OMERO ACHILLE E PRIAMO

OMERO ACHILLE E PRIAMO

(testo tratto da ALESSANDRO BARICCO, Omero, Iliade, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 144-146)


Allora il vecchio re entrò. Lasciò Ideo a sorvegliare i carri. Ed entrò nella tenda di
Achille. C’erano alcuni uomini che si affaccendavano intorno alla tavola ancora
imbandita. Achille era seduto in un angolo, solo. Il vecchio re gli si avvicinò
senza che nessuno se ne accorgesse. Avrebbe forse potuto ucciderlo. Ma invece
cadde ai suoi piedi, e abbracciò le sue ginocchia. Achille rimase stupefatto,
impietrito dalla sorpresa. Priamo gli prese le mani, le mani terribili che tanti figli
gli avevano ucciso, e se le portò alle labbra, e le baciò. «Achille, tu mi vedi, sono
vecchio ormai. Come tuo padre, ho passato la soglia della triste vecchiaia. Ma lui
almeno sarà nella sua terra a sperare di rivedere un giorno il figlio, di ritorno da
Troia. Immensa invece è la mia sventura: cinquanta figli, avevo, per difendere la
mia terra, e la guerra me li ha portati via quasi tutti; non mi era rimasto che
Ettore, e tu l’hai ucciso, sotto le mura della città di cui era l’ultimo ed eroico
difensore. Sono venuto fin qui per riportarmelo a casa, in cambio di splendidi
doni. Abbi pietà di me, Achille, nel ricordo di tuo padre: se hai pietà di lui abbi
pietà di me che, unico fra tutti i padri, non ho avuto vergogna di baciare la mano
che ha ucciso mio figlio.» Gli occhi di Achille si riempirono di lacrime. Con un
gesto della mano scostò da sé Priamo, con dolcezza. Piangevano, i due uomini,
nel ricordo del padre, del ragazzo amato, del figlio. Le loro lacrime, in quella
tenda, nel silenzio. Poi Achille si levò dal suo seggio, prese il vecchio re per mano
e lo fece alzare. Guardò i suoi capelli bianchi, la bianca barba, e commosso gli
disse: «Tu, infelice, che tante sventure hai patito nell’animo. Dove hai trovato il
coraggio per venire fino alle navi degli Achei e inginocchiarti davanti all’uomo
che ti ha ucciso tanti figli valorosi? Hai un cuore forte, Priamo. Siediti qui, sul
mio seggio. Dimentichiamo insieme l’angoscia, che tanto piangere non serve. È
destino degli uomini vivere nel dolore, e solo gli dei vivono felici. È la sorte,
imperscrutabile, che dispensa bene e male. Mio padre, Peleo, era un uomo
fortunato, primo fra tutti gli uomini, re nella sua terra, sposo di una donna che
era una dea: eppure la sorte gli diede un solo figlio, nato per regnare, e adesso
quel figlio, lontano da lui, corre veloce verso il suo destino di morte, seminando
la rovina tra i suoi nemici. E tu, che eri così felice un tempo, re di una grande
terra, padre di molti figli, padrone di una fortuna immensa, adesso sei costretto
ogni giorno a svegliarti in mezzo alla guerra e alla morte. Sii forte, vecchio, e non
tormentarti: piangere tuo figlio non lo riporterà in vita». E con un gesto invitò il
vecchio re a sedersi, sul suo seggio. Ma quello non volle, disse che voleva vedere
il corpo del figlio, coi suoi occhi, solo quello voleva, non voleva sedersi, voleva
suo figlio. Achille lo guardò irritato. «Adesso non farmi arrabbiare, vecchio. Ti
ridarò tuo figlio, perché se sei arrivato vivo fin qui, vuol dire che è stato un dio a
guidarti, e io non voglio dispiacere agli dei. Ma non farmi arrabbiare, perché
sono anche capace di disubbidire agli dei.» Il vecchio re tremò di paura, allora, e
si sedette, come gli era stato ordinato. Achille se ne uscì dalla tenda, coi suoi
uomini. Andò a prendersi i preziosi doni che Priamo aveva scelto per lui. E due
teli di lino, e una tunica, lasciò sul carro, perché vi avvolgessero il corpo di Ettore
quando sarebbe stato pronto per essere riportato a casa. Poi chiamò le schiave e
ordinò loro di lavare e ungere il cadavere dell’eroe, e di fare tutto questo in
disparte, perché gli occhi di Priamo non vedessero, e non dovessero soffrire. E
quando il corpo fu pronto, Achille stesso lo prese tra le braccia, lo sollevò e lo
depose sul letto funebre. Poi tornò nella tenda e si sedette di fronte a Priamo. «Ti
è stato reso il figlio, vecchio, come tu volevi. All’alba lo vedrai, e te lo potrai
portare via. E adesso ti ordino di mangiare con me.» Prepararono una sorta di
banchetto funebre, e quando il pasto fu finito, rimanemmo lì, uno di fronte
all’altro a parlare, nella notte. Non riuscivo a non ammirare la sua bellezza,
sembrava un dio. E lui mi stava ad ascoltare, in silenzio, rapito dalle mie parole.
Per quanto possa sembrare incredibile, passammo quel tempo ad ammirarci.
Tanto che alla fine, dimenticando dov’ero, e perché ero lì, io chiesi un letto,
perché erano giorni che non dormivo, trafitto dal dolore: e me lo prepararono,
con tappeti preziosi e coperte di porpora, in un angolo, perché nessuno degli altri
Achei mi vedesse. Quando tutto fu pronto, Achille venne da me e mi disse:
«Fermeremo la guerra per darti il tempo di onorare tuo figlio, vecchio re». E poi
mi prese la mano, e la strinse, e io non ebbi più paura.
Mi svegliai nel cuore della notte, che tutti dormivano, intorno a me. Dovevo
essere impazzito per pensare di aspettare l’alba lì. Mi alzai, in silenzio, andai ai
carri, svegliai Ideo, attaccammo i cavalli e, senza che nessuno ci vedesse,
partimmo. Attraversammo nel buio la pianura. E quando l’Aurora dal colore
d’oro scivolò su tutta la terra, arrivammo alle mura di Troia.