PARAFRASI DELLA POESIA CONSALVO

PARAFRASI DELLA POESIA CONSALVO

-DI GIACOMO LEOPARDI-

FONTE:http://carrubbabiagio.blog.kataweb.it/aspirante_poeta/2008/04/12/la-poesia-consalvo-di-giacomo-leopardi/


 I
Consalvo giaceva ormai prossimo alla fine della sua vita, della quale un tempo ne era stato sdegnato, ma ormai non lo era più perché erano passati 22 anni e mezzo e perché la sospirata fine gli incombeva sul letto di morte.
Consalvo era lì da gran tempo, abbandonato dai suoi amici, perché rimane solo, chi si mostra disprezzatore della vita.
Accanto a lui venne Elvira, famosa per la sua bellezza, condotta a lui dalla pietà e per consolare il suo stato di solitudine.
Lei era ben consapevole che un suo sguardo, una sua frase d’amore, sarebbe stata ripetuta più volte dal moribondo e sapeva che lei era motivo di vita per lui, benché lei non aveva mai udito nessuna parola d’amore da lui. E c’era, in Consalvo, un invincibile timore che aveva prevalso sul suo desiderio di dichiarare il suo amore verso di lei, così ché il troppo amore lo aveva reso schiavo della propria fanciullesca timidezza.

II

Ma infine la morte gli fece vincere la timidezza del parlare.
Consalvo, certo dei segni dell’imminente morte, le prese la mano bianchissima e le disse: <<Elvira, addio, non ti vedrò più. Ti do i maggiori ringraziamenti che la mia bocca può dire. Ti darà un premio chi può, se dal cielo viene concesso un premio alle persone pie>>.
 
III

La bella donna impallidiva e il suo petto diventava ansimante, dato che il cuore si stringe sempre se una persona, in punto di morte, anche non conosciuta, dice addio. Lei voleva contraddire il moribondo, mostrando di non credere all’avvicinarsi della morte. Ma Consalvo la prevenne e le disse: <<La morte desiderata, e non temuta, come tu sai, tante volte da me pregata scende su di me e lieto mi appare questo giorno funereo. Mi addolora il fatto che mi parto da te. Non vedrò più i tuoi occhi e non sentirò più la tua voce. Ma prima di lasciarci in eterno tu, Elvira, non vuoi darmi un bacio? Non si nega una grazia a chi muore. E non posso vantarmi più di questo dono, dato che fra poco una mano estranea mi chiuderà gli occhi per sempre>>. Dopo aver detto ciò, con un sospiro impresse nella mano destra dell’amata le sue fredde labbra, supplicando.
 
IV

La bellissima donna stette esitante e pensierosa e fissò lo sguardo dell’infelice, dove un’ultima lacrima riluceva. Il cuore non le consentì di respingere la domanda per non rendere ancora più penoso il triste addio con un diniego; anzi, la misericordia dei suoi ardori, la vinse. Elvira, abbassando il suo bel volto e la sua bocca, già tanto desiderata e oggetto di  fantasie e di desideri (da parte di Consalvo), e avvicinandosi dolcemente al volto afflitto e pallido per il mortale affanno, tutta benigna e con una espressione di alta pietà, diede più baci sulle convulse labbra del trepidante e felice amante.
 
