PARAFRASI E ANALISI DELLA POESIA L’INFINITO

PARAFRASI E ANALISI DELLA POESIA L’INFINITO


-Questa collina solitaria mi e’ sempre stata cara, e questa siepe che mi impedisce di guardare gran parte del lontano orizzonte. Ma, stando seduto e guardando, io immagino al di la’ di questa siepe spazi immensi, silenzi totali e una calma profondissima, tanto che per poco il cuore non si sgomenta. E, non appena sento il vento frusciare fra queste piante come un uccello che batte la ali, paragono quel silenzio infinito a questo frusciare del vento: e mi torna alla mente l’idea dell’eternita’. Mi appaiono le epoche passate e quella presente, che percepisco attraverso le sue manifestazioni reali: il suono della vita. E cosi’, tra questa immensita’ spazio-temporale, il mio pensiero perde ogni consapevolezza: e perdersi nel pensiero dell’immensita’ dell’infinito mi e’ dolce.


Analisi metrica:

L’infinito è un componimento in endecasillabi sciolti.

Presenza di elisione: quest’ermo (v. 1), s’annega (v. 14), m’è (v. 15).
Presenza di apocope: pensier (v. 7), cor (v. 8), stormir (v. 9), sovvien (v. 11), suon (v. 13), pensier (v. 14), naufragar (v. 15).
Presenza di enjabement: vv. 2-3, vv. 4-5, vv 7-8, vv. 8-9, vv. 9-10, vv. 10-11, vv. 12-13, vv. 13-14.


Analisi retorica:

Presenza di allitterazioni: c (v. 1), d,s (vv. 5-6), p (v. 7), s, c (v. 8), q (v. 9), v (vv. 10-11), e, s, r, n (vv. 11-12-13), m, s, n, r (vv. 14-15).
Anastrofe: Sempre caro mi fu (v. 1), quest’ermo colle (v. 1), il guardo esclude (v. 3), Io nel pensier mi fingo (v. 7), il vento odo stormir (vv. 8-9), pensier mio (v. 14).
Epifrasi: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe (vv.1-2), Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete (vv. 4-5-6), io quello Infinito silenzio e questa voce Vo’ comparando (vv. 9-10-11), mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei (vv. 11-12-13).
Iperbato: questa siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude (vv.2-3), profondissima quiete Io nel pensier mi fingo, ove per poco Il cor non si spaura (vv. 6-7-8), Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio (vv. 13-14).
Climax: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe (vv. 1-2), Immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar (vv. 14-15).
Iperbole: interminati (v. 4), sovrumani (v. 5), profondissima (v. 6).
Antitesi: Infinito silenzio e questa voce (v. 10), e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni (vv. 11-12), le morte stagioni e la presente e viva (vv. 12-13).
Polisindeto: e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete (vv. 5-6), e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei (vv. 11-12-13).
Onomatopea: stormir (v. 9).
Ossimoro: e il naufragar m’è dolce in questo mare (v. 15).


IL LINGUAGGIO

Il linguaggio si avvale di un lessico ricercato e letterario, costruito con espressioni tipiche della tradizione letteraria e poetica ( ermo colle, ultimo orizzonte); sono presenti alcuni latinismi ( ultimo, mirando, quiete, mi fingo).
L’idillio si apre con la descrizione del luogo reale in cui il poeta si trova: il monte Tabor, non lontano dalla casa paterna, dove egli andava spesso a rifugiarsi. Non a caso il poeta utilizza l’avverbio “sempre” e il verbo al passato “fu” – unico verbo al passato di tutta la poesia ( “sempre caro mi fu quest’ermo colle”) – proprio a voler sottolineare l’antico affetto che lega il poeta a quel luogo e, più in generale, alla natura, intesa, ancora, qui, come una forza benigna, dispensatrice di dolci illusioni e fonte di consolazione per l’animo umano.
Anche il Leopardi, come Ugo Foscolo, fa riferimento al nulla eterno. In Foscolo, il nulla eterno si identifica, alla luce del suo meccanicismo razionalista di stampo illuministico, con la morte e, dunque, con l’annullamento del tutto. Leopardi, invece, pervaso da una spiritualità di stampo romantico, è consapevole della inadeguatezza della ragione: il suo “nulla eterno” è una dimensione in cui la mente dell’uomo cerca di allargare a dismisura i propri confini per percepire delle verità supreme e assolute che altrimenti non riuscirebbe a comprendere.


