PIRANDELLO E IL FASCISMO

PIRANDELLO E IL FASCISMO

PIRANDELLO E IL FASCISMO
Pirandello e l’adesione al fascismo


Pirandello nacque in un periodo molto difficile per l’Italia, poiché c’erano molti problemi legati all’unificazione della nazione. Fino ad arrivare al Governo Giolitti, che è stato quello più stabile e duraturo, i nomi più illustri sulla scena politica italiana erano stati quelli di Depretis e Crispi.
I governi successivi a quello di Giolitti si dimostrarono di giorno in giorno più deboli ed incerti. Di fronte ai disordini, (conseguenza della crisi economica) ed ai disagi sociali, il Parlamento non fu in grado di esprimere né una maggioranza omogenea, né un’opposizione costruttiva. In questa situazione, fu facile per il Fascismo occupare il vuoto politico e morale, che si era determinato nel Paese, ponendosi come forza di rinnovamento capace di portare ordine e pacificazione.
L’affermazione del Regime implicò dei cambiamenti piuttosto drastici nella struttura politica: le Camere furono espropriate dalle loro funzioni ed alla Corona furono rimosse tutte quelle prerogative che, negli anni precedenti, risultavano inviolabili. Mantenere in vita lo Statuto fu, per il Fascismo, un’azione dettata da ragioni logiche: risultava conveniente, perché esso rappresentava un emblema forte in grado di far leva sulla Monarchia per ottenere la legittimazione del regime. La più evidente violazione della legittimità della Carta Albertina fu la sostituzione del principio di uguaglianza con quello di appartenenza: in questo modo, si andava a violare la libertà politica, dal momento che venivano tutelati giuridicamente soltanto coloro, che aderivano al Partito. Tutto ciò comportava un mutamento del veicolo di rappresentanza, identificato non più nel Parlamento, ma nel partito unico.
L’opera di costruzione del nuovo Stato culminò, nel novembre del 1926, con le cosiddette “Leggi fascistissime”- note anche come leggi eccezionali del Fascismo: atti giuridici che iniziarono la trasformazione dell’ordinamento del Regno d’Italia in quello del Regime. In sintesi, queste leggi stabilivano che:
1. il Partito fascista era l’unico ammesso;
2. il Capo del governo doveva rispondere del proprio operato solo al Re e non più al Parlamento (che in questo modo veniva di fatto esautorato);
3. il Gran Consiglio del Fascismo diventava l’organo supremo dello Stato;
4. gli unici sindacati riconosciuti erano quelli fascisti;
5. tutte le associazioni dovevano essere sottoposte al controllo della polizia;
6. la stampa doveva essere sottoposta a censura.
Le nuove attribuzioni affidate al Gran Consiglio (organo legislativo ed esecutivo) contribuirono a concludere anche le funzioni costituzionali della Monarchia sabauda, che si tenne in silenzio di fronte alla dichiarazione della fine dello Statuto, ritenuto da Mussolini ormai inadatto all’Italia del momento. L’adozione di tale atteggiamento le fece perdere la sua più importante funzione, quella di legittimare un regime parlamentare reso possibile solo tramite il pieno funzionamento della Costituzione.
Il 17 settembre 1924, Pirandello inviò un telegramma a Mussolini pubblicato subito dall’agenzia Stefani:
« Eccellenza, sento che questo è per me il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l’E.V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenermi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera »

I rapporti di Pirandello con il fascismo furono problematici. Carente di una convinta giustificazione ideologica, fu clamorosa l’adesione dello scrittore al fascismo proprio all’indomani del delitto Matteotti. Nel 1924, si iscrisse al Partito Fascista attraverso una lettera aperta a Mussolini e firmò il “Manifesto degli intellettuali fascisti”. Egli vedeva, infatti, nel fascismo un movimento rivoluzionario, che rappresentava la forza della vita capace di rompere le cristallizzazioni sociali; ne diede, quindi, una interpretazione anarchica. Agli entusiasmi iniziali, però, seguirono ben presto delusioni e risentimenti. Intanto, comunque, l’appoggio di Mussolini gli consentì di avere i finanziamenti per creare e dirigere la compagnia del Teatro d’Arte di Roma.

Pirandello rinnova, insieme a Svevo, la struttura del romanzo, mettendo in luce la crisi della società borghese e la mancanza di certezze dell’uomo moderno, dopo la crisi del Positivismo. L’uomo è alienato, malato, e la causa di questa malattia è di tipo storico. La società, evolvendosi, porta alla rovina uomini e cose e distrugge illusioni e sogni. L’unica salvezza è diventare coscienti della propria condizione di precarietà per poter sopportare il male di vivere.
Nella “Coscienza di Zeno” , egli adotta la tecnica del narratore interno, che narra in prima persona la propria storia: Zeno è contemporaneamente narratore e oggetto della narrazione, che si sviluppa sul piano temporale del presente (Zeno che scrive e giudica), e sul piano del passato recente e remoto (Zeno che ricorda fatti e persone), inserendo anche anticipazione de eventi futuri. Altra novità narrativa è il monologo interiore, con il quale Svevo riporta i pensieri e le riflessioni dei personaggi in stile diretto libero, senza interventi e mediazioni del narratore.
L’assurdità della vita, l’incomunicabilità, i condizionamenti e le ipocrisie della società e la causalità degli eventi, le nevrosi e l’alienazione, sono problematiche comuni a tutti e due gli autori, oltre che alla narrativa decadente europea. Mattia Pascal e Zeno Cosini rappresentano il tipo dell’inetto e dell’antieroe novecentesco, del personaggio che non ha forti passioni, ed è imprevedibile nei suoi comportamenti. Per Pirandello conoscersi significa prendere coscienza della propria forma, il che equivale a morire: “conoscersi è morire”, si legge nella novella “La carriola”, (poiché il protagonista si accorge di non essere mai stato vivo). Allontanarsi dallo scorrere naturale della vita e osservare la propria forma come un oggetto estraneo consente all’individuo di acquisire consapevolezza, ma significa anche non vivere più autenticamente, quindi morire alla vita. Invece, per Svevo conoscersi significa essere malati, cioè acquisire la consapevolezza dell’esistenza: la malattia diventa la condizione stessa del vivere, il tramite per l’autoanalisi, e, in definitiva, la vera salute.

Sulla critica pirandelliana pesò a lungo il giudizio negativo di Benedetto Croce, che della produzione dello scrittore siciliano salvava solo Liolà e La mosca. L’attenzione del critico si rivolse soprattutto alla «seconda maniera» dello scrittore, quella inaugurata da Il fu Mattia Pascal e consistente «in taluni spunti artistici, soffocati o sfigurati da un convulso, inconcludente filosofare. Né arte schietta, dunque, né filosofia: impedita da un vizio d’origine a svolgere secondo l’una o l’altra delle due».
Prima della guerra, solo Giacomo Debenedetti sembrò accorgersi della grandezza di Luigi Pirandello, mentre all’estero riceveva il plauso del filosofo tedesco Walter Benjamin.
La vera fortuna di Pirandello, in Italia, cominciò tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Si trattò di un evento non casuale, perché l’Italia in quel periodo stava diventando una nazione moderna, industrialmente avanzata, dotata di una cultura non più provinciale, ma aperta all’influenza delle avanguardie internazionali e nazionali. L’interesse verso Pirandello riguardava sia il campo della produzione narrativa e teatrale sia quello concettuale.
Oggi, Pirandello è annoverato tra i più grandi scrittori del Novecento.


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