo, al processo per empietà intentato a Socrate. La sua attendibilità è paragonabile a quella dei discorsi che Tucidide mette in bocca ai suoi personaggi. Platone, cioè, non aveva la possibilità di registrare quanto detto da Socrate, ma, avendo avuto la fortuna di essere presente al processo, l’ha ricostruito aiutandosi con la sua memoria e con l’immagine di Socrate che vi era impressa. L’intento di Platone non è quello di un cronista, ma di un cronista-filosofo, il quale riporta le idee essenziali che – per lui – meritano di essere ricordate.
Vale la pena sottolineare che gli Ateniesi hanno sottoposto Socrate a un processo pubblico, dandogli la possibilità di difendersi. Questo è un carattere notevole della “libertà degli antichi”: condanne e ostracismi non vengono pronunciate informalmente, in base alla semplice opinione pubblica, come aggregato delle opinioni dei privati, o dei privati che hanno accesso ai mezzi di comunicazione, ma – perfino nel caso di una persona fastidiosa come Socrate – vengono discusse e deliberate pubblicamente. Questo, peraltro, non esime Socrate dal “combattimento con le ombre”, vale a dire dal compito impari di confutare la (cattiva) fama che gli avevano procurato le Nuvole di Aristofane.

2. Socrate sta parlando in sua difesa, dopo che gli accusatori hanno esposto le loro ragioni davanti al tribunale popolare.

3. Socrate distingue fra l’argomentazione strumentale, sofistica, finalizzata a prevalere sull’interlocutore, e l’argomentazione volta a cercare la verità. Si tratta di una distinzione morale, che dipende dalle intenzioni dell’oratore. Ma queste intenzioni hanno una ricaduta anche sulle modalità di discussione e di comunicazione del sapere.

4. Socrate continua a ironizzare contro lo stile sofistico, sminuendo le proprie doti retoriche. Possiamo vedere anche questo come un’ironia complessa: lo stile argomentativo di Socrate, così diverso da quello dei sofisti e degli oratori, lo porterà a perdere il processo, ma, in un senso più profondo, ad accertare efficacemente la verità. In primo luogo quella su se stesso, secondo la massima delfica gnothi sauton (conosci te stesso) – massima, questa, molto diversa dal culto dell'”autostima” così diffuso nel nostro secolo. Nei dialoghi giovanili di Platone, Socrate, per usare un linguaggio moderno, mette a mal partito l’autostima degli interlocutori, sedicenti sapienti. Ma la durezza e l’ironia della confutazione elenctica possono diventare – per chi sa coglierne la complessità – il punto di partenza di un percorso di consapevolezza che conduce al di là del conformismo della società civile.

5. I banchi dei trapeziti, che svolgevano più o meno le funzioni dei banchieri attuali, si trovavano nella parte più affollata dell’agorà, la piazza del mercato e il cuore della vita cittadina.

6. La “maniera” di Socrate è l’élenchos, cioè la confutazione di tesi affermate da altri. Le sole limitazioni che Socrate – il Socrate dei dialoghi giovanili di Platone – pone ai suoi interlocutori sono quella di dire solo ciò che credono, cioè di esporre le loro vere opinioni, e di farlo brevemente. Questa “maniera” comporta la rinuncia alla certezza assoluta, a favore di una ricerca della verità morale che ha bisogno del convincimento delle persone concrete con cui si discute, come si può vedere dal Gorgia. E ha come presupposto non espresso l’idea che in ciascuno, nonostante la mole delle opinioni false, ci sia un germe di verità tale da poter essere portato alla luce mostrando che le opinioni false sono in contraddizione non solo fra loro, ma con la persona che ne è portatrice.
Funzionerà questa “maniera” in tribunale, ove non si dice ciò che si crede e ci si impegna nella discussione per motivi non identici con la ricerca della conoscenza?
E’ significativo che Socrate si dica xenos (straniero o forestiero), appena poche righe dopo essersi collocato fisicamente nel cuore della vita dell’agorà. Socrate è nello stesso tempo in Atene e lontanissimo da essa.

7. “Tous amphi Anyton”: l’entourage di Anito. Accusatore ufficiale è in realtà Meleto: Socrate si mostra consapevole che dietro di lui c’è Anito, importante esponente della parte democratica.

