MICHELANGELO BIOGRAFIA BREVE

MICHELANGELO BIOGRAFIA BREVE


«Michelagniolo», come si firmava, «Michelagnolo», come fu annotato dal padre nelle sue Ricordanze, nacque, secondo di cinque  fratelli,  nel castello di Caprese nel Casentino da Lodovico Buonarroti Simoni, podestà di Caprese e  Chiusi.  Da  parecchi  scrittori,  fra  i  quali Ascanio Condivi scolaro e amico dell’artista, che scrisse una sua biografia, Vita di Michelagnolo Buonarroti (1553),  è  stato  asserito che la famiglia discendesse dai conti di Canossa, ma lo studio dei documenti antichi non conferma la notizia. Quando  il  padre  tornò  a Firenze, Michelangelo fu messo a balia dalla moglie di uno scalpellino di Settignano, tanto che Giorgio Vasari nelle sue Vite (1568) ricorda che scherzando con lui un giorno gli disse: «Giorgio, s’i’ho nulla  di  buono  nell’ingegno,  egli  è  venuto  dal nascere nella sottilità dell’aria del vostro paese d’Arezzo, così come anche tirai dal latte della mia balia gli scarpegli e ‘l mazzuolo con che io fo le figure». Dato il suo amore per il disegno fu messo dal padre nella  bottega  di Domenico e Davide Ghirlandaio per impararne l’arte. Lasciato il Ghirlandaio in seguito  a  contrasti,  molto  probabilmente  dovuti  a invidie e gelosie del maestro nei confronti dei rapidi progressi del discepolo, nel 1490 andò nel Giardino dei Medici sulla piazza  di  San Marco a studiare scultura sotto la guida di Bertoldo di Giovanni, allievo di Donatello.  

Esordio fiorentino di Michelangelo

Il Giardino di San Marco era stato ornato di statue antiche da Lorenzo de’ Medici perché voleva fondarvi una scuola di pittori e scultori;  e in questo ambiente Michelangelo scolpì una copia in marmo della testa di un fauno, «di sua fantasia supplendo tutto quello  che  nell’antico mancava», scrive il Condivi. Da questo momento Lorenzo il Magnifico si interessò di lui: invitato a palazzo Michelangelo fu ammesso ad ammirare le gioie, corniole, medaglie e oggetti pregevoli del principe, tanto da acquisire ampia competenza in gemme e monete antiche ed essere quindi in grado anche di acquistarle  per  conto  di Piero de’ Medici, figlio di Lorenzo. Fu accolto nella cerchia degli eruditi neoplatonici: Marsilio Ficino, Angelo Poliziano, che lo portarono allo studio dell’antico e alla fede nella bellezza umana. I due mondi apparentemente contrastanti della cristianità e del paganesimo si fusero nella bellezza visibile e in quella ideale. Scolpì il bassorilievo della Centauromachia (1490-92, casa Buonarroti, Firenze), il cui soggetto mitologico gli fu  suggerito  da  Poliziano; mentre con la Madonna della scala (1490-92, casa Buonarroti, Firenze), si riferì in modo evidente a Donatello nell’uso dello «stiacciato».

