ODISSEA CANTO IX TRADUZIONE PINDEMONTE

ODISSEA CANTO IX TRADUZIONE PINDEMONTE


E le spezzate tavole per l’onda
Sen portò il vento. Dall’estremo danno
Con questi pochi io mi sottrassi appena”.
Nulla il barbaro a ciò: ma, dando un lancio,
La man ponea sovra i compagni, e due
Brancavane ad un tempo, e, quai cagnuoli,
Percoteali alla terra, e ne spargea
Le cervella ed il sangue. A brano a brano
Dilacerolli, e s’imbandì la cena.
Qual digiuno leon, che in monte alberga,
Carni ed interïora, ossa e midolle,
Tutto vorò, consumò tutto. E noi
A Giove ambo le man tra il pianto alzammo,
Spettacol miserabile scorgendo
Con gli occhi nostri, e disperando scampo.
Poiché la gran ventraia empiuto s’ebbe,
Pasteggiando dell’uomo, e puro latte
Tracannandovi sopra, in fra le agnelle
Tutto quant’era ei si distese, e giacque.
Io, di me ricordandomi, pensai
Fàrmigli presso, e la pungente spada
Tirar nuda dal fianco, e al petto, dove
La coràta dal fegato si cinge,
Ferirlo. Se non ch’io vidi che certa
Morte noi pure incontreremmo, e acerba:
Che non era da noi tôr dall’immenso
Vano dell’antro la sformata pietra
Che il Ciclope fortissimo v’impose.
Però, gemendo, attendevam l’aurora.
Sorta l’aurora, e tinto in roseo il cielo,
Il foco ei raccendea, mugnea le grasse
Pecore belle, acconciamente il tutto,
E i parti a questa mettea sotto e a quella.
Né appena fu delle sue cure uscito,
Che altri due mi ghermì de’ cari amici,
E carne umana desinò. Satollo,
Cacciava il gregge fuor dell’antro, tolto
Senza fatica il disonesto sasso,
Che dell’antro alla bocca indi ripose,
Qual chi a farètra il suo coverchio assesta.
Poi su pel monte si mandava il pingue
Gregge davanti, alto per via fischiando.
Ed io tutti a raccolta i miei pensieri
Chiamai, per iscoprir come di lui
Vendicarmi io potessi, e un’immortale
Gloria comprarmi col favor di Palla.
Ciò al fin mi parve il meglio. Un verde, enorme
Tronco d’oliva, che il Ciclope svelse
Di terra, onde fermar con quello i passi,
Entro la stalla a inaridir giacea.
Albero scorger credevam di nave
Larga, mercanteggiante, e l’onde brune
Con venti remi a valicare usata:
Sì lungo era e sì grosso. Io ne recisi
Quanto è sei piedi, e la recisa parte
Diedi ai compagni da polirla. Come
Polita fu, da un lato io l’affilai,
L’abbrustolai nel foco, e sotto il fimo,
Ch’ivi in gran copia s’accogliea, l’ascosi.
Quindi a sorte tirar coloro io feci,
Che alzar meco dovessero, e al Ciclope
L’adusto palo conficcar nell’occhio,
Tosto che i sensi gli togliesse il sonno.
Fortuna i quattro, ch’io bramava, appunto
Donommi, e il quinto io fui. Cadea la sera,
E dai campi tornava il fier pastore,
Che la sua greggia di lucenti lane
Tutta introdusse nel capace speco:
O di noi sospettasse, o prescrivesse
Così il Saturnio. Novamente imposto
Quel, che rimosso avea, disconcio masso,
Pecore e capre alla tremola voce
Mungea sedendo, a maraviglia il tutto,
E a questa mettea sotto e a quella i parti.
Fornita ogni opra, m’abbrancò di nuovo
Due de’ compagni, e cenò d’essi il mostro.
Allora io trassi avanti, e, in man tenendo
D’edra una coppa: “Te’ Ciclope”, io dissi:
“Poiché cibasti umana carne, vino
Bevi ora, e impara, qual su l’onde salse
Bevanda carreggiava il nostro legno.
Questa, con cui libar, recarti io volli,
Se mai, compunto di nuova pietade,
Mi rimandassi alle paterne case.
Ma il tuo furor passa ogni segno. Iniquo!
Chi più tra gl’infiniti uomini in terra
Fia che s’accosti a te? Male adoprasti”.