8. L’immagine di Socrate come sofista e filosofo naturale, che vive in una casa chiamata phronisterion (pensatoio) e insegna al “discorso ingiusto” a prevalere sul “discorso giusto” si trova nelle Nuvole (423) di Aristofane. Non a caso, nel dibattito aristofaneo fra il Discorso giusto e il Discorso ingiusto, personificati e portati sulla scena, quest’ultimo mette in dubbio la morale tradizionale valendosi di un topos usato anche da Socrate nell’Eutifrone: perfino il rispetto dei padri è un valore relativo, visto che lo stesso Zeus si è ribellato al padre Chronos. Socrate tuttavia aveva un rapporto amichevole con il poeta comico, a voler credere al Simposio di Platone.

9. Ma, riferisce Socrate, questa sua immagine – espressa da Aristofane con geniale efficacia comica – era dovuta a una serie di dicerie diffuse, e per questo cercare di smentirla è come “combattere con delle ombre”.
Socrate è nel cuore della città quando si tratta di discutere con le persone, per scuoterle delle loro certezze acritiche, ma le è estraneo quando non ha nessuno con cui dialogare: quando, cioè, le certezze diffuse, per la loro impersonalità, non hanno un vero e proprio rappresentante individuale.

10. Socrate è un filosofo morale e non un filosofo naturale, per quanto non disprezzi la filosofia della natura, e per quanto, a voler credere ad Aristotele e al Fedone platonico, si sia in gioventù dedicato a poco soddisfacenti ricerche naturalistiche. Vale però la pena sottolineare che, nell’Apologia, Socrate non dichiara mai di credere negli dei della città.
I dialoghi platonici giovanili ci riportano un Socrate intento a indagare su questioni morali, che non si occupa mai di metafisica. La teoria delle idee e l’interesse per la matematica si trovano nei dialoghi della maturità di Platone e non è propria di Socrate, per il quale l’idea è semplicemente l'”universale”, vale a dire ciò che rimane uguale ed è presente in tutte le cose di cui si dice che godono la proprietà F. Non si fa menzione di una esistenza autonoma delle idee, se non quando, a partire dal Menone, Socrate diventa portavoce di Platone – e, significativamente, tende ad abbandonare l’élenchos.

11. Perché i giovani preferiscono pagare i sofisti, anziché farsi istruire gratis dai concittadini? Il mercato dei sofisti sembra denunciare l’incapacità della città e dei cittadini di fornire un sapere gratuito, per quanto la polis democratica intendesse se stessa come spazio comune di educazione.
Agli occhi dei conservatori ateniesi, la sofistica era causa di corruzione; ma l’osservazione di Socrate ci suggerisce che è possibile vederla, piuttosto, come un sintomo. Il mercato del sapere si fonda sull’ignoranza.

12. Callia è il proprietario della casa ove era ospite il sofista Protagora di Abdera, nel dialogo omonimo. In questo dialogo, Platone ricrea un episodio svoltosi in un periodo in cui non era ancora nato: Alcibiade (450-404), vi è descritto come un adolescente che sta diventando uomo, e dunque la conversazione di Socrate con Protagora deve essersi svolta in occasione della visita del sofista ad Atene attorno al 432.

13. A ben guardare, il non saper insegnare di Socrate è la sua dote più pericolosa e più scomoda. Vendere e comprare conoscenze, come se fossero oggetti commerciabili, è qualcosa di rassicurante, così come sono rassicuranti i contratti e gli scambi basati sul do ut des. Non solo ci si può nutrire dell’illusione di acquistare conoscenza semplicemente pagando, senza l’itinerario personale di sofferenza che il tragico Eschilo, per esempio, connetteva all’apprendimento (pathei mathos); ma soprattutto ci si può cullare nell’idea che lo stesso sapere sia inserito in un sistema, il mercato, che sceglie e determina i valori per noi, e che ci esonera dal pericolo delle relazioni e delle discussioni faccia-a-faccia.
In questa prospettiva, Socrate è fastidioso sia perché rifiuta di vendere la sua conoscenza, e dunque di entrare nel sistema, sia perché prende tanto sul serio i propri interlocutori da mettere in discussione le loro certezze acquisite con l’imbarazzante durezza della prova elenctica.

14. Socrate ricorda la testimonianza dell’oracolo di Delfi sulla sua sapienza poche righe dopo aver dichiarato che la sua sapienza è soltanto umana. Dobbiamo dunque credere che il richiamo delle parole della Pizia – la sacerdotessa che vaticinava a Delfi – siano un mero espediente retorico? ll trucco sofistico, e goffo, di un ateo che cerca di sottrarsi al giudizio di un pubblico superstizioso?

