PARAFRASI DI MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO
PARAFRASI DI MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO
Meriggiare pallido e assorto è una poesia di Eugenio Montale, parte della raccolta intitolata Ossi di seppia e più precisamente della sezione dei cosiddetti “Ossi brevi”
- Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi. - Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche. - Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi. - E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Parafrasi
Passare il pomeriggio, pallido (per il caldo) e riflessivo, vicino a un caldissimo recinto di un giardino, ascoltare tra i rovi e le sterpaglie canti rumorosi dei merli, fruscii dei serpenti. Nelle crepe del terreno o sulla pianta della veccia osservare le file di formiche rosse, che ora si dividono, ora si riuniscono, in cima a piccolissimi mucchietti di terra. Guardare attentamente tra i rami il balenare in lontananza delle onde che si accavallano, mentre si alzano tremolanti friniti di cicale dalle alture prive di vegetazione. E procedendo nel sole che abbaglia la vista, percepire con uno stupore malinconico com’è realmente la vita intera e la sua sofferenza, in questo camminare di fianco a un muro che ha in cima cocci taglienti di bottiglia.
Figure retoriche
Allitterazioni: della “r” ” pResso “; ” tRa i pRuni “; “meRli”; “fRusci”; “cRepi”; “intRecciano”; “fRondi”; “scRicchi”; “spiaR le file di Rosse foRmiche/ ch’oRa si Rompono ed oRa si intRecciano”; del gruppo “tr”: “menTRe”; “TRemuli”; “TRiste”, “Travaglio; della “c”:”sCriCChi di CiCale dai Calvi piCChi”;
Onomatopee: “schiocchi” (v. 4); “fruscii” (v. 4); “scricchi” (v. 11);
Iperbato: “com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia” (vv. 15-16);
Sinestesie: “palpitare / lontano di scaglie di mare” (vv. 9-10);
Analogia: “si levano tremuli scricchi / di cicale dai calvi picchi” (vv. 11-12: picchi paragonati a teste calve);
Enjambements: “palpitare / lontano di scaglie di mare” (vv. 9-10); “scricchi / di cicale” (vv. 10-11);
Climax: “crepe del suolo” (v. 5) – “minuscole biche” (v. 8 ) – “calvi picchi” (v. 12) – muraglia (v. 14).
Commento
Ossi di seppia è la prima raccolta in versi di Montale: essa appare molto originale, poiché riesce a rielaborare profondamente la tradizione. Si può considerare, in un certo senso, il rovesciamento dell’Alcyone dannunziano, poiché anche quello di Montale è il diario di un’estate, ma dominato dal tema del “male di vivere”. Il titolo allude agli scheletri delle seppie e agli inutili scarti che galleggiano e sono trascinati a riva dalla corrente, perché “rifiutati” dal mare, che, peraltro, è il principale protagonista della raccolta.
Meriggiare pallido e assorto, una delle prime poesie a essere state composte, probabilmente nel 1916, all’interno della raccolta ha il valore emblematico di introdurre il tema-chiave dell’estate infiammata che rende tutto arido e secco. Il meriggio di una calda e assolata giornata estiva è un momento di immobilità e sospensione: per effetto della calura e della luce accecante, la vita è quasi ferma, tutto si muove molto lentamente e a fatica. Il paesaggio ligure delle Cinque Terre, arido e scarno, è quello tipico di tutta la raccolta: nonostante i numerosi echi verbali di D’Annunzio, siamo lontanissimi dal panismo. Anche D’Annunzio, infatti, aveva dedicato una poesia al “meriggio”, ma lì il caldo sole pomeridiano costituiva un tramite privilegiato per raggiungere l’estasi panica, tant’è che il poeta arrivava a dire “il mio nome è meriggio”; qui, invece, il sole è una luce fortissima e abbagliante, che, però, non permette di vedere nulla.
Infatti, l’aridità della natura è l’emblema di una condizione esistenziale di prigionia, solitudine e abbandono, di assenza di ogni slancio vitale. Il poeta si vede costretto ad accettare la triste e limitata condizione umana: l’uomo è simile alle formiche rosse che si muovono incessantemente senza meta. Il paesaggio è chiuso, non comunica con l’uomo e non è fatto per l’uomo, è solo un tramite verso qualcosa di indefinito, che dovrebbe essere in grado di rompere la monotonia della vita quotidiana, tuttavia rimane sempre misterioso e insondabile, incapace di offrire risposte soddisfacenti: il travaglio della vita resta, in definitiva, indecifrabile (l’uso del verbo “spiar” al v. 6, ad esempio, indica la ricerca di un segreto). La verità, l’essenza metafisica delle cose, rappresentata oggettivamente dalle “scaglie di mare”, si colloca al di là dell’ostacolo, della “muraglia” (emblema della limitatezza della condizione umana) sovrastata dai “cocci aguzzi di bottiglia” (emblemi dei dolori e delle sofferenze della vita). La muraglia simboleggia la dimensione meramente contingente: ciò significa che la parola poetica non è in grado di raggiungere la dimensione metafisica, di cui gli oggetti descritti in modo realistico costituiscono il cosiddetto “correlativo oggettivo”, anche se continua incessantemente a cercarla. Vi sono evidenti corrispondenze tra la descrizione realistica delle prime strofe e quella metaforica dell’ultima: la “muraglia” del penultimo verso riprende il “rovente muro d’orto” del secondo, in posizione quasi simmetrica, i “cocci aguzzi di bottiglia” (v. 17) sono i “pruni” (v. 3) spinosi.
L’uso dei verbi all’infinito (“meriggiare”, v. 1; “ascoltare”, v. 3; “spiar”, v. 6; “osservare”, v. 9; “sentire”, v. 14), interrotto soltanto da un gerundio (“andando”, v. 13), accentua la sensazione di una continuità informe e conferisce alla poesia una valenza universale e non personale: anche il poeta non partecipa alla scena che sta descrivendo, sembra quasi scomparire e diventare anche lui un’entità indeterminata.
Molte sono le suggestioni di poeti precedenti, profondamente rielaborate. Oltre al già citato D’Annunzio, il Dante dell’Inferno o delle rime petrose “aspre e chiocce” ha molto influenzato soprattutto il primo Montale; invece, la costruzione fonica e la precisione quasi scientifica nel descrivere realisticamente gli oggetti riconducono a Pascoli, ma è interamente scomparsa la felice “meraviglia” del fanciullino, ora “triste” (v. 14). Un’altra chiara reminiscenza letteraria è quella leopardiana: il “muro d’orto” del v. 2 ricorda la siepe dell’Infinito (l’orto richiama anche il giardino del male descritto nello Zibaldone), ma qui è un ostacolo che impedisce anche il piacere dell’immaginazione, che preclude lo “sguardo” verso ogni possibilità di salvezza e verso ogni speranza. Rispetto a Leopardi, Montale rinuncia alla protesta, alla ribellione, rimane in una condizione di perplessità, di disorientamento e di impotenza.