ODISSEA LIBRO 17 VV 290-327 TRADUZIONE

ODISSEA LIBRO 17 VV 290-327 TRADUZIONE

Il cane Argo Odissea


In questo celebre passo dell’Odissea ecco apparire il cane di Ulisse, Argo, ormai vecchio e malconcio, trascurato dai servi dopo la partenza dell’eroe omerico per Troia. Argo, nonostante siano passati vent’anni dall’ultima volta che ha visto Ulisse e questi sia vestito da mendicante, lo riconosce, e gli dimostra la sua felicità. Infine, come se avesse solo atteso di vedere nuovamente il proprio padrone prima di morire, dopo il breve incontro con l’eroe si spegne.


Così essi tali parole fra loro dicevano:                                                                                   290

e un cane, sdraiato là, rizzò muso e orecchie,

Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno

lo nutrì di suo mano (ma non doveva goderne), prima che per Ilio sacra partisse; e in passato lo conducevano i giovani

a caccia di capre selvatiche, di cervi, di lepri;                                                                      295

ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone,

sul molto letame di muli e buoi, che davanti alle porte ammucchiavano, perché poi lo portassero

i servi a concimare il grande terreno d’Odisseo;

là giaceva il cane Argo, pieno di zecche.                                                                               300

E allora, come sentì vicino Odisseo,

mosse la coda, abbassò le due orecchie, ma non poté correre incontro al padrone.

E il padrone, voltandosi, si terse una lacrima,

facilmente sfuggendo a Eumeo; e subito con parole chiedeva:                                     305

“Eumeo, che meraviglia quel cane là sul letame!

Bello di corpo, ma non posso capire

se fu anche rapido a correre con questa bellezza, oppure se fu soltanto come i cani da mensa dei principi,

per splendidezza i padroni li allevano”.                                                                                310

E tu rispondendogli, Eumeo porcaio, dicevi:

“Purtroppo è il cane d’un uomo morto lontano. Se per bellezza e vigore fosse rimasto

come partendo per Troia lo lasciava Odisseo,

t’incanteresti a vederne la snellezza e la forza.                                                                  315

Non gli sfuggiva, anche nel cupo di folta boscaglia,

qualunque animale vedesse, era bravissimo all’usta.

Ora è malconcio, sfinito: il suo padrone è morto lontano dalla patria e le ancelle, infingarde, non se ne curano.

Perché i servi, quando i padroni non li governano,                                                           320

non hanno voglia di far le cose a dovere;

metà del valore d’un uomo distrugge il tonante Zeus, allorché schiavo giorno lo afferra”.

Così detto, entrò nella comoda casa,

diritto andò per la sala fra i nobili pretendenti.                                                                  325

E Argo la Moira di nera morte afferrò

appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni.


(Omero, Odissea, libro XVII, vv 290-327; trad. di R. Calzecchi Onesti)

PARAFRASI

Mentre Ulisse ed Eumeo si scambiavano queste parole, un cane, sdraiato vicino, alzò il muso e raddrizzò le orecchie. Era Argo, il cane di Odisseo il costante (colui che con perseveranza aveva inseguito il ritorno nella patria Itaca), il quale in tempi lontani lo aveva nutrito personalmente ma non aveva avuto modo di godere della sua compagnia prima di partire per la sacra Troia. In passato i giovani conducevano Argo con a caccia di capre selvatiche, cervi e lepri, ora però egli giaceva trascurato in quel luogo, poiché il suo padrone era lontano; era sdraiato sul letame abbondante di muli e buoi, che i servi ammucchiavano davanti alle porte perché poi i servi lo portassero via, per concimare i vasti terreni di Odisseo. Il cane Argo giaceva là, pieno di zecche. E non appena sentì vicino Odisseo, l’animale mosse la coda ed abbassò le orecchie, ma non poté correre incontro al suo padrone. L’eroe si voltò e si asciugò una lacrima, facendo in modo che Eumeo non lo vedesse; subito dopo gli chiese: “Eumeo, che meraviglia quel cane, sul letame! Ha un corpo splendido, ma non riesco a capire se, a parte la bellezza, esso fu anche veloce nella corsa, oppure se è solo uno di quei cani da mensa dei principi, che i padroni allevano solo per l’aspetto esteriore”. E tu, Eumeo, guardiano di maiali, gli rispondesti dicendo: Purtroppo è il cane di un uomo che è morto lontano dalla patria. Se fosse rimasto, in quanto a bellezza e forza, come lo lasciò Odisseo quando partì per Troia, rimarresti incantato a guardarlo, per la sua magrezza e agilità. Anche nel bosco più fitto, non gli sfuggiva nessun animale che vedesse ed era bravissimo nel fiutare la selvaggina. Ora è malridotto, sfinito dalla vecchiaia: il suo padrone è morto lontano e le ancelle, indolenti e sleali, non ne hanno cura perché i servi, quando i padroni non li controllano, non si impegnano per lavorare come si deve: Zeus, padrone del tuono, distrugge metà del valore di un uomo quando lo trasforma in schiavo.” Dopo aver detto così, entrò nella casa comoda e an diritto nella sala tra i Proci, i nobili pretendenti di Penelope. Allora la Moira della morte oscura afferrò Argo, che aveva appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni.

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