15. Socrate non prende il responso dell’oracolo per buono, come avrebbe fatto un credente, ma cerca di capirne il senso, usando la propria capacità di indagine. Quello che dice il dio può – e deve – essere vero, ma per noi non ha nessun significato se non riusciamo a rendercene conto razionalmente.

16. Il vaglio della ragione comporta anche la possibilità di smentire il responso dell’oracolo. Socrate ha con il divino un rapporto molto diverso da quello tipico del mondo antico, che comportava un do ut des con divinità capricciose ed iraconde. Ma non può essere neppure paragonato ad Abramo, disposto a sacrificare il figlio per ordine di Dio: Socrate si permette di discutere non già di un ordine, ma di un elogio dell’oracolo.

17. Il dio di Socrate è un attivatore dell’indagine razionale, un nemico della ragione pigra o asservita, e gli impone un compito durissimo. quello di obbedire a lui piuttosto che agli uomini. La conoscenza che cerca Socrate è un sapere completamente liberato dal potere, che inizia, non a caso, con una fortissima confessione di debolezza, cioè con una professione di ignoranza senza compromessi.

18. Compito tradizionale del poeta, nel mondo greco, non è né creare, né conoscere per proprio conto, ma ricordare, scrivere, dunque, sotto dettatura, e ricevere una sapienza infusa e impersonale. Non a caso le divinità ispiratrici dei poeti sono le Muse, figlie di Apollo e di Mnemosyne, dea della memoria. Di contro, per Socrate, i segni dell’oracolo non configurano un dettato divino, ma un compito enigmatico, che chiama in causa l’indagine critica.

19. Con la parola cheirotechnes si intende chi esercita un’arte o una tecnica manuale. Techne, infatti, copre lo spettro semantico sia della nostra “arte” sia della nostra “tecnica”, che non sono distinte: lavoro manuale, lavoro ingegneristico e lavoro artistico convivono in un solo concetto. Socrate riconosce, nel cheirotechnes, la sua sapienza di settore, che però rischia di diventare presunzione quando pretende di ergersi a sapienza complessiva.
I tecnici/artisti fanno, nella disamina socratica, la figura migliore. Ma il ragionamento nel suo complesso non corrobora affatto, almeno qui, l’interpretazione di scuola heideggeriana, per la quale il platonismo ha compiuto il peccato originale di asservire il mondo alla teoria e di manipolarlo ingegneristicamente. La techne di cui parla Socrate, consapevole del suo carattere di sapere parziale, è a un tempo manualità, arte e tecnica, e non cieca esecuzione di progetti teorici; è, dunque, una modalità di relazione con il mondo che presuppone una consapevolezza critica del tutto assente nei poeti, per esempio, e che ha la sua dignità. Che un lavoro manuale possa avere una dignità, è, peraltro, un’idea piuttosto originale nel mondo antico.

20. Dopo quasi due millenni di cristianesimo, l’idea che la sapienza degli uomini sia nulla davanti a Dio potrebbe sembrare un semplice pensiero edificante, ma in mano a Socrate non comporta né una devozione quietistica né un fatalistico “lasciar essere l’essere”, bensì un impegno etico: nessun sapere è tale quando è acquisito e condiviso, ma solo quando è esaminato e discusso. Questo impegno rende Socrate odioso ai suoi concittadini: è facile essere amici di chi condivide le nostre opinioni; meno facile condividere, in luogo delle opinioni, la ricerca.

21. “Daimonia kaina” significa letteralmente “nuove [creature] divine”. Il daimonion di cui si parla nell’Apologia è l’aggettivo neutro che viene da daimon (da daiomai: dispenso, do in sorte) , una creatura divina non necessariamente malevola, che presiede alle sorti degli uomini. Un daimon è contenuto nella parola eudaimonia (felicità), che significa, etimologicamente qualcosa come: “un buon daimon governa il mio destino”.

22. Socrate non crede nell’impersonalità delle leggi. Il governo delle leggi può essere sensatamente posto come problema e come obiettivo solo perché governano gli uomini, e non dei pastori divini, ci dirà Platone nel Politico.

