PAUL GAUGAIN BIOGRAFIA
Un’opera di rottura
Nel 1893 Gauguin è in Francia, che abbandonerà definitivamente nel 1895. In quello stesso anno organizza a Parigi una mostra che susciterà aspre critiche per la novità del suo linguaggio espressivo, la violenza dei colori e l’arditezza dei temi, che segnano una rottura con la sensibilità estetica del suo tempo. È dunque facile comprendere come l’opera di Gauguin sia stata per alcuni inaccettabile o addirittura provocatoria proprio per quegli stessi motivi che, da una parte, attrassero gli amanti dell’esotismo e dall’altra, si concretizzarono in una nuova tendenza artistica. Per queste ragioni egli è, fra tutti i grandi profeti dell’arte moderna, quello la cui gloria fu più frequentemente messa in discussione. Ma, oltre che per tali motivi, la reazione dei contemporanei all’arte di Gauguin si deve a quel suo andare contro la corrente che, da Courbet al Cubismo, si caratterizza essenzialmente per il privilegiare le qualità plastiche. Ciò non significa ovviamente negare la ricchezza di qualità plastiche in Gauguin, bensì riconoscere come esse vengano costantemente superate, non potendo la sua opera essere limitata da problemi di composizione o dal rispetto della realtà osservabile. «È un ritorno al passato» dichiara Pissarro, ed è vero in rapporto al naturalismo ottico dell’impressionismo. Ma allo stesso tempo, è anche un passo avanti nella direzione dello spirituale nell’arte, secondo un’espressione di Kandinskij.
La nostalgia dei paradisi perduti
Esiste un ritratto di donna tahitiana che Gauguin dipinge nel 1890, prima della sua partenza per Thaiti, il quale rappresenta la madre, secondo una fotografia di lei giovane (Staatsgalerie, Stoccarda). Aline Gauguin, dal portamento malinconico, dalle labbra sensuali, dalla capigliatura scura, è il prototipo di tutte le vahiné, a volte appena più che adolescenti, che il pittore dipingerà. Gauguin ricorda la madre come «una vera bambina viziata» quale in realtà ella fu quando, giovane vedova, si rifugiò a Lima, nel 1849, dal nonno materno, don Mario Tristan y Moscoso (Aline era la figlia di Flora Tristan, famosa teorica socialista). La casa di don Tristan, dove l’artista visse fino all’età di sette anni, circondato da lusso e da tenerezze, sarà il primo paradiso perduto, rimpianto da Gauguin già nel 1855 quando, con la famiglia, si trasferirà a Orléans e frequenterà con scarso rendimento, il Piccolo Seminario. Il soggiorno in Perù è importante per l’artista perché gli permette di conoscere una civiltà diversa da quella occidentale. A diciassette anni si imbarca come marinaio semplice a Le Havre e due anni dopo, nelle Indie, viene a conoscenza della morte della madre, la quale gli ha scelto come tutore Gustave Arosa, un fotografo e collezionista di quadri moderni. Questo primo contatto con l’arte moderna ha breve durata perché il giovane deve reimbarcarsi per adempire agli obblighi militari dai quali sarà libero solo all’indomani della Comune. Arosa gli procura un impiego presso un agente di cambio e lo incoraggia a dipingere. Nel 1873, Gauguin sposa una giovane danese, Mette Sophie Gad, dalla quale avrà cinque figli. Gli affari prosperano e questa agiatezza gli consente di acquistare numerosi quadri impressionisti. Influenzata da Pissarro, la tavolozza del pittore «dilettante» diventa più chiara; nel 1879 egli partecipa alla quarta mostra impressionista e in questa occasione Joris-Karl Huysmans nota la sua opera. Nel 1883, forse a seguito di un crollo finanziario, abbandona la borsa per dedicarsi completamente alla pittura.
Dall’impressionismo al sintetismo
Ben presto Gauguin conosce la miseria, la quale giunge in concomitanza alla separazione da Mette, che ritorna a Copenaghen con i bambini. Obbligato dapprima a vendere una parte della sua collezione, Gauguin si vede in seguito costretto, durante l’inverno 1885-86, a svolgere i mestieri più umili. Sopraggiunta l’estate si stabilisce a Pont-Aven. Il bisogno di reagire alla fragilità strutturale dell’impressionismo ortodosso, reazione condivisa dai neoimpressionisti, lo allontana da questo movimento per l’interesse che Gauguin rivolge più alla sostanza delle cose che alla luce. Da Pissarro egli assorbe in parte la sensualità del tocco che si risolve nel sostenere la costruzione attraverso un uso del colore ispirato da Cézanne, le ricerche di composizione desunte da Degas, i principi decorativi di Puvis de Chavannes. Inoltre egli si dedica alla ceramica nel laboratorio di Ernest Chaplet (1835-1909), e nella sua produzione si avverte l’influenza dell’arte peruviana. Nel 1887, Gauguin non riesce a rinunciare al fascino dei tropici: in compagnia del pittore Charles Laval (1862-94), si reca a Panama e poi alla Martinica. Dolci, compatte e vellutate, le opere eseguite alla Martinica lasciano intravedere sprazzi di colore rivelatori. Bisognerà però attendere l’anno seguente, che Gauguin trascorrerà quasi interamente a Pont-Aven, per vedere il suo stile prendere consistenza. La formula adottata da due giovani pittori, Louis Anquetin (1861-1932) ed Emile Bernard (1868-1941), in contrasto con quella del neo-impressionismo, non gli sarà estranea, in quanto questa presa di coscienza avviene durante il soggiorno di Bernard a Pont-Aven: il sintetismo o cloisonnisme si risolve nell’utilizzare tinte piatte contornate da un arabesco più scuro. Anche se a prima vista può sembrare sommario, questo stile di gusto giapponese sarebbe stato determinante nella definizione del suo linguaggio artistico.