La lezione dell’antico

Lo studio delle «anticaglie» gli aveva fatto acquisire una conoscenza tale dell’arte classica che  quando  Michelangelo  ventenne  scolpì  a Firenze la statua di un Cupido dormiente (1496), questa fu venduta per antica a Roma. Ma quando l’acquirente, il cardinale Raffaele Riario, dubitando della sua antichità, non volle acquistarla  e  volle  invece conoscerne l’autore, Michelangelo si recò per la prima volta a Roma dove si diffuse la fama della sua abilità. Gli fu commissionata subito un’opera, il Bacco  (1496-97  Bargello),  per  il  quale  è  difficile ricercare un modello fra gli antichi; mentre il Condivi lo descriveva corrispondente in ogni sua parte all’intenzione degli scrittori classici. La Pietà (1498-99) commissionatagli dal cardinale francese Jean Bilhéres de Lagraulas per una  cappella  della  basilica  di  San Pietro a Roma è l’unica opera firmata da Michelangelo, che si qualifica con  l’aggettivo  «florentinus».  Vasari  giustifica  questa firma raccontando che la statua, molto ammirata da alcuni visitatori lombardi, era stata poi loro indicata come opera di un altro  artista; per cui l’autore, di notte, vi incise il suo nome. Ma fu con la scultura del David (1501-04,  Galleria  dell’Accademia,  Firenze)  che Michelangelo eccelse al di sopra di tutte le statue moderne e antiche sia greche sia latine. Firenze stava vivendo in quegli anni il periodo repubblicano dopo la morte di Lorenzo il Magnifico,  la  cacciata  dei Medici e la breve ma incisiva predicazione catastrofica del Savonarola – di cui Michelangelo era assiduo lettore -, retta dal gonfaloniere Pier Soderini che cercava di richiamare in patria gli artisti  che  se n’erano allontanati. Michelangelo, rientrato nel 1501, ricevette la commissione della statua che avrebbe dovuto ricavare da  un  pezzo  di marmo già sbozzato. In quattro anni egli lavorò a questa figura alta m 4, 10 che rappresenta David prima dello scontro con il gigante Golia, nel momento della massima concentrazione e tensione.  Il  giovane  che nella Bibbia aveva difeso il suo popolo e lo aveva governato con giustizia, diventava simbolo di chi reggeva la città e si proponeva lo stesso intento. La perfezione del nudo era stata raggiunta da Michelangelo attraverso lo studio assiduo dell’anatomia, non solo indiretto, ma anche sezionando cadaveri  di  uomini  e  animali,  come riferisce Vasari. Condivi sottolinea inoltre la ricerca del bello che fu una sua costante fino al 1530: « […] egli non solamente ha amata la bellezza umana, ma universalmente ogni cosa  bella…  il  bello  della  natura scegliendo, come l’api raccolgono il mel da’ fiori, servendosene poi nelle loro opere». Negli stessi anni Leonardo, rientrato  a  Firenze,  fu  incaricato  di affrescare il salone di Palazzo Vecchio con la Battaglia di Anghiari (1503) che gli studiosi si affannano invano fino ai nostri  giorni  di ricercare. L’anno successivo a Michelangelo fu commissionata la Battaglia di Càscina di cui eseguì solo il  cartone,  andato  perduto, riempiendolo di nudi virili che diventarono oggetto di studio per artisti italiani e stranieri. Nel 1504 giunse a Firenze Raffaello e le loro ricerche posero le basi del Rinascimento maturo. In questo  clima di attività intensa e di reciproca comunicazione furono scolpiti (1502-04) il Tondo Taddei (Royal Academy, Londra)  e  il  Tondo  Pitti (Bargello, Firenze) che raffigurano nel marmo la Madonna con il Bambino e san Giovannino. Soprattutto nel primo pare quasi di assistere alla nascita dell’opera d’arte che per Michelangelo consiste nella liberazione dell’idea contenuta nel blocco di marmo da parte dello scultore che la rivela. Infatti Michelangelo lavorava direttamente sul blocco marmoreo senza modellare preventivamente dei bozzetti in creta, come fecero altri scultori, il Canova per esempio. In una lettera a Varchi egli spiega il suo metodo di lavoro: «Io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare: quella che si fa per via di porre, è simile  alla  pittura».  L’arte  è  un  dono divino, così si esprime nelle sue Rime , che accompagnano e riflettono il suo travaglio di uomo e di artista dal 1503 al 1560 in uno stile che è stato definito «scalpellato» e «sfaccettato».

