NIETZSCHE L’ETERNO RITORNO

NIETZSCHE L’ETERNO RITORNO


-Nietzsche presenta la teoria dell’ Eterno Ritorno dell’Uguale, ovvero della ripetizione eterna di tutte le vicende del mondo, come il pensiero più profondo e decisivo della sua filosofia: «Io Zarathustra, l’avvocato della vita, l’avvocato del dolore, l’avvocato del circolo — io chiamo te, il più abissale dei miei pensieri». In una pagina di Ecce homo egli racconta di essere stato «folgorato» da questa idea durante una passeggiata a Sils Maria, in Alta Engadina, un giorno dell’agosto 1881, allorquando, «6000 piedi al di là dell’uomo e del tempo», stava per-correndo i viottoli che costeggiano il lago di Silvaplana e che si perdono nei boschi. La prima formulazione di tale pensiero la troviamo nell’aforisma 341 de La gaia scienza:

«Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione — e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”? Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: ‘Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina”? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: “Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?” graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?».

Sin da questo passo, il pensiero dell’eterno ritorno tende, sia pure in forme implicite, a palesare il suo carattere selettivo, fungente da spartiacque fra l’uomo e il superuomo. Infatti, la prima reazione di fronte alla prospettiva dell’eterno ripetersi del tutto — il terrore e il senso di «peso» — è propria dell’uomo, mentre la gioia entusiastica per «l’eterna sanzione» dell’essere si manifesta come tipica del superuomo e della sua accettazione totale della vita.

La formulazione più eloquente e suggestiva della teoria dell’Eterno Ritorno la troviamo in Così parlò Zarathustra, nel discorso su «La visione e l’enigma», in cui Nietzsche parla della «visione del più solitario tra gli uomini» (= il filosofo autentico). Zarathustra narra di una salita su un impervio sentiero di montagna (= simbolo del faticoso innalzarsi del pensiero), durante la quale egli, con il nano che lo segue, si trova di fronte ad una porta carraia, su cui è scritta la parola «attimo» (= il presente) e dinanzi alla quale si uniscono due sentieri che «nessuno ha mai percorso sino alla fine», in quanto si perdono nell’eternità: il primo porta all’indietro (= il passato) e l’altro porta in avanti (= il futuro). Zarathustra chiede al nano se le due vie sono destinate a contraddirsi in eterno oppure no. Alla risposta un po’ affrettata del nano, che allude alla circolarità del tempo («Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo»), Zarathustra, dopo aver invitato il suo compagno a «non prendere le cose troppo alla leggera», espone un abbozzo di teoria dell’eterno ritorno: «non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta?», «non dobbiamo ritornare in eterno?».

A questo punto abbiamo una trasformazione di scena, una sorta di visione nella visione, entro la quale, sullo sfondo di un desolato paesaggio lunare e di orridi macigni, Zarathustra vede:

«un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e — lì si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava — invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: “Mordi! Mordi! Staccagli il capo!…”. Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente —: e balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo — un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva. Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!».

Parecchi significati specifici di questo racconto rimangono enigmatici , tuttavia, la scena centrale del pastore che morde la testa al serpente trasformandosi in creatura luminosa e «ridente» allude in modo abbastanza chiaro al fatto che l’uomo (= il pastore) può trasformarsi in creatura superiore e ridente (= il superuomo) solo a patto di vincere la ripugnanza soffocante del pensiero dell’eterno ritorno (= il serpente, emblema del circolo), mediante una decisione coraggiosa nei suoi confronti (= il morso alla testa del serpente). Dopo più di duemila anni, Nietzsche torna dunque a recuperare una concezione pre-cristiana del mondo, presente nella Grecia presocratica e nelle più antiche civiltà indiane, la quale presuppone, alla lettera, una visione ciclica del tempo, in opposizione a quella rettilinea di tipo cristiano-moderno: «Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre l’anno dell’essere. Tutto crolla, tutto viene di nuovo connesso; eternamente l’essere si costruisce la medesima abitazione. Tutto si diparte, tutto torna a salutarsi; eternamente fedele a se stesso rimane l’anello dell’essere. In ogni attimo comincia l’essere; attorno ad ogni “qui” ruota la sfera “là”. Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell’eternità» (Così parlò Zarathustra, VI, 1, p. 265).

Questa dottrina, che a tutta prima sembrerebbe la semplice ripresa di un antico «mito», costituisce in realtà il punto più difficile e criticamente controverso dell’intera filosofia nietzschiana. Ma la funzione di questa teoria, all’interno dell’economia complessiva del pensiero di Nietzsche, risulta sufficientemente chiara. Infatti, porsi nella prospettiva dell’eterno ritorno, per Nietzsche, significa escludere talune cose e difenderne altre. Innanzitutto, collocarsi nell’ottica dell’eterno ritorno vuol dire rifiutare una concezione lineare del tempo come catena di momenti, in cui ogni momento ha senso solo in funzione di quelli successivi.

Evidentemente, una dottrina della temporalità di questo tipo ha come presupposto la mancanza di felicità esistenziale, poiché nessun momento vissuto, per essa, ha davvero in se medesimo una pienezza autosufficiente di significato. Viceversa, credere nell’eterno ritorno significa: 1) ritenere che il senso dell’essere non stia fuori dell’essere, in un oltre irraggiungibile e frustrante, ma nell’essere stesso, ossia in ciò che Nietzsche chiama il divenire «innocente» e «dionisiaco» delle cose; 2) disporsi a vivere la vita, e ogni attimo di essa, come coincidenza di essere e di senso, realizzando in tal modo «la felicità del circolo».

Ovviamente, il tipo di uomo capace di «decidere» l’eterno ritorno, e quindi di vivere come se tutto dovesse ritornare, non può essere l’uomo che conosciamo, cioè l’individuo risentito dell’Occidente, il quale soffre la scissione fra senso ed esistenza e concepisce il tempo come una tensione angosciosa verso un compimento sempre di là da venire, ma solo un oltre-uomo in grado di vivere la vita come un gioco creativo e avente in se medesimo il proprio senso appagante. Proprio per questo motivo, l’eterno ritorno incarna al massimo grado l’accettazione superomistica dell’essere, ponendosi, per dirla con Nietzsche, come «la suprema formula dell’affermazione che possa mai essere raggiunta».