SIGNIFICATO

L’idillio si configura come uno studio visivo-prospettico degli elementi del paesaggio per produrre nel lettore la suggestione “dell’infinito”. La vaghezza del linguaggio, basata sull’uso di parole di significato indeterminato, le quali, più che precisare le cose secondo le categorie di spazio e di tempo, ne sfumano i contorni, e il caratteristico vocabolario leopardiano (ermo, interminati, sovrumano, ecc..) producono quella poesia dell’indefinito che è spesso funzionale a quella dell’infinito.
Nell’Infinito Leopardi si concentra decisamente sull’interiorità, sul proprio io, e lo rapporta ad una realtà spaziale e fisica, in modo da arrivare a ricercare l’Infinito. L’esercizio poetico, dunque, si pone come superamento di ogni capacità percettiva, di cui la natura è il limite (rappresentato dalla siepe). Tra la minaccia del silenzio (e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura versi dal 5 all’8) e la sonorità della natura (E come il vento / odo stormir tra queste piante, versi 8 e 9), il pensiero afferra l’inafferrabile universalità dell’Infinito, superando la contingenza di ciò che ci circonda, che è l’esperienza fortemente voluta dall’autore.
Il poeta è salito sul Monte Tabor presso Recanati, a cui era molto affezionato. Una siepe gli impedisce la vista di gran parte dell’orizzonte e proprio questo ostacolo gli permette di fantasticare. Al di là della siepe immagina spazi senza limite, silenzi profondi e pace assoluta, tanto da provarne sgomento. Ma l’improvviso stormire del vento tra le piante lo riporta alla realtà, ed avverte un altro infinito, l’eternità e il tempo. Così il poeta si abbandona dolcemente a questa grande immensità.
L’Infinito, nella visione leopardiana, non è un infinito reale, ma è frutto dell’immaginazione dell’uomo e, quindi, da trattare in senso metafisico. Esso rappresenta quello slancio vitale e quella tensione verso la felicità connaturati ad ogni uomo, diventando in questo modo il principio stesso del piacere. L’esperienza dell’Infinito è un’esperienza duplice, che porta chi la compie ad essere in bilico tra la perdita di se stesso (Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio versi 13 e 14) e il piacere che da ciò deriva (e il naufragar m’è dolce in questo mare verso 15).
Per l’autore il desiderio di piacere è destinato a rinnovarsi; ricercando sempre nuove sensazioni, scontrandosi inevitabilmente con il carattere provvisorio della realtà, per terminare al momento della morte. Secondo questa teoria (teoria del piacere), espressa nello Zibaldone, l’uomo non si può appagare di piaceri finiti, ma ha necessità di piaceri infiniti nel numero, nella durata e nell’estensione: tali piaceri, però, non sono possibili nell’esperienza umana. Questo limite, tuttavia, non persiste nel campo dell’immaginazione, che diventa una via d’accesso ad un sentimento di piacere (espresso nell’ultimo verso) nella fusione con l’infinità del mare dell’essere.
È importante notare, tuttavia, che l’infinito leopardiano non è simile a quello di altri poeti romantici, in cui esso era straniamento dalla realtà per mezzo della semplice fuga nell’irrazionalità e nel sogno: la scoperta e l’esperienza dell’Infinito sono processi immaginativi sottoposti al controllo razionale. Il soggetto, cioè, crea consapevolmente il contrasto tra ciò che è limitato e ciò che è illimitato (l’ostacolo e l’infinito spaziale), e tra ciò che è contingente e ciò che è eterno.
Tale considerazione ci porta a contemplare quello che è il pessimismo dell’autore: egli è consapevole della vanità del suo tendere, sa che tutto è frutto della sua immaginazione, per quanto questa situazione sia dolce.
Un’altra lettura – basata sullo Zibaldone – porta a considerare Leopardi meno pessimista o illuso di quanto altri hanno ipotizzato o speculato. Molto lucidamente Leopardi distingue infinito da indefinito, lo precisa come qualcosa di difficile, se non impossibile, da definire appunto. L’infinito coincide con l’universo inconoscibile (per lui, per noi e per gli uomini futuri) e si espande per altri universi possibili, come teorizzato da Ilya Prigogine. Leopardi così appare molto meno irrazionale, meno irreparabilmente pessimista di come lo descrivono i testi scolastici. E’ sì amareggiato, deluso, sconfortato ma nel “suo” infinito si salva, si rifugia, trova ragione di vita e speranza.


COMMENTO

L’idillio si configura come uno studio visivo-prospettico degli elementi del paesaggio per produrre nel lettore la suggestione dell’infinito. La vaghezza del linguaggio, basata sull’uso di parole di significato indeterminato, le quali, più che precisare le cose secondo le categorie di spazio e di tempo, ne sfumano i contorni e il caratteristico vocabolario leopardiano (ermo, interminati, sovrumano, silenzio, quiete, infinito, silenzio, eterno, immensità) producono quella poesia dell’indefinito che spesso è funzionale alla poesia dell’infinito. Leopardi escogita un ostacolo spaziale, la siepe, che gli consente di immaginare, al di là di quella, «indeterminabili spazi e sovrumani silenzi e profondissima quiete». Allo stesso modo il rumore del vento diventa il segno della fugacità del tempo, del limite temporale del quale dialetticamente si determina la finzione dell’«eterno» in contrapposizione con il passato (le «morte stagioni»).

Si tratta però di un infinito non percepito, ma immaginato. E a rendere linguisticamente questa finzione concorrono ben otto «questo» e «quello», tra aggettivi e pronomi, dei quali non si avverte la presenza perché non producono frizione, in quanto si collocano nel ritmo del discorso poetico, ma hanno una precisa funzione logico-fantastica. Infatti la siepe che nel secondo verso è «questa», cioè vicina al poeta, nel quinto verso diventa «quella», cioè lontana. Se ne deduce che l’uso alternato di questi aggettivi e pronomi dimostrativi serva a indicare le oscillazioni del poeta tra la realtà del finito e l’immaginazione dell’infinito.

Ci sono due punti di questo idillio leopardiano che a una prima lettura otrebbero sembrare contraddittori. Parlando degli spazi interminabili e ella profonda quiete il poeta aggiunge: «ove per poco il cuor non si spaura , mentre nell’ultimo verso conclude «e il naufragar m’è dolce in questo are». Qual è dunque il sentimento di Leopardi di fronte all’infinito: paura o dolcezza? La contraddizione è più apparente che reale. Al primo impatto con ’infinito Leopardi avverte un senso di sgomento, ma si tratta di una sorta di terrorereligioso simile a quello che gli uomini primitivi provavano scoprendoil divino nella natura. Successivamente il poeta, immergendosimetaforicamente nell’infinito e identificandosi con il ritmo stesso dell’universo,perde la nozione di sé come essere infinitesimale e prova un senso di dolcezza.


PARAFRASI E ANALISI DELLA POESIA L’INFINITO