Sintetismo e simbolismo
Infatti, molto presto Gaugin realizza La visione dopo il sermone (1888, National Gallery of Scotland, Edimburgo) nella quale giunge alle estreme conseguenze della sua formula: lo spazio a due dimensioni della tela si sostituisce a quello tridimensionale ereditato dal Rinascimento. Da quel momento, tutti i quadri di Gauguin dovranno essere letti (o più esattamente, tenderanno a essere letti) come elencazioni dall’alto al basso e da sinistra a destra piuttosto che suggestione di oggetti collocati gli uni dietro gli altri su piani diversi. Nello stesso tempo il richiamo dell’arte egiziana e khmer o alle miniature persiane e indiane sarà più evidente di quello delle incisioni giapponesi. Ciononostante per Gauguin non si tratterà di adottare tale e quale un sistema di rappresentazione, ma di utilizzarne uno per definire uno spazio originale. Il rifiuto della prospettiva genera una rappresentazione a carattere irrazionale, particolarmente adatta all’espressione delle realtà spirituali. Su questa strada Gauguin non tarderà molto ad apparire come il pittore simbolista per eccellenza, apprezzato anche da giovani poeti e critici, come Albert Aurier e Charles Morice. Inoltre egli sarà considerato da Paul Sérusier, portavoce dei Nabis, il profeta della costruzione della tela attraverso il colore steso uniformemente, cioè idealizzato (al contrario di Cézanne, per il quale il colore riveste una funzione essenzialmente materialista). Il piccolo Talismano che Sérusier esegue in quella stessa estate del 1888, su indicazioni di Gauguin, non solo può essere considerato il primo quadro «fauve», ma anche il manifesto di una pittura liberata dai suoi pretesti figurativi, tutto sommato la prima pittura astratta.
«Una pittura che sia dell’animo» (Rimbaud)
Tuttavia, se Gauguin ha liberato il colore del ruolo documentario che aveva mantenuto durante l’impressionismo e gli ha affidato la missione, aiutato dall’arabesco, di creare uno spazio immaginario, non ha però pensato di liberarsi dalla figurazione. Al contrario, la sua originalità consiste nell’aver sufficientemente ammorbidito la figurazione pittorica in modo che quest’ultima diventi adatta a esprimere il pensiero e non più solo apparenze visive. In tal senso si può affermare che egli fa della pittura un strumento simbolista, e cioè adatto a liberare il significato mitico e la risonanza profonda di tutte le cose. Il disconoscimento del simbolismo ha trascinato numerosi storici dell’arte, incoraggiati dalle proposte cui tenderà Gauguin stesso verso la fine della sua vita, a considerare nefasta l’influenza «letteraria» di questo movimento sull’opera pittorica. Questa posizione tende a dimenticare che il simbolismo fu poesia più che letteratura e che i più grandi poeti simbolisti (non solamente Mallarmé, ma anche Maeterlinck, Saint-Pol Roux e Vielé-Griffin) hanno manifestato i loro poteri incantatori a proposito dei più umili oggetti. Allo stesso modo Gauguin conferisce fascino a piccole terre contadine bretoni e alla sontuosa nudità delle vahiné maori, alla trivialità e allo splendore. Ciò non significa che il sintetismo fosse una formula pittorica propria a esaltare sistematicamente il suo oggetto: basterebbe considerare in generale l’uso di questa formula da parte di Bernard e dei nabis per constatare che essi esaltarono poco l’oggetto (tranne per quanto riguarda l’ultima attività di Bonnard). Solo Edvard Munch doveva mantenersi allo stesso livello sulla medesima strada, ma con un accento estremamente più tragico, e ciò gli permise di assicurare il legame tra il simbolismo e l’espressionismo.