V

O moribondo Consalvo, che diventasti allora? La vita, la morte l’infelicità come apparvero diversi ai tuoi occhi? E lui, che ancora teneva la mano della diletta Elvira, se la portò al cuore, che stava battendo gli ultimi battiti d’amore e di morte, e le disse: <<Come sono contento di stare  ancora sulla terra; come sono contento che furono le tue labbra a baciarmi; come sono contento di stringere ancora le tue mani! Tutto ciò mi sembra una visione paradisiaca, un sogno, una cosa bellissima. Quanto debbo alla morte! Il mio amore non ti fu nascosto mai, né a te né agli altri, perché sulla terra non si cela mai il vero amore. Il mio amore ti fu manifesto con i miei atti, con il mio volto turbato, con i miei occhi, ma non con le mie parole. E il mio sentimento sarebbe rimasto muto per sempre, se la morte non l’avesse fatto ardito. Morirò contento del mio destino, più non mi lamenterò del fatto che ho aperto gli occhi alla luce.
Non vissi invano, dopo che la tua bocca si impresse sulla mia.
Anzi giudico il mio destino assai felice perché il mondo ha due cose belle: l’amore e la morte. Il cielo mi guida alla morte sul fior della gioventù; ora mi accontento dell’amore. Ah se solo una volta tu avessi acquietato e appagato il lungo mio amore, allora la terra mi sarebbe diventata un paradiso, per i miei occhi cambiati in virtù dell’amore.
Avrei sopportato perfino la terribile vecchiaia con animo sereno, perché il ricordo del bacio mi sarebbe bastato per sopportarla e il poter dire: <<io fui felice sopra gli altri felici>>. Ma il cielo non consente agli uomini di essere felici così intensamente e non consente di  amare senza gioia.
E anche se, per patto, fossi andato nelle fustigazioni del carnefice, ben contento sarei passato direttamente dalle tue braccia alle ruote della tortura, volando nei roghi; e sarei disceso, ben contento, nel temuto inferno.
 
VI

O Elvira, o Elvira beato chi riceve il tuo sorriso d’amore, felice chi per te sparga la sua vita.
È consentito, è consentito agli uomini di essere felici.
La felicità non è un sogno, come credetti per gran tempo, ma è consentito provare felicità sulla terra.
Ciò seppi il giorno che ti guardai per la prima volta e tutto ciò accadde per la mia morte; ma io non odio quel giorno di innamoramento e non ho la forza di biasimare l’ultimo giorno della mia vita, anche se passato fra tante agonie.
 
VII
Ora tu vivi beata, e abbellisci il mondo con la tua bella persona.
Nessuno ti amerà quanto ti amai io perché non potrà mai nascere un amore così grande.
Quanto fosti desiderata, amata e pianta dal povero Consalvo.
Come ero uso impallidire quando sentivo il nome di Elvira, e il cuore mi si congelava;
come ero solito tremare quando varcavo la soglia del tuo palazzo e quando sentivo la tua voce angelica;
come ero solito tremare quando vedevo la tua fronte, io che non tremo neanche dinanzi al morire!
Ma il fiato e la vita mi vengono meno alle parole d’amore.
Il mio tempo ormai è passato, né potrò ricordare questo giorno.
La tua cara immagine parte insieme alla mia fiamma vitale.
Addio. Se questo mio sentimento non ti fu noioso, domani al passaggio del  mio feretro, all’annottare manda un sospiro d’amore e di pietà.
 
VIII

Tacque: né visse ancora per molto tempo, poiché con la parola partì anche lo spirito e prima che facesse sera il suo primo giorno felice gli sfuggì dal suo sguardo.

Il congedo di Consalvo preannuncia, descrive ed anticipa la triste morte del poeta così come la descrive il suo amico sodale Antonio Ranieri che, in una celebre pagina della biografia di Leopardi, ha scritto: <<Aperti più dell’usato gli occhi, mi guardò più fisso che mai. Poscia: – Io non ti veggo più, – mi disse come sospirando. E cessò di respirare, e il polso né il cuore non battevano più>> (Antonio Ranieri, Supplemento alla notizia intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi).
Io, Biagio Carrubba, trovo però questa differenza tra Consalvo e Leopardi: mentre Consalvo guarda fuggire il suo primo giorno felice dal suo sguardo e muore disperato, Leopardi, quando chiude gli occhi e dice “io non veggo più” perde la felicità terrena, effimera, precaria, caduca, fittizia, epifonemica, corporale della sua esistenza. Invece, con la morte, Leopardi trova il suo primo giorno felice, che non aveva mai trovato nella sua vita terrena, ed acquista la felicità ultra-terrena, leggera, metafisica, assoluta ed eterna.