La coppa ei tolse, e bevve, ed un supremo
Del soave licor prese diletto,
E un’altra volta men chiedea: “Straniero,
Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa
Subito il nome tuo, perch’io ti porga
L’ospital dono che ti metta in festa.
Vino ai Ciclopi la feconda terra
Produce col favor di tempestiva
Pioggia, onde Giove le nostre uve ingrossa:
Ma questo è ambrosia e nèttare celeste”.
Un’altra volta io gli stendea la coppa.
Tre volte io la gli stesi; ed ei ne vide
Nella stoltezza sua tre volte il fondo.
Quando m’accorsi che saliti al capo
Del possente licor gli erano i fumi,
Voci blande io drizzavagli: “Il mio nome
Ciclope, vuoi? L’avrai: ma non frodarmi
Tu del promesso a me dono ospitale.
Nessuno è il nome; me la madre e il padre
Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici”.
Ed ei con fiero cor: “L’ultimo ch’io
Divorerò, sarà Nessuno. Questo
Riceverai da me dono ospitale”.
Disse, diè indietro, e rovescion cascò.
Giacea nell’antro con la gran cervice
Ripiegata su l’omero: e dal sonno,
Che tutti doma, vinto, e dalla molta
Crapula oppresso, per la gola fuori
Il negro vino e della carne i pezzi,
Con sonanti mandava orrendi rutti.
Immantinente dell’ulivo il palo
Tra la cenere io spinsi; e in questo gli altri
Rincorava, non forse alcun per tema
M’abbandonasse nel miglior dell’opra.
Come, verde quantunque, a prender fiamma
Vicin mi parve, rosseggiante il trassi
Dalle ceneri ardenti, e al mostro andai
Con intorno i compagni: un dio per fermo
D’insolito ardimento il cor ci armava.
Quelli afferrâr l’acuto palo, e in mezzo
Dell’occhio il conficcaro; ed io di sopra,
Levandomi su i piè, movealo in giro.
E come allor che tavola di nave
Il trapano appuntato investe e fora,
Che altri il regge con mano, altri tirando
Va d’ambo i lati le corregge, e attorno
L’instancabile trapano si volve:
Sì nell’ampia lucerna il trave acceso
Noi giravamo. Scaturiva il sangue,
La pupilla bruciava, ed un focoso
Vapor, che tutta la palpèbra e il ciglio
Struggeva, uscìa della pupilla, e l’ime
Crepitarne io sentìa rotte radici.
Qual se fabbro talor nell’onda fredda
Attuffò un’ascia o una stridente scure,
E temprò il ferro, e gli diè forza; tale,
L’occhio intorno al troncon cigola e frigge.
Urlo il Ciclope sì tremendo mise,
E tanto l’antro rimbombò, che noi
Qua e là ci spargemmo impauriti.
Ei fuor cavossi dall’occhiaia il trave,
E da sé lo scagliò di sangue lordo,
Furïando per doglia: indi i Ciclopi,
Che non lontani le ventose cime
Abitavan de’ monti in cave grotte,
Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi
Quinci e quindi accorrean, la voce udita
E soffermando alla spelonca il passo,
Della cagione il richiedean del duolo:
“Per quale offesa, o Polifemo, tanto
Gridàstu mai? Perché così ci turbi
La balsamica notte e i dolci sonni?
Fùrati alcun la greggià? o uccider forse
Con inganno ti vuole, o a forza aperta?”
E Polifemo dal profondo speco:
“Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno,
Non già colla virtude”. “Or se nessuno
Ti nuoce”, rispondeano, “e solo alberghi,
Da Giove è il morbo, e non v’ha scampo. Al padre
Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi”.
Dopo ciò, ritornâr su i lor vestigi:
Ed a me il cor ridea, che sol d’un nome
Tutta si fosse la mia frode ordita.
Polifemo da duoli aspri crucciato,
Sospirando altamente, e brancolando
Con le mani il pietron di loco tolse.
Poi, dove l’antro vaneggiava, assiso
Stavasi con le braccia aperte e stese,
Se alcun di noi, che tra le agnelle uscisse,
Giungesse ad aggrappar: tanta ei credeo
Semplicitade in me. Ma io gli amici
E me studiava riscattar, correndo
Per molte strade con la mente astuta:
Ché la vita ne andava, e già pendea
Su le teste il disastro. Al fine in questa,
Dopo molto girar, fraude io m’arresto.
