PARADISO CANTO XXIV RIASSUNTO INTERPRETAZIONE
FONTE:https://divinacommedia.weebly.com/paradiso-canto-xxiv.html
Interpretazione complessiva
Il colloquio si articola dunque in tre momenti distinti, che corrispondono alla definizione della fede, alla dichiarazione del suo possesso e della sua fonte, alla professione della fede individuale del poeta: quanto alla definizione, Dante ripete testualmente quella paolina contenuta nella Lettera agli Ebrei (XI, 1) e chiosata da san Tommaso nella Summa theol., quindi sottolineando l’impossibilità di vedere sulla Terra ciò che è oggetto di mistero divino e che solo dopo la morte, in Paradiso, diverrà manifesto, mentre durante la vita può solo essere oggetto appunto di fede. Quest’ultima è dunque definita come atto supremo della volontà, non come procedimento intellettuale, e benché non venga totalmente sganciata dalla ragione è detto chiaramente che essa non è in grado di comprendere i misteri divini che sono inconoscibili all’uomo: è in fondo l’affermazione definitiva di quanto è stato spesso affermato nel poema, a cominciare dal discorso di Virgilio di Purg., III, 31-45, mentre è ribaltata la prospettiva del Convivio in cui la ragione veniva esaltata come la via in grado di condurre l’uomo alla vera conoscenza, sia pure imperfetta riguardo alle cose celesti che però potevano essere spiegate con argomenti fisici e filosofici, capaci di corroborare la fede nei misteri. Qui Dante sembra invece ribadire la formula di sant’Agostino credo ut intelligam, subordinando la ragione alla fede proprio come Virgilio era subordinato a Beatrice, tanto che Pietro si compiace delle affermazioni di Dante e osserva che un tale possesso della dottrina renderebbe vano ogni ingegno di sofista (con riferimento forse all’averroismo e ad altre scuole filosofiche che sconfinavano nell’eresia, se non anche alle affermazioni di Dante stesso nel Convivio già evocato indirettamente con l’immagine delle briciole cadute dalla mensa del Paradiso). Non deve sfuggire il fatto che le argomentazioni di Dante qui non fanno alcun riferimento ad Aristotele o ad altri filosofi dell’antichità, bensì si fondano principalmente sulle Scritture come fonte primaria della fede in forza del loro carattere ispirato, del fatto che le vecchie e… le nuove cuoia (Antico e Nuovo Testamento) sono state dettate direttamente dallo Spirito Santo: la prova di tale ispirazione è nei miracoli che le Scritture raccontano, non spiegabili con argomenti naturali, e all’obiezione di san Pietro in base alla quale essi sono testimoniati dalle Scritture stesse, Dante ribatte con l’argomento di Agostino per cui la diffusione del Cristianesimo nel mondo è un miracolo sufficientemente valido a dimostrare la veridicità dei testi sacri, così come la predicazione dello stesso Pietro in povertà che gettò le basi dell’edificio della Chiesa. L’esame può concludersi con la professione di fede personale da parte del poeta, il cui Credo ricalca la formula ufficiale della dottrina e sottolinea anzitutto la fede nell’esistenza di Dio, di cui ci sono prove fisiche e metafisiche ma, soprattutto, la verità rivelata nelle Scritture, così come l’evangelica dottrina assicura Dante sul mistero della Trinità, non spiegabile razionalmente come del resto già affermato da Virgilio nel passo citato della II Cantica. Tutto viene dunque ricondotto alla rivelazione come elemento fondante della fede e della dottrina cristiana, svalutando la ragione che è di per sé insufficiente a spiegare all’uomo ciò che è inconoscibile per il suo limitato intelletto: viene ribadito ulteriormente quanto già affermato da Dante all’inizio della Cantica, quando aveva detto che in Paradiso si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l’uom crede (II, 43-45), mentre anche in questo Canto il poeta sottolinea che le profonde cose della vita eterna sono visibili in Cielo ma nascoste sulla Terra, quindi la fede in esse deve prescindere da ogni dimostrazione filosofica o scientifica, che almeno in parte erano presenti nel Convivio le cui affermazioni, non a caso, vengono spesso confutate nella III Cantica. La conclusione del Canto non può allora che essere una viva manifestazione di affetto e carità da parte di san Pietro, che benedice Dante con un canto celestiale e gli gira intorno per tre volte, esattamente come aveva fatto con Beatrice all’inizio dell’episodio, paragonato a un padrone che si felicita col servo che gli ha portato una buona novella (la similitudine ribadisce ancora una volta la sottomissione di Dante all’autorità della Chiesa e alla parola rivelata, specie pensando che Pietro è stato il primo papa e autore di libri ispirati, dunque si può affermare che questa sia la definitiva riconciliazione fra lui e la teologia nei confronti della quale la filosofia torna ad essere, secondo la celebre formula cristiana, ancilla).