I MICENEI APPUNTI SCUOLA

I MICENEI APPUNTI SCUOLA


-Il Peloponneso costituisce la parte meridionale della penisola greca. Il suo nome letteralmente significa «isola di Pelope», il mitico nipote di Zeus, progenitore della famiglia di Agamennone e Menelao, i capi della famosa spedizione contro Troia. In realtà si tratta non di un’isola, ma di una penisola, unita al continente dal sottile istmo di Corinto, ora tagliato dall’omonimo canale artificiale, che congiunge il mar Ionio all’Egeo attraverso i golfi di Patrasso e Corinto e di Egina. La penisola comprende sei regioni. Elide, Acaia, Arcadia, Argolide, Messenia e Laconia. Ha la caratteristica forma di una foglia quadrilobata, fra le cui espansioni peninsulari si insinuano i golfi di Nauplia, di Laconia e di Messenia. La parte centrale è occupata dall’altopiano d’Arcadia, coronato a nord dai monti Cillene ed Erimanto; a est e a sud si dipartono le catene che formano l’ossatura delle quattro penisole, tra cui emerge il monte Taigeto. Fra queste catene si aprono pianure alluvionali, solcate dal Peneo, dall’Alfeo, dal Pamiso e dall’Eurota. Vi si coltivavano prodotti tipici del Mediterraneo: cereali, viti, ulivi, agrumi, tabacco e cotone.

Ma la conformazione montuosa del territorio e i suoli poco fertili spinsero ben presto gli abitanti a cercare coste da colonizzare, alla ricerca di terre fertili e di scambi commerciali via mare.


3.1 La Grecia delle origini

Popoli in migrazione

La Grecia, come le sue isole, era abitata già in epoca neolitica e nel VII millennio a.C. vi si diffusero l’allevamento e l’agricoltura e la produzione di ceramica. Nel IV millennio, col passaggio all’età del bronzo, popolazioni mediterranee, quei pelasgi o cari di cui abbiamo parlato a proposito di Creta, influenzate dalle culture dell’Asia Occidentale, svilupparono la civiltà elladica, migliorarono le tecniche agricole, organizzarono la vita nei villaggi e svilupparono le tecniche della navigazione. I reperti archeologici rivelano che alla fine del III millennio molti villaggi furono distrutti o abbandonati e fu introdotto un nuovo tipo di ceramica. Gli studiosi ne hanno dedotto che altre popolazioni si siano infiltrate in Grecia. Dovettero giungere infatti, in ondate successive, vari popoli di stirpe greca che parlavano dialetti simili: dapprima gli ioni, poi gli eoli e infine gli achei. Erano popoli di lingua greca indoeuropea, probabilmente conoscevano già l’agricoltura, la lavorazione del bronzo, l’uso del cavallo e del carro da guerra, ma non avevano familiarità col mare e non erano molto evoluti. Pare provenissero da nord, dai Balcani, oppure, secondo ipotesi più recenti, dalla penisola anatolica. Le popolazioni mediterranee furono probabilmente sottomesse e in parte assimilate dai nuovi immigrati. Dalla lingua dei pelasgi le nuove popolazioni appresero molti termini, soprattutto di piante ed elementi naturali, che si mantennero anche nella lingua greca classica.

La prima civiltà greca

A costituire la prima civiltà greca furono i micenei, o achei. Erano così chiamati da Omero e citati in testi hittiti come Ahhijawa e in testi egizi, che parlavano anche della città di Mu-kan, “Micene”, come Eqwesh o Akawasha. La loro migrazione spinse gli ioni verso l’Attica e le Cicladi e gli eoli verso la Beozia e la Tessaglia. Essi giunsero invece fino nel Peloponneso e si stanziarono soprattutto nella parte settentrionale della penisola, nell’Argolide.

Intorno al 1600 a.C., fondarono alcuni centri urbani che costituirono regni indipendenti l’uno dall’altro e diedero vita a una civiltà via via sempre più potente. Venuti a contatto con la più evoluta civiltà minoica, i micenei infatti costruirono palazzi, svilupparono l’artigianato e intrapresero commerci per mare.

I regni più importanti furono proprio quelli insediati nell’Argolide: Micene, Argo, Tirinto, ma la tradizione cita anche altri centri urbani: Lacedemone in Laconia, Pilo in Messenia, Atene in Attica, Orcomeno e Tebe in Beozia, Iolco in Tessaglia. Proprio da Micene, dove, secondo il mito, regnava Agamennone, e dove per la prima volta ne furono rinvenuti i resti, la civiltà degli achei prese il nome di micenea.