Montoni di gran mole e pingui e belli,
Di folta carchi porporina lana,
Rinchiudea la caverna. Io tre per volta
Prendeane, e in un gli unìa tacitamente
Co’ vinchi attorti, sovra cui solea
Polifemo dormir: quel ch’era in mezzo,
Portava sotto il ventre un de’ compagni,
Cui fean riparo i due ch’ivan da lato,
E così un uomo conducean tre bruti.
Indi afferrai pel tergo un arïete
Maggior di tutti, e della greggia il fiore;
Mi rivoltai sotto il lanoso ventre,
E, le mani avolgendo entro ai gran velli,
Con fermo cor mi v’attenea sospeso.
Così, gemendo, aspettavam l’aurora.
Sorta l’aurora, e tinto in roseo il cielo,
Fuor della grotta i maschi alla pastura
Gittavansi; e le femmine non munte,
Che gravi molto si sentìan le poppe,
Rïempìan di belati i lor serragli.
Il padron, cui ferìan continue doglie,
D’ogni montone, che diritto stava,
Palpava il tergo, e non s’avvide il folle
Che dalle pance del velluto gregge
Pendean gli uomini avvinti. Ultimo uscìa
De’ suoi velli bellissimi gravato
L’arïete, e di me, cui molte cose
S’aggiravan per l’alma. Polifemo
Tai detti, brancicandolo, gli volse:
“Arïete dappoco, e perché fuori
Così da sezzo per la grotta m’esci?
Già non solevi dell’agnelle addietro
Restarti: primo, e di gran lunga, i molli
Fiori del prato a lacerar correvi
Con lunghi passi; degli argentei fiumi
Primo giungevi alle correnti; primo
Ritornavi da sera al tuo presepe:
Ed oggi ultimo sei. Sospiri forse
L’occhio del tuo signor? L’occhio che un tristo
Mortal mi svelse co’ suoi rei compagni,
Poiché doma col vin m’ebbe la mente,
Nessuno, ch’io non credo in salvo ancora.
Oh! se a parte venir de’ miei pensieri
Potessi, e, voci articolando, dirmi,
Dove dalla mia forza ei si ricovra,
Ti giuro che il cervel, dalla percossa
Testa schizzato, scorrerìa per l’antro,
Ed io qualche riposo avrei da’ mali
Che Nessuno recommi, un uom da nulla”.
Disse: e da sé lo spingea fuori al pasco.
Tosto che dietro a noi l’infame speco
Lasciato avemmo, ed il cortile ingiusto,
Tardo a sciormi io non fui dall’arïete,
E poi gli altri a slegar, che, ragunate
Molte in gran fretta piedilunghe agnelle,
Cacciavansele avanti in sino al mare.
Desïati apparimmo, e come usciti
Dalle fauci di morte, a quei che in guardia
Rimaser della nave, e che i compagni,
Che non vedeano, a lagrimar si diero.
Ma io non consentìalo, e con le ciglia
Cenno lor fea di ritenere il pianto,
E comandava lor che, messe in nave
Le molte in pria vellosplendenti agnelle,
Si fendessero i flutti. E già il naviglio
Salìan, sedean su i banchi, e percotendo
Gìan co’ remi concordi il bianco mare.
Ma come fummo un gridar d’uom lontani
Così il Ciclope io motteggiai: “Ciclope,
Color che nel tuo cavo antro, le grandi
Forze abusando, divorasti, amici
Non eran dunque d’un mortal da nulla,
E il mal te pur coglier dovea. Malvagio!
Che la carne cenar nelle tue case
Non temevi degli ospiti. Vendetta
Però Giove ne prese e gli altri numi”.
A queste voci Polifemo in rabbia
Montò più alta, e con istrana possa
Scagliò d’un monte la divelta cima,
Che davanti alla prua càddemi: al tonfo
L’acqua levossi, ed innondò la nave,
Che alla terra crudel, dai rifluenti
Flutti portata, quasi a romper venne.
Ma io, dato di piglio a un lungo palo,
Ne la staccai, pontando; ed i compagni
D’incurvarsi sul remo, e in salvo addursi,
Più de’ cenni pregai che della voce:
E quelli tutte ad inarcar le terga.