23. Si tratta rispettivamente dei membri della Bulé (consiglio) e dell’Ecclesia (assemblea).

24. Socrate afferma che, se corrompe i giovani, non è possibile che lo faccia volontariamente: corrompere le persone significa renderle malvagie, e dunque esporsi al rischio di venirne danneggiati. Tutt’al più, una simile azione può essere compiuta involontariamente, e dunque non può essere sanzionata penalmente. La sanzione penale, infatti, ha senso solo per le azioni volontarie, ma non serve a render consapevole chi sbaglia involontariamente delle ragioni del suo errore.
L’argomento di Socrate è un corollario della sua equiparazione della virtù a conoscenza: chi sbaglia lo fa senza consapevolezza, e dunque senza intenzione di sbagliare. Perciò, non ha senso punirlo, quando si dovrebbe piuttosto discutere con lui, per renderlo avvertito del suo errore.
Questa tesi impone di escludere dall’ambito del diritto penale i cosiddetti “reati d’opinione”, ma – coerentemente applicata – rende problematico il diritto penale nel suo complesso. Se chi sbaglia lo fa per difetto di razionalità pratica, cioè di consapevolezza, che senso ha la punizione in generale?
Non serve per emendare il colpevole, col quale sarebbe più indicato un serio confronto elenctico. Protagora, nel dialogo platonico, suggerisce che la punizione serva per dissuadere il colpevole e gli altri dal ricadere nello stesso comportamento. Ma se è vero che si sbaglia solo per ignoranza, come si può pretendere che la punizione possa avere una effettiva funzione informativa? Dissuadere non significa persuadere – soprattutto se la dissuasione è compiuta tramite una minaccia o tramite l’irrogazione di una sanzione, e non con una argomentazione. Socrate sostiene anche, nel Gorgia e nel Critone, che non si deve restituire il male col male; ma questo mette fuori causa anche la funzione retributiva della punizione.
Possiamo uscire dal vicolo cieco sostenendo, modernamente, che la sanzione penale non mira all’educazione dei cittadini, ma semplicemente ad impedire, con la dissuasione, che essi tengano certi comportamenti. Ma a questa tesi Socrate e Protagora replicherebbero a una voce che un diritto così giustificato trasformerebbe la comunità della polis in una società di schiavi, manipolati dal potere secondo logiche cui non importa che partecipino. Ci troviamo in un vicolo cieco: se vogliamo giustificare eticamente il diritto penale, dobbiamo riconoscere, con Socrate, che le punizioni non sono lo strumento più adatto per la correzione morale; se lo vogliamo legittimare in base ad uno scopo differente da quello educativo, dobbiamo trovare un sistema per spiegare in che modo la sanzione penale non è manipolazione; o, se è manipolazione, che cosa la giustifica.

25. Meglio: “nuove [creature] divine”.

26. Luogo dell’agorà di Atene. Quanto dice Socrate testimonia della diffusione del testo scritto come strumento di comunicazione del sapere nel V secolo.

27. Cioè rispettivamente daimonia e daimonas, sempre nel senso di creature divine. Va sottolineato che Socrate fa cadere in contraddizione l’accusatore, ma non dice se la divinità in cui crede sia o no identica agli dei della città.

28. Socrate, plebeo, paragonandosi all’Achille omerico, sta facendo qualcosa di oltraggioso. Per essersi comportato come Achille, il plebeo Tersite era stato malmenato nell’assemblea dei guerrieri.
Il paragone con Achille si vale dell’eroe per eccellenza della cultura greca per mettere del vino nuovo in otri vecchi. Achille trovava la morte nella competizione per la time, cioè per il riconoscimento di una arete che si identificava col successo sociale dell’aristocratico; Socrate affronta la morte perché ritiene che componente essenziale della virtù sia una capacità personale, la conoscenza: senza questa componente essenziale, ogni altro valore della vita, e ogni genere di riconoscimento sociale, è secondario.
La religione tradizionale si basava su un rapporto di do ut des con le divinità; quella di Socrate – del miscredente Socrate – tratta l’esercizio della legge morale come un servizio reso, gratuitamente, a un dio il cui volere diviene prescrizione solo per mezzo dell’interpretazione che ne dà Socrate.
Socrate, con queste parole, si sta riconoscendo colpevole: la sua religione e la sua morale non sono più la religione commerciale e il moralismo impregnato di conformismo e di coercizione propri della città.

