OPERE DI PROTAGORA

OPERE DI PROTAGORA

OPERE DI PROTAGORA


Non è facile determinare con certezza quanti e quali scritti compose Protagora. Sono andati tutti persi e rimangono solo alcuni frammenti.
Di certo, si riconosce generalmente che Protagora fu l’autore delle Antilogie, opera in due libri. Il titolo significa letteralmente Discorsi contraddittori e rinvia ad una delle concezioni fondamentali di Protagora, ovvero che sul medesimo argomento sono possibili discorsi completamente opposti e ugualmente veri e fondati.
Secondo l’Untersteiner, le Antilogie trattarono quattro problemi fondamentali: 1) intorno agli dei; 2) intorno all’essere; 3) intorno alle leggi ed a tutti i problemi che riguardano la vita delle città; 4) intorno alle arti.
Circa il primo problema è probabile che Protagora abbia anche scritto un paragrafo aggiuntivo Intorno alla sorte nell’Ade, negando un’esistenza separata dell’anima, e dunque una sua prosecuzione nell’al di là. Ma il punto focale dell’opera consisteva nell’affermazione che gli dei non hanno alcuna influenza nelle vicende umane.
Queste tesi, tuttavia, sembrano contraddire lo stesso assioma fondamentale proposto da Protagora, ovvero che sul medesimo tema sono possibili discorsi alternativi l’uno all’altro. E’ mia convinzione, pertanto, che Protagora non si sia sbilanciato in un alcuna affermazione perentoria, ma si sia semplicemente pronunciato a favore delle tesi che a lui parevano più probabili, ovvero che gli dei non hanno alcuna influenza sulle vicende umane, e che l’anima non goda di alcuna esistenza eterna.

La seconda parte dell’opera, Intorno all’essere, consisteva principalmente in una polemica contro gli eleati e la loro dottrina. Per Protagora era inaccetabile la tesi eleatica che la percezione sensibile inganna soltanto.
E’ probabile che lo svolgimento del terzo problema, quello riguardante le leggi e i problemi delle città, sia servito a Platone per riportare i punti salienti del pensiero di Protagora nell’omonimo dialogo.
Il quarto tema allude alle arti in generale: qui è possibile che Protagora abbia collocato le sue posizioni sulla matematica e sull’arte della contesa e della confutazione, ma sembra improbabile che il titolo del relativo capitolo fosse Intorno all’arte eristica. Secondo gli studiosi più accreditati, infatti, il termine eristico aveva un significato negativo persino presso gli stessi sofisti: voleva dire discorso cavilloso, pretestuoso e calunnioso.

La verità o Intorno alla verità è il titolo della più importante opera di Protagora. L’Untersteiner ipotizza che si tratti di un titolo posticcio, proposto da Platone, e ritiene possibile che in origine il vero titolo fosse Discorsi demolitori.
Lungi dall’avere un significato solo distruttivo, il discorso demolitorio aveva come scopo lo smascheramento della tesi preconcetta, e l’arbitraria disposizione umana a credersi nella verità, quando il lato soggettivo e parziale aveva la prevalenza su quello oggettivo.
Il merito del sofista Protagora stava indubbiamente nella scoperta delle ragioni dell’altro e nella comprensione dei motivi di tali ragioni.

L’opera platonica che spiega ed insieme evidenzia i limiti del pensiero di Protagora non è il dialogo omonimo, ma il Teeteto, scritto che insieme al Sofista, tocca davvero i vertici della speculazione filosofica.
Al contrario, leggendo il dialogo intitolato Protagora, viene da chiedersi se Platone renda di Protagora un profilo fedele all’originale.
Credo che nell’intento di mostrare i limiti e le incertezze del vecchio sofista da un lato, e nell’esaltare la profondità del pensiero socratico dall’altro, Platone abbia finito col deformare un poco il carattere ed il pensiero di Protagora.
Nel dialogo platonico, questi cade in difficoltà di fronte alla domanda socratica sull’insegnabilità delle virtù e sulla successiva domanda concernente il carattere delle virtù, il loro essere una cosa sola, oppure una serie di qualità particolari, non collegate l’una all’altra.
La vittoria di Socrate su Protagora, così come lo descrisse Platone, appare forzata. Certo non potevano mancare gli argomenti empirici a favore di una considerazione pluralista delle virtù. In molti individui esse sono concentrate, in altri del tutto assenti, ma è evidente che la media degli uomini dimostra che alcuni sono solo intelligenti, altri sono solo corretti, altri ancora sono solo buoni, ed altri ancora non difettano di coraggio e prudenza, ma possono essere pigri, oppure condizionati dal loro dovere e dai loro obblighi, e quindi necessitati ad agire in modo non conforme a principi virtuosi universali.
Nel dialogo platonico, in sostanza, viene a mancare il dato fondamentale della dottrina protagorea, ovvero che sul medesimo argomento, ad esempio, il carattere e la natura delle virtù sono possibili due o più discorsi del tutto diversi, ed ugualmente veri.
Se Socrate aveva dunque ragione a porre in risalto l’unitarietà della virtù, Protagora avrebbe potuto facilmente dimostrare quanti uomini sono solo una somma di qualità positive e negative.

Analogamente, rispetto ad uno dei motivi di più accesa discussione, la celebre affermazione del poeta Simonide su quanto sia difficile l’essere buoni, che probabilmente era stata pronunciata con un sospiro, Platone non sembra qui così profondo come in altre occasioni.
L’essere buoni d’animo, persino il sapere che cosa sia la bontà, non ci risparmia affatto dalle prove della vita vera, nella quale è davvero difficile essere buoni sempre e comunque.
In Protagora vi era una consapevolezza dello sforzo che ognuno deve fare su sé stesso per essere buono, corretto, giusto, anche quando gli altri si comportano in modo contrario.
In Socrate questa dimensione politica, sociale e relazionale del comportamento umano quasi scompare. Tutto si risolve nella conoscenza del bene in sè, come se questa fosse sempre sufficiente, anche di fronte ai mali ed alle ingiustizie, a vincere la tentazione del male. Ma la soluzione socratica si arresta proprio di fronte alle situazioni più spinose: situazioni che lo stesso Protagora aveva invece ben intravisto. Potrebbe, ad esempio, essere lecito fermare con ogni mezzo un uomo che sta per compiere un assassinio?
E’ l’esame delle circostanze che ci consente di decidere per il meglio o per il peggio, non il rispetto dogmatico di qualche principio. Lo stesso Kant, che pure credeva nella derivazione a priori dei principi morali, ammise che la regola dell’azione risiedeva nella massima di operare cercando di essere d’esempio in situazioni del tutto inedite.
Ed accusare Kant di relativismo morale pare davvero assurdo.

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