Michelangelo a Roma

Giulio II della Rovere (1503-13) a Roma era rivolto a ricostituire  la grandezza della Chiesa. Riprendendo il programma di papa Sisto IV con sicurezza e audacia egli rinnovò  e  ampliò  la  città  chiamandovi  i migliori artisti del momento. Ideò progetti grandiosi come quello della basilica di San Pietro e la sua tomba. A realizzarla fu chiamato nel 1505 Michelangelo, che si recò nella cave di Carrara per scegliere i marmi adatti. Fu in questi luoghi che all’artista  venne  l’idea  di scolpire un colosso in uno di quei monti; e certo l’avrebbe fatto, scrive Condivi, tanto che da vecchio ancora si rammaricava che  quella «pazzia venutami per l’età non fosse stata realizzata». Il primo progetto (1505) del sepolcro, che superava «ogni antica sepoltura», concepito come una grandiosa scultura sepolcrale,  non  fu compiuto. Mentre attendeva i marmi per la sua realizzazione Michelangelo e Giovan Cristoforo Romano  in  qualità  di  «primi  scultori  di  Roma» andarono a prendere visione della statua greca di Laocoonte appena ritrovata: si presentava un’ulteriore occasione per studiare e ricordare la statuaria classica, accresciuta dalle nuove scoperte archeologiche che furono rivelatrici di quella bellezza  cui  aspirava sempre e si manifestava più chiaramente nella figura umana: una figura irruente di forza giovanile. Il progetto accantonato del monumento sepolcrale riempì la fantasia di Michelangelo anche quando accettò  di nuovo di lavorare per Giulio II dopo ampi contrasti che l’avevano indotto ad abbandonare per breve tempo Roma.  Non solo questi erano stati i motivi della sua improvvisa partenza; in una lettera a Giuliano di Sangallo Michelangelo afferma di  temere  di essere assassinato: «Basta che la mi fé pensare, s’i’ stavo a Roma, che fussi fatta prima la sepoltura mia che quella del Papa». Pare  che Bramante cercasse in ogni modo di ostacolare il lavoro di Michelangelo e di farlo allontanare dalla città. Comunque sia, Giulio II incaricò l’artista di affrescare la Cappella Sistina, con una tecnica  certo  a lui desueta ma non sconosciuta, come si è creduto fino agli ultimi restauri che  termineranno  nel  1990.  Nonostante  l’artista  in  una lettera al padre nel 1509 scrivesse: «E questa è la difficultà del lavoro, e anchora el non esser  la  mia  professione»,  la  padronanza michelangiolesca del colore, emersa a seguito della pulitura degli affreschi, non poté certo essere stata improvvisata in pochi mesi,  ma può esser fatta risalire al periodo di tirocinio nella bottega del Ghirlandaio. Era fatale che Michelangelo dovesse lavorare sempre solo: congedò in modo brutale i pittori fiorentini che erano stati  chiamati per aiutarlo in quanto esperti dell’affresco, dopo aver tolto l’impalcatura fissa, predisposta dal Bramante, che  però  non  rendeva possibile lo svolgimento delle cerimonie liturgiche, e progettato al suo posto una struttura pensile con gradini laterali in modo  tale  da non lasciare buchi a lavoro ultimato. Tra il 1508 e il 1510 Michelangelo eseguì la decorazione della prima parte della  volta  che si interruppe per l’assenza di Giulio II e la mancanza di soldi; fu ripresa tra il 1511 e il 1512. In quattro anni di duro lavoro  in  una posizione che gli provocò anche seri disturbi alla vista, dipinse la volta con le Storie della Genesi, gli Ignudi, i Profeti , le Sibille , le Miracolose salvazioni d’Israele e i Re biblici da  bambini  nelle vele e nelle lunette. Il papa, impaziente di vedere il lavoro, un giorno minacciò di buttarlo giù dall’impalcatura e quando gli affreschi furono scoperti tutti ammutolirono per la sorpresa e l’ammirazione. Vasari scrisse: «Questa opera è stata ed è veramente la lucerna dell’arte  nostra,  che  ha  fatto  tanto  giovamento  e  lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo». Tre mesi e mezzo dopo l’inaugurazione della  Cappella  Sistina  Giulio  II morì e Michelangelo riprese il progetto della tomba con gli eredi del papa, destinata ora alla chiesa di San Pietro in Vincoli, realizzandola in forma ridotta, con sette statue soltanto. Per essa scolpì due figure di schiavi i Prigioni (1513-36, Louvre, Parigi) e il Mosè (1515-16, San Pietro in Vincoli, Roma) che fu collocato al centro della tomba nella versione finale. Su questa scultura si sono soffermati studiosi e scrittori. Anche Sigmund Freud, affascinato dallo sguardo del profeta che sta indugiando prima  di  esprimere  con violenza il suo disappunto nei confronti del popolo ebreo che ha rinnegato Dio mentre egli stava sul monte Sinai per ricevere le tavole della legge, in un suo saggio, Il  Mosè  di  Michelangelo  (1914),  ha ricercato l’origine del messaggio oscuro e ambiguo eppure così penetrante di quest’opera. Dopo un’attenta analisi della statua conclude dicendo che Michelangelo ha creato un altro Mosè che va al di là del Mosè storico, e tutta la prestanza fisica è il mezzo per esprimere qualcosa di nuovo: la  volontà  di  «soggiogare  la  propria passione a vantaggio e in nome di una causa alla quale ci si è votati».