I micenei, questi sconosciuti

Della civiltà micenea, come di quella minoica, ben poco si sapeva fino a quando non furono fatte le prime scoperte archeologiche. La scrittura, che pure veniva regolarmente usata nei palazzi, la lineare B di origine minoica, era scomparsa già nel XII secolo a.C. e non erano rimaste neppure tracce materiali della civiltà, perché sui resti delle città micenee erano state edificate nuove città e non ne rimaneva che il ricordo tramandato dai miti e soprattutto dai due poemi omerici. L’Iliade e l’Odissea sembravano frutto di invenzione poetica, a tutti fuorché a un originale commerciante tedesco di fine Ottocento, Heinrich Schliemann, che spese gran parte delle sue fortune per dimostrare al mondo che la sua convinzione della veridicità dei poemi era esatta. Ci riuscì e scoprì prima Troia, poi Micene. Da allora gli scavi hanno rivelato molto della civiltà micenea, ma negli ultimi anni hanno messo anche in discussione le teorie di Schliemann.

Che si trattasse di una civiltà bellicosa lo confermano anche le sepolture. Nelle tombe “a pozzo”, come quella in cui Schliemann trovò la maschera d’oro che attribuì ad Agamennone, e nelle imponenti tombe a tholos, rotonde e con soffitto a cupola, come il cosiddetto “tesoro di Atreo”, edificate nei pressi delle varie città, ma soprattutto a Micene, sono state rinvenute armi di bronzo e oggetti d’oro, che da un lato rivelano appunto una cultura guerriera e dall’altro testimoniano la ricchezza raggiunta dalla civiltà micenea. Le maschere d’oro che coprivano il volto di personaggi importanti e ne riproducevano le fattezze, come quella che Schliemann attribuì ad Agamennone, ricordano usanze egizie.


3.3 La società micenea

Un’aristocrazia guerriera

Quanto pacifica si mostra nei suoi resti la civiltà minoica, tanto bellicosa appare quella micenea. Il palazzo miceneo sorgeva all’interno di una rocca fortificata, quasi una fortezza circondata da mura ciclopiche ed edificata in posizione elevata, per essere più difendibile, per lo più a qualche distanza dal mare e all’ombra di un alto monte. È evidente che i signori micenei temevano attacchi dall’esterno, e forse anche da parte di altri centri micenei. È probabile infatti che i vari signori fossero in costante conflitto tra loro per accaparrarsi le poche terre fertili disponibili sul suolo greco.

La società micenea appare, nelle tavolette di argilla rinvenute nel corso degli scavi archeologici, come un’aristocrazia di guerrieri, assai simile a quella raccontata da Omero nell’Iliade: il lawós, costituiva l’esercito che combatteva su carri da guerra (dotati di ruote a raggi e trainati da cavalli), al comando del lawaghétas, il “conduttore dei guerrieri”, e affiancava nel governo il re, il wánax, che era anche il capo religioso. Il popolo di uomini liberi, il dámos, viveva in villaggi, i dámoi, coltivava i campi e costituiva la fanteria di soldati semplici nell’esercito.

I damoi erano amministrati da un governatore affiancato dai basiléis, gli esponenti più autorevoli delle varie casate nobili. Gli schiavi, di proprietà di singoli aristocratici, erano forse prigionieri di guerra e discendenti delle popolazioni preesistenti all’arrivo dagli achei e da loro assoggettate. Alcuni però negano l’esistenza di schiavi nella società micenea.

Da fabbro a re al basilico

Il termine basiléis (basiléus al singolare) ha un’origine curiosa. Il termine miceneo indicava originariamente i fabbri che lavoravano nei villaggi alle dipendenze del palazzo del re e fungevano anche da capi villaggio. Quando crollò la potenza micenea, i fabbri erano gli unici a potersi procurare le armi in ferro che permettevano loro di fare guerre e razzie e di acquisire quel prestigio che permise loro di assumere la funzione di re. Il termine ha dato origine a diverse parole. Il termine basilica, “palazzo del re”, è passato a indicare a Roma un edificio pubblico e poi, con l’avvento del cristianesimo, un edificio pubblico adibito al culto. Il basilico era invece un “rimedio regale”, un farmaco preparato per il re e oggi indica una pianta aromatica.