Scorso di mar due volte tanto, i detti
A Polifemo io rivolgea di nuovo,
Benché gli amici con parole blande
D’ambo i lati tenessermi: “Infelice!
Perché la fera irritar vuoi più ancora?
Così poc’anzi a saettar si mise,
Che tre dita mancò, che risospinto
Non percotesse al continente il legno.
Fa che gridare o favellar ci senta,
E volerà per l’aere un’altra rupe,
Che le nostre cervella, e in un la nave
Sfracellerà: tanto colui dardeggia”.
L’alto mio cor non si piegava. Quindi:
“Ciclope”, io dissi con lo sdegno in petto,
“Se della notte, in che or tu giaci, alcuno
Ti chiederà, gli narrerai che Ulisse,
D’Itaca abitator, figlio a Laerte,
Struggitor di cittadi, il dì ti tolse”.
Egli allora, ululando: “Ohimè!” rispose,
Da’ prischi vaticinî eccomi côlto.
Indovino era qui, prode uomo e illustre,
Tèlemo figliuol d’Eurimo, che avea
Dell’arte il pregio, ed ai Ciclopi in mezzo
Profetando invecchiava. Ei queste cose
Mi presagì: mi presagì che il caro
Lume dell’occhio spegnerìami Ulisse.
Se non ch’io sempre uom gigantesco e bello
E di forze invincibili dotato,
Rimirar m’aspettava; ed ecco in vece
La pupilla smorzarmi un piccoletto
Greco ed imbelle, che col vin mi vinse.
Ma qua, su via vientene, Ulisse, ch’io
Ti porga l’ospital dono, e Nettuno
Di fortunare il tuo ritorno prieghi.
Io di lui nacqui, ed ei sen vanta, e solo
Voglial, mi sanerà; non altri, io credo,
Tra i mortali nel mondo, o in ciel tra i numi”.
“Oh! così potess’io”, ratto ripresi,
“Te spogliar della vita, e negli oscuri
Precipitar regni di Pluto, come
Né da Nettuno ti verrà salute”.
Ed ei, le palme alla stellata volta
Levando, il supplicava: “O chiomazzurro,
Che la terra circondi, odi un mio voto.
Se tuo pur son, se padre mio ti chiami,
Di tanto mi contenta: in patria Ulisse,
D’Itaca abitator, figlio a Laerte
Struggitor di cittadi, unqua non rieda.
E dove il natìo suolo, e le paterne
Case il destin non gli negasse, almeno
Vi giunga tardi e a stento, e in nave altrui,
Perduti in pria tutti i compagni, e nuove
Nell’avìta magion trovi sciagure”.
Fatte le preci e da Nettuno accolte,
Sollevò un masso di più vasta mole,
E, rotandol nell’aria, e una più grande
Forza immensa imprimendovi, lanciollo.
Cadde dopo la poppa, e del timone
La punta rasentò: levossi al tonfo
L’onda, e il legno coprì, che all’isoletta,
Spinto dal mar, subitamente giunse.
Quivi eran l’altre navi in su l’arena,
E i compagni, che assisi ad esse intorno
Ci attendean sempre con agli occhi il pianto.
Noi tosto in secco la veloce nave
Tirammo, e fuor n’uscimmo, e, del Ciclope
Trattone il gregge, il dividemmo in guisa,
Che parte ugual n’ebbe ciascuno. È vero
Che voller che a me sol, partite l’agne,
Il superbo arïete anco toccasse.
Io di mia mano al Saturnìde, al cinto
D’oscure nubi Correttor del Mondo,
L’uccisi, e n’arsi le fiorite cosce.
Ma non curava i sacrifizi Giove,
Che anzi tra sé volgea, com’io le navi
Tutte, e tutti i compagni al fin perdessi.
L’intero dì sino al calar del Sole
Sedevam banchettando: il Sole ascoso,
Ed apparse le tenebre, le membra
Sul marin lido a riposar gettammo.
Ma come del mattin la figlia, l’Alba
Ditirosata in Orïente sorse,
I compagni esortai, comandai loro
Di rimbarcarsi, e liberar le funi.
E quei si rimbarcavano, e su i banchi
Sedean l’un dopo l’altro, e percotendo
Gìan co’ remi concordi il bianco mare.
Così noi lieti per lo scampo nostro
E per l’altrui sventura in un dolenti,
Del mar di nuovo solcavam le spume.