Michelangelo e i Medici

Nel 1515 il nuovo papa Leone X (1513-21)  bandì  un  concorso  per  la facciata della chiesa di San Lorenzo, la chiesa dei Medici a Firenze, dove nel frattempo avevano  ripreso  il  potere  (1512).  Fra  i  vari progetti prevalse quello di Michelangelo al quale fu commissionato il lavoro nel 1516. Dapprima restio ad accettare perché legato  alla  realizzazione  della tomba di Giulio II, in seguito sempre più infervorato e trascinato da questo progetto, ne realizzò solo il modello  ligneo  che  insieme  ai disegni documentano la volontà dell’artista di realizzare una robusta facciata architettonica integrata da numerose statue. Volle sovrintendere egli stesso all’estrazione dei blocchi di marmo ma anche questa volta sorsero difficoltà perché i Medici volevano utilizzare le cave di Pietrasanta invece di quelle di Carrara. Michelangelo si schierò dalla parte dei Carraresi e si vide sospettato di essersi fatto comprare. Obbedì quindi al papa e fu perseguitato dai Carraresi. La fatica e le preoccupazioni lo prostrarono ed  egli  si  ammalò  a  Serravezza.  Il contratto fu scisso nel 1520 con grande tristezza di Michelangelo che aveva già scritto in una lettera. «Perché io muoio di passione per non poter fare quello che io vorrei, per la mia mala sorte… Io muoio  di dolore, e parmi essere diventato uno ciurmatore contro a mia voglia». La delusione, lo sconforto di tre anni perduti di cui egli accusa il papa, ebbero riflesso nelle opere successive. Leone X e  il  cardinale Giulio de’ Medici, salito poi al soglio pontificio con il nome di Clemente VII, gli affidarono la realizzazione di una Cappella funeraria Medicea (1520-34) che avrebbe dovuto accogliere le tombe di Lorenzo il Magnifico, del fratello Giuliano e dei discendenti, Lorenzo duca di Urbino e Giuliano duca di Nemours. Posta simmetricamente  alla Sagrestia Vecchia nella chiesa di San Lorenzo rispetta l’impianto architettonico della costruzione brunelleschiana:  a  pianta  quadrata coperta dalla cupola, con elementi in pietra serena su fondo bianco, accentua l’aspetto monumentale che ben si confaceva alla casa  medicea e al suo potere che era giunto fino a Roma. Mentre era intento a questo lavoro Michelangelo era angustiato dalla preoccupazione di  non aver portato a termine la tomba di Giulio II e di essere debitore agli eredi, ai quali avrebbe dovuto restituire quanto aveva già ricevuto. Il papa continuava a dimostrargli la sua simpatia, come emerge nella Vita di Michelangelo di Roman Rolland (1905), basata soprattutto sull’epistolario dell’artista. Il complesso  della  Cappella  Medicea  ebbe quindi una realizzazione travagliata, interrotta anche da eventi storici drammatici per la politica dell’Italia. I  sarcofagi  dei  due duchi, Lorenzo e Giuliano, sono adorni di figure allegoriche: la Notte e il Giorno, l’ Aurora e il Crepuscolo; mentre nelle nicchie sovrastanti sono poste le loro statue, figure ideali che esprimono  la virtù del signore. Incompiuto è rimasto il sepolcro di Lorenzo e del fratello Giuliano su cui è stata posta la statua della Madonna con il Bambino, che riprende per l’ultima volta il tema iconografico della maternità divina e umana di Maria. Oscuro rimane il significato delle parole che accompagnano i disegni per le tombe: «La fama tiene gli epitaffi a giacere; non va né inanzi né indietro, perché son morti, e el loro operare è fermo». Ma ne emerge una meditazione sulla morte che forse  può  essere  superata solo dall’arte, che fissa per sempre la fama. E allora il Giorno e la Notte possono pure affermare in un’altra breve prosa che con la  morte di Giuliano sulla terra non hanno più alcuna luce: la forza della scultura di Michelangelo con  tutta  la  sua  tensione  spirituale  ed emotiva rimarrà però a testimoniare il suo breve passaggio sulla terra. Nel 1523 gli fu affidato anche  il  progetto  di  una  libreria capace di contenere la raccolta dei testi posseduti dai Medici. Gli assegnarono il terreno del convento di  San  Lorenzo,  adiacente  alla chiesa, e su di esso Michelangelo realizzò la Biblioteca laurenziana, ideata come una grande sala con le pareti ritmate da lesene in  pietra serena che incorniciano un doppio ordine di finestre. Il vestibolo d’accesso presenta una scala che si  allontana  dalla  consuete  forme lineari per anticipare in qualche modo il capriccio e l’anomalo.

