Parafrasi de La ginestra

Parafrasi de La ginestra

(versi 1-7) Qui sulla pendice (schiena) riarsa del tremendo (formidabil) distruttore (sterminator) monte Vesuvio, che nessun altro arbusto o fiore allieta, tu odorosa ginestra spargi i tuoi cespi solitari intorno, appagata dai deserti [mostrando di non sdegnare i deserti, anzi quasi di prediligerli].

Ti vidi un’altra volta abbellire con i tuoi steli anche le solitarie contrade che circondano Roma (la cittade) la quale città [Roma] fu un tempo dominatrice di popoli, e sembra che (par che) [le contrade]  con il loro cupo e silenzioso aspetto testimonino e ricordino al viandante (passeggero) il grande impero perduto. 

Ti rivedo ora in questo suolo tu che sei amante di luoghi tristi e abbandonati dal mondo, e sempre compagna di grandezze decadute.

[…]

Venga in questi luoghi colui che suole elogiare (esaltar con lode, esaltare con enfasi, con convinzione cieca) la nostra umana condizione (il nostro stato) e guardi quanto la natura benigna, amorevole (amante, detto con sarcasmo) si curi del genere umano.

E qui potrà anche giudicare esattamente la potenza (possanza) del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta (ov’ei men teme), con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ meno lievi annientare del tutto all’improvviso (subitamente).

In questi luoghi (rive) sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità (magnifiche sorti e progressive – iperbato – la citazione proviene dalla dedica che il cugino del poeta, Terenzio Mamiani, premetteva agli Inni Sacri).

Qui guarda e ammira rispecchiato te stesso (ti specchia), secolo superbo [perchè pensi di dominare la natura e credi nel progresso] e stolto [perchè non ti rendi conto delle minacce che sovrastano il mondo], che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento (il risorto pensier, che aveva sgombrato tutte le oscurità del medioevo) e, tornato indietro (volti addietro i passi), per di più ti vanti del procedere a ritroso (del ritornar) e lo chiami progresso.

[…]

(versi 111-135) L’uomo nobile  d’animo è colui che ha il coraggio di guardare (a sollevar s’ardisce gli occhi mortali) in faccia il destino umano (comun fato) e apertamente (con franca lingua), senza togliere nulla al vero, ammette il male che ci è stato dato in sorte e la nostra insignificante e fragile condizione; è colui [con richiamo al verso 111, cioè l’uomo nobile d’animo] che si rivela grande e forte nelle sofferenze, e non aggiunge alle sue miserie gli odi e le ire fraterne, più gravi ancora di ogni altro danno, incolpando l’uomo del suo dolore, ma dà la colpa a quella che è davvero responsabile (è rea), che è madre dei mortali perchè li ha generati, ma matrigna nella volontà [per il trattamento che riserva loro ]. Chiama nemica costei [la Natura], e pensando che contro costei sia unita, come realmente è (siccome è il vero), e ordinata fin dalla sua prima origine, la società umana, ritiene che tutti gli uomini siano alleati fra loro e abbraccia tutti con amore vero, prestando valido e sollecito aiuto e aspettandolo nei pericoli che minacciano or gli uni or gli altri e nelle sofferenze della lotta che di tutti gli esseri umani contro la natura.


Commento: questo canto, scritto nel 1836, è l’ultima grande poesia di Leopardi e in essa sono presenti le tematiche già trovate nel dialogo di Plotino e Porfirio, nel brano dello Zibaldone “la mia filosofia”, e nel dialogo di Tristano e un amico. In quegli anni Leopardi si trova a Napoli, in particolare abita in una casa ai piedi del vulcano Vesuvio, e proprio qui, sulle aride pendici del Monte, egli vede nelle piante di ginestra, con i loro fiori gialli e profumati. Essi sono gli unici fiori presenti in questo luogo desertico dove un tempo, quasi 2000 anni prima, fioriva un’importante città, Pompei, ricoperta di lava e distrutta in poche ore da un’eruzione del vulcano. Proprio in questi luoghi cioè si dimostra quanto sia fragile e precaria la condizione dell’uomo, la cui vita e le cui opere la natura può distruggere con un piccolo movimento, come è successo a gli abitanti di Pompei nelle 79 d.C.. E Leopardi invita i suoi contemporanei, così superbi, così fiduciosi nelle capacità dell’uomo, a venire qui e a guardare invece quanto poco ci vuole perché l’uomo sia cancellato. Cosa può fare egli allora vista la sua condizione di debolezza, di inferiorità nei confronti della natura? Secondo Leopardi, anzitutto un uomo nobile d’animo deve accettare e guardare in faccia questa realtà con coraggio e dignità, e deve accettare la sofferenza; ma soprattutto deve voler bene agli altri uomini, deve abbracciarli, deve aiutarli e aspettarsi aiuto da loro nella guerra comune contro la natura. Solo in questo modo, cioè uniti, alleati, gli uomini potranno far fronte in qualche modo alla potenza della natura; in altre parole, l’unico rimedio alla sofferenza è l’amore per gli altri. Nella conclusione della poesia, Leopardi afferma che l’uomo dovrebbe prendere esempio dalla ginestra che, pur consapevole della sua condizione fragile e precaria, la accetta con dignità, e d’altra parte non crede di essere una creatura speciale e privilegiata, come spesso fanno gli uomini con folle orgoglio. Come detto all’inizio, in questa poesia compaiono tematiche già viste in altre opere: da una parte l’accusa di viltà, ingenuità e superbia che Leopardi rivolge ai suoi contemporanei (come nel dialogo di Tristano e un amico), dall’altra l’importanza della solidarietà fra gli uomini (già espressa nel dialogo di Plotino e Porfirio e nel brano dello Zibaldone: “la mia filosofia”).