Il palazzo al centro della vita

I palazzi micenei, che si svilupparono ordinatamente intorno alla sala del trono, il mégaron, non ebbero la libertà architettonica di quelli cretesi, ma tesero sempre alla monumentalità imponente, senza raggiungere però le dimensioni dei palazzi minoici; i quartieri residenziali, destinati alla famiglia del sovrano e a un numero esiguo di funzionari, rimasero infatti limitati. Il palazzo inoltre non sorgeva all’interno della città come quello minoico, ma era isolato su un’altura e presidiava dall’alto le case della città, che sorgevano alle pendici della collina, e le campagne circostanti, dove i contadini abitavano in villaggi.

I palazzi micenei, come quelli cretesi, erano la sede del potere, ma anche dell’amministrazione e dell’organizzazione della vita economica. A gestire ogni aspetto dell’economia era un’efficiente burocrazia che registrava su tavolette d’argilla, con quella forma di scrittura che abbiamo definito lineare B, la riscossione delle tasse, le attività di tessitori e fabbri (i famosi bronzisti che creavano veri capolavori col bronzo: armi, spesso riccamente ornate, vasi, utensili), l’organizzazione dei lavori dei campi e dei lavori pubblici, come la costruzione di strade (una rete stradale collegava tutti i centri dell’Argolide), dei traffici commerciali e di ogni altra attività. Le tavolette erano conservate in archivi all’interno dei palazzi e alcune di esse ci sono pervenute perché, a causa degli incendi dei palazzi, si sono cotte e si sono potute così conservare integre (l’argilla non cotta è invece facilmente deperibile).

La distribuzione delle materie prime e l’organizzazione del lavoro era affidata all’autorità locale dei basiléis.

I funzionari ricevevano come ricompensa dei loro servizi un appezzamento di terreno. Erano gli unici, a parte il wanax, a possedere la terra. Gli altri potevano avere terra solo in concessione in cambio di servizi e prodotti forniti al palazzo.

Dalla pastorizia alla talassocrazia

Originariamente popolo di pastori, i micenei continuarono ad allevare principalmente capre e pecore. Una volta occupate alcune delle pianure più fertili della penisola, nell’Argolide, in Messenia e a nord in Tessaglia e Beozia, coltivarono i prodotti tipici dell’agricoltura mediterranea: grano, ulivo e vite.

Influenzati dai contatti con altri popoli, soprattutto i cretesi che sbarcavano in Grecia a vendere i propri prodotti, i micenei incrementarono e migliorarono la propria produzione artigianale, soprattutto quella metallurgica in cui eccellevano, e si inserirono nei flussi commerciali mediterranei seguendo due direzioni: via mare (forse proprio dai cretesi avevano appreso l’arte della navigazione) e via terra, verso i paesi dell’Europa continentale. I commercianti micenei prelevavano stagno dalle coste atlantiche e rame dall’isola di Cipro che esportavano ovunque e usavano essi stessi per ricavarne il bronzo; ambra dal mar Baltico e presso le foci del Po, ferro dall’isola d’Elba, che esportavano nei paesi del Mediterraneo orientale; prelevavano dall’Africa avorio e oro, che trasportavano sulle coste siro-palestinesi. Oltre a questa attività di intermediazione, i mercanti esportavano anche i prodotti dell’artigianato miceneo: vasellame, stoffe, oggetti d’oro e avorio lavorati con grande raffinatezza, integrando spesso i commerci con atti di pirateria. Per favorire i commerci, i micenei fondarono colonie ed empori commerciali sulle coste di tutto il bacino del Mediterraneo e forse narrarono le loro avventure per mare in saghe che poi confluirono nel poema omerico dell’Odissea.

Un’anticipazione della religione greca

La scoperta delle tavolette di lineare B hanno rivelato, tra l’altro, anche alcuni aspetti della religione micenea e dimostrato che alcune divinità del pantheon greco classico erano già venerate in epoca micenea: Zeus, Poseidone, Atena, Ermes, e persino Dioniso, che la tradizione voleva importato in Grecia solo in epoca tarda. Ma era diffuso anche il culto della Potnia, la “signora”, la Grande Madre di origine minoica, che poi i greci identificheranno con Demetra.