Il sacco di Roma

Anthony Blunt nel suo saggio su Michelangelo (1940), riscoperto attraverso la sua produzione poetica, distingue nella vita dell’artista un primo periodo, espresso dalla volta della Cappella Sistina e dalla Pietà, caratterizzato  da  una  continua  ricerca  del bello, influenzato dalla filosofia neoplatonica e conclusosi verso il 1530. Disordini religiosi, economici e fallimenti politici segnano  la crisi che culmina nel 1527 con il saccheggio di Roma. I conflitti, le aspirazioni a un rinnovamento anche all’interno della Chiesa  accusata di preoccuparsi troppo del potere temporale e di dedicarsi troppo poco al messaggio evangelico, travagliarono le coscienze degli intellettuali, tanto più degli artisti, sensibili alle speranze e alle delusioni. Michelangelo quindi non stupisce se nel 1527,  alla  caduta dei Medici e alla instaurazione della Repubblica, parteggiò per essa mettendosi due anni dopo, nel 1529, al suo servizio  come  membro  del Collegio dei Nove della Milizia e come esperto di fortificazioni. Implicato in tresche di potere e in denunce, Michelangelo si credette perduto e fuggì a Venezia da dove ritornò perdonato per riprendere  il suo posto. Quando nel 1530 papa Clemente e gli Spagnoli assediarono Firenze egli fortificò  la  collina  di  san  Miniato,  inventò  nuovi ordigni e, come narra il suo biografo Francisco de Hollanda (Dialoghi romani con Michelangelo, 1548), salvò il campanile fasciandolo con balle di lana e materassi. Per il tradimento  di  Malatesta  Baglioni, previsto da Michelangelo che aveva inutilmente confidato i suoi timori alla Signoria, Firenze capitolò e dalla metà d’agosto fino all’ottobre del 1530 Michelangelo si tenne nascosto nel piccolo vano sotto l’abside della Cappella Medicea dopo essere sfuggito ai sicari mandatigli da Baccio Valori per conto dei Medici che ritornati di nuovo in città perseguitarono i repubblicani che avevano gioito  della loro cacciata. Michelangelo trascorse due mesi nel bugigattolo in cui l’artista tracciò sulle pareti numerosi disegni a carbone che realizzerà in seguito. Aperti al pubblico nel 1979, essi erano stati sepolti quando Giorgio Vasari trenta e più anni dopo,  concludendo  il complesso della Cappella, murò la botola d’accesso. Ma ormai i fatti storici e quelli personali avevano compromesso il senso  di  sicurezza dell’artista: «Oihmé, oihmé» , scrive in una poesia, «ch’i’ son tradito da’ giorni mie fugaci… si trova come me ‘n un giorno vecchio». Egli  che  tanto aveva amato la figura umana, la bellezza vivente, il fascino che emana dall’uomo, come annota Thomas Mann in L’eros di Michelangelo (1950), si accorse che la bellezza fisica è un inganno e solo il  vero  amore, quello per la bellezza spirituale, poteva soddisfarlo perché non si affievolisce con il tempo e innalza la mente  alla  contemplazione  di Dio. Nel giugno del 1531 si ammalò e qualche mese dopo un breve papale proibì a Michelangelo, sotto pena di scomunica, di lavorare ad altro che alla tomba di Giulio II e alle tombe medicee. Più  volte  il  papa prese le sue difese con gli eredi di Giulio II che nel frattempo stipularono un quarto  contratto.  Neppure  le  tombe  medicee  ebbero migliore fortuna, poiché, morendo Clemente VII, Michelangelo si trovò fuori Firenze dove non poté più ritornare per timore di essere ucciso. Dal 23 settembre 1534 Roma fu la  sede  definitiva  dell’artista  fino alla morte; d’altra parte nulla lo tratteneva più nella sua terra natale: durante la peste del 1528 aveva  perso  il  fratello  cui  era molto affezionato e il padre nel giugno del 1534.

«L’amor di quel ch’i’ parlo in alto aspira»