29. Vivere amando la sapienza, ed esaminando se stessi e gli altri mette Socrate al di sopra di qualsiasi manipolazione esterna: ma in una città in cui la convivenza è assicurata dagli interessi e dalla paura del giudizio degli altri, una persona che non è manipolabile è un cittadino cattivo e pericoloso. Anche perché l’attività di Socrate non è tale che si possa esercitare, come vorrebbero certi liberali moderni, un una zona privata, ma è per sua natura pubblica e dialogica. Un impegno alla conoscenza e all’esame critico che si ponga dei confini tradisce, semplicemente, se stesso. Per questo Socrate deve dichiararsi non solo colpevole, ma intenzionato a perseverare nel suo comportamento.

30. Socrate, qui, non ha una teoria metafisica dell’immortalità dell’anima: sta solo dicendo che, dovendo scegliere fra un male non morale di statuto incerto (la morte) e un male morale certo (l’ingiustizia), preferisce il primo corno del dilemma.

31. Si tratta dello stesso conflitto fra doveri dell’Antigone di Sofocle; conflitto che in un libro del Nuovo Testamento è espresso quasi con le stesse parole usate da Socrate, “Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti degli Apostoli, V, 29). Il dio di Socrate non ha nulla a che vedere con gli dei della città, anzi, in quanto è riconosciuto e incluso nel libero esame socratico, è il suo nemico più radicale, perché induce a sfidare la morte e a non piegarsi alla legge.
Dietro l’autodifesa di Socrate, con il suo rifiuto di sottomettersi alle pressioni della collettività, c’è un problema filosofico-politico radicale: è possibile pensare a una comunità politica priva di coercizione? Il problema della coercizione pubblica è presente anche nella democrazia diretta ateniese, dominata, come dice successivamente Socrate, dalla tirannide delle assemblee.

32. Socrate, da come descrive il suo rapporto con la città di Atene, non è un pensatore antidemocratico: sembra piuttosto pensare che una democrazia che non pratichi l’autocritica e che tratti il sapere come un bene commerciabile, riservato a pochi, è una democrazia che sonnecchia. La scelta di povertà compiuta da Socrate, il suo offrire gratis un sapere che altri vendevano a caro prezzo, non è né un elemento marginale né una captatio benevolentiae; è un porsi consapevolmente nell’agorà, ma “fuori mercato”.

33. “Theion ti kai daimonion”: qualcosa di divino o di “demonico”. La traduzione “soprannaturale” non è felicissima perché il mondo antico mancava dell’idea (cristiana) della trascendenza. La religione popolare poteva essere paragonata a un complesso di pratiche di magia bianca. indirizzate a forze mondane. Anassimandro e Democrito vedevano il divino nel mondo come kosmos, cioè come ordine necessario e omnicomprensivo. Socrate, filosofo morale, è in contatto con un divino che, contro la teologia popolare, viene pensato come perfettamente morale. La voce di questo divino non ha un contenuto, ma funge da stimolo ad una autonoma indagine morale razionale. E Socrate, nelle discussioni, si vale di questa indagine e non della sua voce interiore, che non gli dai mai, in positivo, ordini.
Quarant’anni prima il filosofo naturale Anassagora era stato processato per empietà e bandito da Atene, in quanto sosteneva che i corpi celesti erano oggetti fisici e non divinità. Ma vale la pena sottolineare che l’ateismo nel mondo antico non si configura come negazione del soprannaturale, ma come rifiuto di prestare omaggio agli dei della città: se non esisteva, infatti, un vero e proprio concetto di soprannaturale, alla maniera cristiana, c’erano concrete religioni civiche, che esigevano dai cittadini una lealtà politica, prima che religiosa.

34. Dal momento che i processi ateniesi si svolgevano davanti a una giuria popolare, l’appello alla pietà dei giudici era un espediente avvocatesco diffuso e accettato. In particolare, spettava ai giudici definire, di volta in volta, che cosa si dovesse intendere per empietà. Una difesa accorta avrebbe dovuto cercare di rendere ben disposti giudici con un così alto potenziale di arbitrio, manipolandoli emotivamente.
Socrate si rifiuta di farlo, adducendo la sua fede negli dei. In questo modo, però, dimostra una volta di più che i suoi dei non sono gli stessi dei della città. La religione della città era un complesso di pratiche per impietosire gli dei e renderseli amici, più o meno come facevano, senza scandalizzare nessuno, gli imputati con i giudici popolari.

35. Dunque Melèto, l’accusatore ufficiale di Socrate, ha ottenuto, grazie all’appoggio politico di Anito e Licone, 280 voti su 500.

