Parafrasi e costruzione diretta della poesia Bruto Minore

PARAFRASI E COSTRUZIONE DIRETTA DELLA POESIA BRUTO MINORE

Giacomo Leopardi scrisse il “Bruto Minore”, il sesto canto dei “Canti”, nel dicembre 1821


1ª strofa.

Dopo che l’esercito repubblicano romano fu sconfitto in terra Macedone, a Filippi nel 42 a.C., ciò producendo una rovina immensa, la fortezza italiana morì, tanto che il destino preparò allora l’invasione dei barbari della bella e verdeggiante Italia, e permise il calpestio di Roma sotto i cavalli dei barbari, e dalle squallide selve nordiche, che la fredda costellazione dell’Orsa Maggiore sovrasta dal cielo, chiamò le spade degli stranieri per abbattere le belle e famose mura di Roma;
Bruto, sudato, bagnato dal sangue romano, solo nella cupa notte e in un posto solitario, deciso ormai a morire, accusa gli Dei inesorabili e gli dei infernali e inutilmente comincia a riempire l’aria pesante di parole feroci:

2ª strofa.

<<O stolta virtù, le nebbie vuote e i campi pieni di fantasmi sono le tue scuole, e il pentimento ti segue dietro. Dei, inflessibili insensibili, l’umanità infelice, alla quale avete chiesto templi, è ludibrio e scherno per voi, e la vostra legge oltraggia gli uomini. Dunque perché la miseria umana suscita tanto odio negli Dei? Dunque perché Giove siedi a difesa degli empi Dei? E quando il vento si solleva nell’aria, e quando tu lanci il tuono con violenza, perché brandisci e scagli il folgore contro i giusti e i pii?

3ª strofa.

Il destino invincibile opprime, la dura Necessità opprime gli uomini deboli, che sono sottoposti alla morte; e se l’uomo comune non riesce a far cessare i loro oltraggi, allora si consola pensando che questi danni sono inevitabili. Forse che il dolore è meno intenso se non ha riparo? Forse chi è privo di speranza (ultraterrena) sente meno dolore? (Domande retoriche secondo il Leopardi; per cui la risposta sarebbe no; invece non sono domande retoriche, bensì metafisiche per cui la risposta cambia da uomo a uomo da popolo a popolo). Il prode, il valoroso, l’eroe, intraprende una guerra eterna con te, destino indegno, deciso a non cedere; e quando vuole scrollarsi la tua mano destra  tirannica, allorquando lo sovrasta vincitrice, allora indomito si esalta, quando nell’alto fianco si conficca la mortale spada e malignamente e beffardamente sorride alle nere ombre della morte.

4ª strofa.

Il fatto di chi irrompe violentemente nel Tartaro spiace agli Dei. Non si trova tanto valore nei deboli petti degli Dei. Forse il destino predestinò le disgrazie degli uomini, i casi difficili e l’infelicità umana come allegro spettacolo per gli ozi suoi? La Natura, un tempo regina e Dea, a noi mortali prescrisse una vita pura e libera da sciagure e colpe. Ora poiché il mal costume ha distrutto il regno naturale ed ha assegnato la miserevole esistenza ad altre leggi, quando il prode rifiuta i giorni infelici, perché incolpare la Natura, dato che non è stata lei a spingere il prode al suicidio?

5ª strofa.

La vecchiaia conduce serenamente le fortunate fiere, innocenti di colpe ed ignare delle loro sventure, alla non temuta morte. Ma se il dolore le persuadesse a rompersi la fronte negli alberi o a gettarsi a precipizio da un alto sasso, allora né religione, né filosofia vi sarebbero a contrastare l’infelice proposito di togliersi la vita. Il destino diede la vita cosciente solo a voi, figli di Prometeo, e solo a voi la vita vi diede in odio; solo a voi, se la morte tarda a venire, Giove vieta le rive della morte voluta.

6ª strofa.

E tu, candida Luna, che sorgi dal mare che il nostro sangue bagna, tu esplori l’inquieta notte e la funerea campagna. L’esercito vincitore calpesta i consanguinei amici, i colli fremono, e dalle somme glorie repubblicane,  Roma antica rovina: perché tu sei così tranquilla? Tu hai visto la stirpe di Roma, gli anni felici  delle vittorie e le glorie memorabili; e tu con il tuo raggio sempre uguale, continuerai ad  illuminare silenziosa le Alpi, quando esse risuoneranno sotto il piede dei barbari che faranno servo il nome d’Italia.

7ª strofa.

La fiera sopra i nudi sassi e l’uccello, pieno di sonno, pur  ignorando l’irrimediabile rovina di Roma  e le cambiate sorti del mondo continueranno a vivere sempre allo stesso modo: e non appena il tetto del contadino rosseggerà alle prime luci del sole l’uccello con il suo canto mattutino desterà le valli e la fiera continuerà a cacciare le altre prede più piccole. O casi umani! O genere umano inutile! Noi uomini siamo la parte meno importante e meno pregevole delle cose; né la nostra infelicità, fatta di zolle bagnate di sangue e di gridi dolorosi, né il dolore umano hanno impietosito gli Dei.

8ª strofa.

Io, moribondo, non chiedo aiuto né ai sordi Dei dell’Olimpo, né agli Dei infernali, né alla terra indegna, né alla notte; io non supplico neppure te ultimo scorcio della mia vita in questa nera e funesta notte, io non supplico nemmeno gli uomini venturi. Perché le parole e i doni  non possono onorare la  tomba e nemmeno  i pianti di uomini vili possono mai placare la tomba di un uomo sconfitto e sdegnoso?  I tempi precipitano in peggio. L’onore di vendicare le menti egregie degli antenati e il compito di riscattare la suprema vendetta dei miseri si affida malamente a uomini corrotti ed incapaci: che il corvo con le sue ali ruoti avidamente intorno al mio corpo morto; che la fiera strazi e il vento trascini la mia spoglia; e la tempesta disperda il mio nome e la mia memoria>>.

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