La sensazione che il mondo gli stesse crollando attorno fu superata dall’amore per Tommaso dei Cavalieri, gentiluomo romano, di incomparabile bellezza fisica ma anche di costumi gentili e di eccellente ingegno, che gli fu devoto fino alla fine e dopo  la  morte fu esecutore delle ultime volontà. Inoltre nel 1535 conobbe Vittoria Colonna: i suoi sonetti,  composti  nella  solitudine  e  nel  ricordo dell’amore per il marito morto, l’avevano fatta apprezzare in tutta Italia e i grandi scrittori del tempo erano in relazione con  lei.  La religione e le idee di una riforma cattolica l’avevano entusiasmata tanto da diventare l’anima di un gruppo di persone che intendevano  la religione pura da ogni potere mondano. Quando ella morì Michelangelo, che le aveva già dedicato altre  rime,  compose  due  sonetti:  l’uno, ispirato all’idea platonica, paragona Vittoria al martello dello scultore divino che suscita i pensieri più elevati; l’altro, esalta la vittoria dell’amore sulla morte. In questi anni, sotto papa Paolo  III Farnese (1534-49), Michelangelo eseguì le ultime grandi opere: il Giudizio Universale nella Cappella Sistina, gli affreschi della Cappella Paolina e infine la tomba di Giulio II. Per comprendere l’arte di quest’ultimo  periodo  occorre  sottolineare  una  forma  di misticismo che allontanava Michelangelo dal contatto diretto con la natura e gli faceva credere, come riferisce Francisco de Hollanda, che il pittore non dovesse essere soltanto esperto di  soggetti  religiosi ma «deve tener buona vita e, se possibile, essere santo». Questo aspetto lo avvicina al pensiero di Savonarola sull’arte religiosa. Dall’aprile 1536  al  novembre  1541  fu  occupato  nell’affresco  del Giudizio Universale, che esprime appunto la sua nuova visione dell’arte e della vita. La bellezza fisica come fine a se  stessa  non interessava più Michelangelo; essa diventava invece un mezzo per significare uno stato spirituale  superiore.  Durante  questi  lavori, racconta Vasari, il papa lo andava spesso a visitare accompagnato dal suo maestro di cerimonie Biagio da Cesena, il quale, richiesto  di  un suo parere, affermò che tutte quelle nudità sarebbero state più adatte a decorare una sala da bagno o un albergo. Michelangelo allora dipinse il ritratto di Biagio nel personaggio di Minosse all’inferno. E quando il cerimoniere  si  lamentò,  Paolo  III scherzando rispose di non poter far nulla nell’inferno dove non c’è alcuna redenzione.  