Dalla Bretagna a Tahiti
I due mesi che Gauguin trascorse ad Arles, verso la fine del 1888, in compagnia di Van Gogh (e il cui epilogo sarà drammatico) stabiliscono l’incompatibilità non solo tra due temperamenti, ma tra il realismo allucinato di Van Gogh e le metafore plastiche di Gauguin. All’inizio del 1889, in occasione dell’Esposizione universale, Gauguin organizza al café Volpini una mostra del «gruppo impressionista e sintetista», dove le sue opere si trovano vicine a quelle di Bernard, Anqueti, Laval, Emile Schuffenecker (1851-1934) e di qualche altro artista. L’esposizione è un fallimento, ma Gauguin assume il ruolo di capofila, e numerosi giovani pittori si stringono intorno a lui a Pont-Aven, poi a Le Pouldu, durante il più lungo soggiorno bretone dell’artista (aprile 1889-novembre 1890), segnato dall’approfondimento del suo pensiero e della sua arte. Sérusier, Laval, Meyer Isaac de Haan (1852-95), Charles Filiger (1863-1928), Armand Séguin (1869-1903) dividono a Le Pouldu, nella locanda di Marie Henry, l’intimità di Gauguin. Al suo ritorno a Parigi, verso la fine del 1890, Gauguin comincia a frequentare i poeti simbolisti riuniti al café Voltaire. Si è detto a volte che egli si sia lasciato sfuggire l’opportunità di «essere il grande pittore del simbolismo, colui al quale si ispiravano poeti e letterati, primo tra tutti Mallarmé». (C. Estienne): questo perché Gauguin, attratto di nuovo dal desiderio di partire, dopo aver progettato mete quali la Martinica, il Tonchino, il Madagascar, decide infine per Tahiti, seguendo così una suggestione di Van Gogh, affascinato dall’esotismo dei romanzi di Loti. Grazie all’intervento di Octave Mirbeau, viene organizzata una vendita all’asta dei quadri di Gauguin: con i proventi, l’artista acquista un biglietto di sola andata per Tahiti, ove giungerà l’8 giugno 1891, invita a un pranzo d’addio numerosi amici, tra i quali Mallarmé e Verlaine, e invia il resto della somma alla moglie e ai figli.
Il paradiso ritrovato
Il soggiorno di Gauguin a Tahiti coincide con il raggiungimento di quel vigore espressivo che prorompe dalle opere esposte a Parigi nel 1893. La partenza di Gauguin non è condivisa da Cézanne e Pissarro, i quali non avvertono l’esigenza di trovare ispirazioni alla loro arte attraverso la ricerca di suggestioni lontane. La sensibilità di Gauguin è invece diversa. La sua concezione dell’arte gli impone la ricerca di una verità da scoprire nello stesso momento sulla tela e nella vita. La sua pittura è un eterno invito a sognare il quotidiano, o meglio a trasformarlo alla luce del desiderio: non è perciò concepibile che il mondo si trasformi solamente sulla tela. A Tahiti Gauguin può vivere pienamente, in armonia con la sua esistenza ormai mutata, anche per quanto riguarda l’amore. Teha’amana e le altre vahiné non sono solo lontane dalla severa Mette e dallo schema repressivo della famiglia occidentale; il loro ruolo è importante sia sulla tela sia nell’intimità dell’artista. Grazie a esse, il rifiuto della prospettiva ereditata dal Rinascimento diventa anche rifiuto della staticità, celebrazione della bellezza del momento fuggente, elogio del piacere sensuale, fontana dell’eterna giovinezza.
Dove andiamo?
Stabilitosi a Mataüea, sulla costa meridionale, Gauguin lavora con accanimento, fino a che la sua pittura entra in sintonia con gli esseri e i paesaggi. Ben presto il suo stato di indigenza diventa critico; l’annuncio di un’eredità lasciatagli da uno zio lo induce a fare ritorno in Francia: sbarca a Marsiglia il 4 agosto 1893. In novembre l’esposizione delle sue tele tahitiane da Durand-Ruel si risolve, come si è detto, in un fallimento. Nel 1894, dopo aver reso un’ultima visita a Mette a Copenaghen, Gauguin si frattura una gamba durante una rissa con dei marinai nel porto di Concarneau. Deciso a far ritorno a Tahiti, organizza un’altra vendita delle sue tele all’hotel Drouot, con una presentazione di August Strindberg, ma l’accoglienza riservata ai suoi quadri è così negativa che la maggior parte di essi rimarrà invenduta. Gauguin si imbarca allora a Marsiglia per Tahiti, dove si stabilisce nel luglio del 1895, questa volta sulla costa occidentale, a Punaauïa. Le sue condizioni di salute si aggravano tanto da costringerlo a trascorrere lunghi periodi all’ospedale di Papeete. Nel 1897 l’artista viene a conoscenza della morte della figlia Aline, la sua prediletta, e da quel momento interrompe la corrispondenza con Mette. Verso la fine dell’anno realizza il suo testamento artistico. Donde veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (Museum of Fine Arts, Boston); nell’aprile 1898 cerca di uccidersi con l’arsenico. Costretto per qualche tempo a lavorare nell’ufficio del catasto, pubblica un giornale satirico che contribuisce ad aumentare il numero dei suoi nemici. Grazie a un contratto con Ambroise Vallard comincia a vendere le sue opere, ma il suo stato di prostrazione è così profondo da causare una lunga inattività, che si protrarrà per tutto il 1900. Nel 1901 si stabilisce a Hiva-oa, una delle Isole Marchesi. L’alcolismo e la sifilide, oltre che l’avversione di coloro che lo accusano di incoraggiare «l’anarchia indigena», amareggiano i suoi ultimi anni, ma egli è consolato dalla presenza assidua di nuove vahiné; di questo periodo sono le due versioni di I cavalieri sulla spiaggia.