PARADISO CANTO XXIV RIASSUNTO INTERPRETAZIONE

PARADISO CANTO XXIV RIASSUNTO INTERPRETAZIONE

FONTE:https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xxiv.html

Interpretazione complessiva

Protagonista assoluto del Canto è san Pietro, presentato alla fine del precedente come colui che tien le chiavi della gloria del Paradiso (XXIII, 139) e che qui sottopone Dante a un esame circa il possesso della fede, mentre san Giacomo e san Giovanni faranno lo stesso nei Canti XXV e XXVI riguardo a speranza e carità: il triplice esame prepara Dante all’ascesa ai Cieli successivi, il Primo Mobile e l’Empireo in cui gli appariranno i nove cori angelici e la candida rosa dei beati, preludio alla visione di Dio che concluderà il viaggio nell’Oltretomba (siamo nella terza e ultima parte della Cantica, la più impegnativa sul piano poetico). La scelta dei tre Apostoli come i maestri chiamati a interrogare il discepolo non è casuale, in quanto essi vengono citati assieme in vari passi del Vangelo come i prescelti da Cristo e gli esegeti medievali erano soliti accostarli alle tre virtù teologali, specie san Giacomo che era di fatto figura della speranza: l’apparizione di Pietro ha poi qualcosa di grandioso, con la solenne preghiera di Beatrice agli Apostoli tutti di concedere a Dante qualche briciola della loro sapienza (è la stessa immagine usata nel I Trattato del Convivio, fatto forse non privo di significato), quindi le luci iniziano a ruotare in cerchio e l’anima di Pietro si stacca dalla propria corona splendendo più di tutte le altre, evocata dall’ardente affetto di Beatrice. È quest’ultima a pregare il santo di esaminare Dante sulla fede, di punti lievi e gravi  come in un esame universitario, non perché Pietro non sappia già che il poeta possiede intatte tutte e tre le virtù, ma perché è giusto che Dante affronti la questione glorificando la fede, ciò che consente prima di ogni altra cosa la salvezza e l’ammissione in Paradiso. E infatti Dante si prepara subito a rispondere, come il baccialier (il baccelliere, ovvero il candidato all’esame finale di un corso di teologia) che raccoglie gli argomenti con cui dovrà sostenere la questione proposta dal maestro e che agirà sotto lo sguardo attento di Beatrice-teologia, colei che ha condotto Dante sino a questo punto e che gli ha permesso di sostenere il delicato esame: esso si svolgerà secondo i procedimenti tipici delle Università del tempo e in base alla più rigorosa terminologia filosofica, non perché Dante intenda fare sfoggio di dottrina ma per sottolineare l’assoluta importanza della fede nella partita della salvezza, nonché la sua superiorità sul ragionamento filosofico, ciò in cui si può forse scorgere un riferimento al cosiddetto «traviamento» intellettuale del poeta.
Il colloquio si articola dunque in tre momenti distinti, che corrispondono alla definizione della fede, alla dichiarazione del suo possesso e della sua fonte, alla professione della fede individuale del poeta: quanto alla definizione, Dante ripete testualmente quella paolina contenuta nella Lettera agli Ebrei (XI, 1) e chiosata da san Tommaso nella Summa theol., quindi sottolineando l’impossibilità di vedere sulla Terra ciò che è oggetto di mistero divino e che solo dopo la morte, in Paradiso, diverrà manifesto, mentre durante la vita può solo essere oggetto appunto di fede. Quest’ultima è dunque definita come atto supremo della volontà, non come procedimento intellettuale, e benché non venga totalmente sganciata dalla ragione è detto chiaramente che essa non è in grado di comprendere i misteri divini che sono inconoscibili all’uomo: è in fondo l’affermazione definitiva di quanto è stato spesso affermato nel poema, a cominciare dal discorso di Virgilio di Purg., III, 31-45, mentre è ribaltata la prospettiva del Convivio in cui la ragione veniva esaltata come la via in grado di condurre l’uomo alla vera conoscenza, sia pure imperfetta riguardo alle cose celesti che però potevano essere spiegate con argomenti fisici e filosofici, capaci di corroborare la fede nei misteri. Qui Dante sembra invece ribadire la formula di sant’Agostino credo ut intelligam, subordinando la ragione alla fede proprio come Virgilio era subordinato a Beatrice, tanto che Pietro si compiace delle affermazioni di Dante e osserva che un tale possesso della dottrina renderebbe vano ogni ingegno di sofista (con riferimento forse all’averroismo e ad altre scuole filosofiche che sconfinavano nell’eresia, se non anche alle affermazioni di Dante stesso nel Convivio già evocato indirettamente con l’immagine delle briciole cadute dalla mensa del Paradiso). Non deve sfuggire il fatto che le argomentazioni di Dante qui non fanno alcun riferimento ad Aristotele o ad altri filosofi dell’antichità, bensì si fondano principalmente sulle Scritture come fonte primaria della fede in forza del loro carattere ispirato, del fatto che le vecchie e… le nuove cuoia (Antico e Nuovo Testamento) sono state dettate direttamente dallo Spirito Santo: la prova di tale ispirazione è nei miracoli che le Scritture raccontano, non spiegabili con argomenti naturali, e all’obiezione di san Pietro in base alla quale essi sono testimoniati dalle Scritture stesse, Dante ribatte con l’argomento di Agostino per cui la diffusione del Cristianesimo nel mondo è un miracolo sufficientemente valido a dimostrare la veridicità dei testi sacri, così come la predicazione dello stesso Pietro in povertà che gettò le basi dell’edificio della Chiesa. L’esame può concludersi con la professione di fede personale da parte del poeta, il cui Credo ricalca la formula ufficiale della dottrina e sottolinea anzitutto la fede nell’esistenza di Dio, di cui ci sono prove fisiche e metafisiche ma, soprattutto, la verità rivelata nelle Scritture, così come l’evangelica dottrina  assicura Dante sul mistero della Trinità, non spiegabile razionalmente come del resto già affermato da Virgilio nel passo citato della II Cantica. Tutto viene dunque ricondotto alla rivelazione come elemento fondante della fede e della dottrina cristiana, svalutando la ragione che è di per sé insufficiente a spiegare all’uomo ciò che è inconoscibile per il suo limitato intelletto: viene ribadito ulteriormente quanto già affermato da Dante all’inizio della Cantica, quando aveva detto che in Paradiso si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l’uom crede  (II, 43-45), mentre anche in questo Canto il poeta sottolinea che le profonde cose della vita eterna sono visibili in Cielo ma nascoste sulla Terra, quindi la fede in esse deve prescindere da ogni dimostrazione filosofica o scientifica, che almeno in parte erano presenti nel Convivio le cui affermazioni, non a caso, vengono spesso confutate nella III Cantica. La conclusione del Canto non può allora che essere una viva manifestazione di affetto e carità da parte di san Pietro, che benedice Dante con un canto celestiale e gli gira intorno per tre volte, esattamente come aveva fatto con Beatrice all’inizio dell’episodio, paragonato a un padrone che si felicita col servo che gli ha portato una buona novella (la similitudine ribadisce ancora una volta la sottomissione di Dante all’autorità della Chiesa e alla parola rivelata, specie pensando che Pietro è stato il primo papa e autore di libri ispirati, dunque si può affermare che questa sia la definitiva riconciliazione fra lui e la teologia nei confronti della quale la filosofia torna ad essere, secondo la celebre formula cristiana, ancilla).

 

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