36. Il Pritaneo era la sede di pritani; essere mantenuti a vita nel Pritaneo era un’onoreficenza accordata a cittadini particolarmente meritevoli (generali vittoriosi, olimpionici etc.). Socrate non rinuncia ad essere ironico, per quanto consapevole che la sua ironia gli costerà la vita. Aveva infatti facoltà di proporre una pena alternativa a quella suggerita dal suo accusatore, ma egli, dicendosi al massimo disposto a pagare una ammenda, si rifiuta di proporre una opzione praticabile per giudici intenzionati a metterlo a tacere.

37. L’idea che una vita senza esame non meriti di essere vissuta è il lato forte della professione di ignoranza socratica: Socrate è ignorante nel senso che non ha certezze teoriche che si possano dare per acquisite, ma non lo è, nel senso che possiede una certezza pratica incrollabile, l’impegno ad esaminare rigorosamente e personalmente ogni nozione e ogni valore. Questo distingue l’ignoranza socratica – per la quale si può affrontare serenamente la morte – dal semplice scetticismo.

38. Gli Ateniesi che hanno condannato Socrate hanno fatto ricorso al diffuso espediente di esorcizzare un problema morale diffamando ed eliminando la persona che lo pone. Socrate fa notare che sopprimere lui per non dover più fare i conti con i suoi argomenti, non sopprime affatto i suoi argomenti, né ne indebolisce la forza.

39. Anche qui Socrate non usa il sostantivo, ma l’aggettivo (tou daimoniou), che si si può meglio rendere con “qualcosa di divino”, piuttosto che con la nozione di un vero e proprio daimon personale. La voce non dà mai ordini in positivo, ma tutt’al più trattiene e invita a riflettere.

40. Socrate non sa con certezza che cosa sarà di lui dopo la morte. Ma l’aspetto interessante dell’ipotesi alternativa alla dissoluzione è che l’oltretomba appare, rispetto alla vita, come il luogo della verità e non come il tradizionale regno delle ombre, di vacue ed evanescenti parvenze di una vita perduta. I morti, essendo al di là di ogni timore, non sono manipolabili dalla comunità politica, dall’opinione pubblica e dalle convenzioni sociali. Questo tema viene ripreso nei due grandi miti che concludono, rispettivamente, il Gorgia e la Repubblica: il giudizio dei morti e il racconto di Er.
Per questo, possono essere inclusi nella conversazione filosofica anche soggetti – come le donne – che l’Atene dei vivi escludeva. Socrate non può discutere con le donne nell’Atene dei vivi, che le teneva segregate, ma non esclude di poterlo fare nel regno dei morti.
L’uso della metafora della morte ha un senso morale: contro la posizione tradizionale, che identificava le persone e la loro moralità sulla base di ciò che diceva la gente (demou fatis) e su ciò che autorevolmente narravano i poeti, Socrate crede che la personalità morale, cioè la capacità di fare scelte autonome, non possa essere una funzione della società e della comunicazione, ma vada pensata come capacità di andare oltre ciò che è e ciò che si dice – cioè come capacità di morire, di diventare altro, in senso metaforico prima che in senso proprio. Il soggetto morale è, rispetto alla tradizione, un soggetto rivoluzionario.

41. Il congedo di Socrate dal mondo dei vivi è fortemente antitragico. L’eroe tragico muore solo, e soffrendo per il suo isolamento dalla comunità, dalla quale si distingue in quanto eroe. Socrate si accomiata serenamente, lasciando chi rimane al mondo nel dubbio: senza la conoscenza, la stessa vita non ha valore, e si può abbandonare senza troppi rimpianti. Il filosofo ha bisogno della città, perché la sua ricerca non è autosufficiente, bensì ha luogo in una comunità; ma non può vivere in una città che non accetti questa ricerca.
L’ironia, nel suo senso primario di dissimulazione (nel greco del V secolo), era una figura retorica di cui erano vittime predilette gli eroi tragici. Essi venivano ingannati da situazioni di cui non avevano il controllo e da cui rimanevano schiacciati: Edipo, per esempio, cerca con zelo il colpevole dell’assassinio del padre Laio, senza sapere che sta cercando se stesso. In mano a Socrate, l’ironia diventa una figura non dell’impotenza, ma della sophrosyne: conosco tanto bene me stesso da non vantarmi di un sapere che non possiedo, ma la mia “ignoranza” è così forte da permettermi di affrontare la morte, e di farlo serenamente.