Anche  l’Aretino  trovò  indecenti  i  suoi  nudi, vendicandosi di alcune risposte negative avute dal maestro alle sue offerte di collaborazione. Egli non disse nulla neanche quando la  sua opera fu giudicata «porcheria luterana» e quando Paolo IV volle distruggerla o Daniele da Volterra rivestì il Cristo ignudo,  per  cui gli fu dato il soprannome di «braghettone». Mentre affrescava la Cappella Sistina con i temi  della  Conversione  di  san  Paolo  e  il Martirio di san Pietro, che lo occuparono dal 1542 al 1550, fu inaugurato nel gennaio 1545 il monumento di Giulio II in San Pietro in Vincoli, cosa che lo liberò finalmente da  un  lungo  incubo.  Ma  gli affreschi si interruppero più di una volta perché l’artista fu colpito dal «mal della pietra». Il linguaggio di Michelangelo evidenziava sempre più una semplificazione formale che seppure già perseguita  fin dall’inizio della sua attività, ora appariva nella sua tragica essenzialità: tolta ogni rappresentazione  in  profondità,  le  figure prendevano la consistenza di enormi blocchi e una fissità allucinante nel paesaggio nudo. La religiosità dell’artista  si  fece  sempre  più solitaria per il rifiuto di ogni condizionamento esterno che lo avrebbe condotto a esprimere la sua idea di  fede  cristiana  in  modo personale e mistico attraverso la Pietà Rondanini (Castello Sforzesco, Milano). Il 1º gennaio del 1547 era stato nominato da Paolo III prefetto e architetto di San  Pietro  con  il  conferimento  di  pieni poteri nella costruzione del nuovo edificio. L’attività architettonica fu l’impegno predominante degli ultimi anni; per San Pietro riprese lo schema a pianta centrale progettato dal Bramante ampliandolo e concludendolo con la grande cupola che  avrebbe dovuto coprire con la sua ampia ombra tutti i popoli cristiani. Alla morte dell’artista era  terminato  il  tamburo. Attese  inoltre  alla ristrutturazione della piazza del Campidoglio per la quale aveva studiato la collocazione della statua di Marco Aurelio, che  nel  1537 fu sistemata per ordine del papa in disaccordo con lo stesso Michelangelo, che tuttavia partì da essa per l’articolazione dell’area capitolina, centro ideale della città storica, come rileva G.C. Argan, mentre San Pietro era il centro ideale della città religiosa. Successivamente studiò il progetto per la ricostruzione  della  chiesa di San Giovanni dei Fiorentini (1559-60), che tuttavia non venne mai realizzato. Tra il 1545 e il 1555 lavorò  a  una  Pietà  di  Palestrina  (Galleria dell’Accademia, Firenze). Ma quando l’ebbe terminata, la ruppe e l’avrebbe completamente distrutta se un  suo  servitore  non  l’avesse supplicato di donargliela. Un amico di Michelangelo, Tiberio Calcagni, l’acquistò e chiese il permesso di ripararla. La morte lo colse il venerdì sera del 18 febbraio 1564.