PASCOLI MYRICAE RIASSUNTO

PASCOLI MYRICAE RIASSUNTO

ANALISI RIASSUNTIVA


Il titolo di Myricae (letteralmente: tamerici, piccoli arbusti) veniva dato nel 1891 ad un volumetto che raccoglieva 22 componimenti apparsi in precedenza su diverse riviste. Era la prima edizione di una raccolta che si andò progressivamente accrescendo nel corso degli anni (la seconda edizione del 1892 comprendeva 72 componimenti; la terza del 1894 ne contava 116; nella quarta del 1897 si era giunti a 152) fino alla quinta edizione del 1900 che comprendeva 156 poesie.

La parola Myricae, presa come titolo, e il motto poi presente sul frontespizio – Arbusta iuvant humilesque myricae – rapportano il discorso pascoliano a quello di Virgilio, al Virgilio della quarta ecloga, che canta la rinascita dell’età dell’oro in seguito alla venuta del divino fanciullo, Augusto. Pascoli però, nell’atto di citarlo, nega il discorso virgiliano. Il poeta latino,infatti, iniziava il suo canto pregando le muse per alzare il tono e affrontare temi temi più impegnativi, dal momento che quelli bassi e quotidiani (come quelli cantati nelle Georgiche) possono anche non piacere: <<Sicelides Musae, paulo maiora canamus /non omnes arbusta iuvant humilesque myricae>> (O sicule Muse, cantiamo di fatti un poco più grandi: non tutti aman gli arbusti e le modeste tamerici). Come si vede, Pascoli, estrapolando dal contesto le parole di Virgilio, le ha private della negazione in modo tale da rovesciarne completamente il senso: arbusti e tamerici piacciono a tutti e, sembra aggiungere, sono le sole cose che contano.

I tempi non vanno, come afferma Virgilio, per il meglio, anzi; e non importa la poesia impegnata, quella da vate politico e sociale; sono importanti le myricae, le cose umili, modeste e la poesia che ad esse si ispira. Il titolo anticipa allora due caratteristiche fondamentali della poesia contenutavi: il carattere bucolico-rurale della rappresentazione di un mondo modesto e quotidiano e il pessimismo che lo contrassegna.

La raccolta propone perlopiù composizioni brevi e brevissime (rapidi quadretti, sensazioni, scene della memoria, ecc.) che si avvalgono di un’espressione semplice ma controllatissima che, pur muovendosi nell’ambito della sintassi e della metrica tradizionali, non perde mai il carattere sperimentale e innovatore. La tecnica della rappresentazione, come già si è detto altrove, sembra oggettiva e realistica, ma alcune presenze insistenti ( a fronte di assolute assenze) rivelano un intento e valore simbolico, non descrittivo.

Nella prefazione alla seconda edizione il Pascoli scriverà, ricordando i familiari: <<Non soggiacquero essi al destino comune e non li sperse la natura coi suoi strali […] Li uccise tutti nel mio padre, la malvagità degli uomini, i quali finiscono la loro vittima non l’annullano […] Non si spense d’essi con la vita il dolore: questo (oh, solo questo) rimane d’essi >>.

Testimonianza di grande rilievo è inoltre la prefazione-dedica che egli scrisse per l’edizione del ’94 e che riportiamo qui per intero.

Rimangano, rimangano questi canti su la tomba di mio padre!…Sono frulli d’uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane: non disdicono ad un camposanto. Di qualche lagrima, di qualche singulto, spero trovar perdono, poiché qui meno che altrove il lettore potrà o vorrà dire: Che me ne importa del dolor tuo?

Uomo che leggi, furono uomini quelli che apersero quella tomba. E in quella finì tutta una fiorente famiglia. E la tomba (ricordo un’usanza africana) non spicca nel deserto per i candidi sassi della vendetta: è greggia, tetra, nera.

Ma l’uomo che da quel nero ha oscurato la vita, che è bella, tutta bella; cioè sarebbe; se noi non la guastassimo a noi e agli altri. Bella sarebbe; anche nel pianto che fosse però rugiada di sereno, non scroscio di tempesta; anche nel momento ultimo, quando gli occhi stanchi di contemplare si chiudono come a raccogliere e riporre nell’anima la visione, per sempre. Ma gli uomini amarono più le tenebre che la luce, e più il male altrui che il proprio bene. E del male volontario danno, a torto, biasimo alla natura, madre dolcissima, che anche nello spingerci sembra che ci culli e ci addormenti. Oh! Lasciamo fare a lei, che sa quello che fa, e ci vuol bene.

Questa è la parola che dico ora con voce non ancor ben sicura e chiara, e che ripeterò meglio col tempo; le dia ora qualche soavità il pensiero che questa parola potrebbe esser di odio, e è d’amore. (Livorno, marzo del 1894)