Non si erigevano templi: i riti venivano celebrati in sacelli, piccoli recinti all’aperto con un altare al centro, in cui si sacrificavano agli dei animali e forse si celebravano, in qualche rara occasione, anche omicidi rituali come a Creta.

Gli addetti ai riti ricevevano in usufrutto dal wanax terreni da cui potevano ricavare i prodotti necessari per le cerimonie sacre: cereali, vino, olio, latte ecc.


3.4 Una storia di espansione

Verso oriente

Nel corso del XVI secolo a.C. il regno di Micene estese il suo controllo sull’intero Peloponneso e contese il dominio del Mediterraneo alla stessa Creta. Dagli hittiti era riconosciuto come un regno potente di cui si temevano le incursioni.

Nel 1450 a.C. i micenei conquistarono le Cicladi e occuparono poi anche Creta, stabilendo a Cnosso un regno miceneo impregnato di cultura minoica, mentre nel resto dell’isola sopravvivevano ancora popolazioni minoiche.

Passarono quindi a fondare basi commerciali a Rodi e sulle coste dell’Asia Minore: Mileto, Cnido, Alicarnasso. In Anatolia vennero in contatto con gli hittiti, che nei loro testi fanno appunto riferimento agli insediamenti achei sulla costa. Fondarono basi commerciali anche in Egitto e Siria. L’espansione dei micenei favorì l’unificazione culturale di tutto il Mediterraneo orientale.

Verso occidente

A partire dalla metà del XIV secolo a.C. i micenei avviarono anche l’espansione dei loro traffici commerciali verso occidente, dove raggiunsero la Sicilia, le Eolie, la Sardegna e la Toscana e si spinsero, a quanto pare, fino alle coste spagnole, ricche di metalli. Dovunque la loro presenza fu di stimolo allo sviluppo culturale delle genti locali.

Intorno al 1300 a.C. l’espansione micenea si diresse verso il mar Nero, alla ricerca dell’oro del Caucaso, del grano della Colchide e di altre materie prime.

Intanto nel nord della penisola balcanica si andavano stanziando altre popolazioni di stirpe greca, soprattutto ioni ed eoli.

La guerra più famosa

Secondo la tradizione, nel 1250 o nel 1194 a.C., i micenei si scontrarono contro la grande potenza che controllava il passaggio verso il mar Nero attraverso l’Ellesponto, la città di Troia. Fu una guerra lunga e difficile che si concluse con la distruzione della città, ma provocò anche l’indebolimento dei sovrani micenei che avevano condotto la spedizione. Tuttavia oggi la realtà della guerra di Troia è messa in discussione dagli studiosi.

Una fine nel mistero

La fine della civiltà micenea è ancora avvolta nel mistero. Sappiamo solo che intorno al 1200 a.C.

i palazzi delle diverse città decaddero, si perse l’uso della scrittura, i traffici micenei si ridussero e si espansero quelli fenici; in Grecia arrivarono nuove ondate migratorie e fu introdotto l’uso del ferro che mise fine all’età del bronzo. Una serie di indizi forniti dalle ricerche archeologiche hanno dato luogo a diverse ipotesi.

L’espansione verso il mar Nero e la guerra contro Troia avrebbero potuto indebolire i regni micenei che non sarebbero più stati in grado di fronteggiare nuovi problemi.

La conflittualità tra i vari regni avrebbe potuto determinare l’indebolimento reciproco e il crollo della civiltà.

A Pilo sono state rinvenute tavolette d’argilla in cui si davano ordini per potenziare le difese lungo le coste: evidentemente si temevano attacchi dal mare. Forse anche i micenei temevano dunque le scorrerie di quei popoli del mare che creavano, nello stesso periodo, gravissimi problemi alla civiltà egizia e a quella hittita. Proprio i loro attacchi potrebbero aver determinato anche il crollo della società micenea come di quella hittita.

Il crollo dei traffici internazionali a causa delle incursioni dei “popoli del mare” sulle coste orientali e la crisi dell’agricoltura, determinata dall’eccessivo sfruttamento del suolo e dall’incremento demografico, ma forse anche mutamenti climatici con conseguenti alluvioni, siccità e carestie, avrebbero indebolito l’economia e immiserito la popolazione a tal punto da provocarne una reazione violenta. In molte zone gli archeologici hanno, infatti, scoperto che era stata distrutta solo la rocca, mentre i villaggi non presentavano segni di incendio o devastazione. Questa scoperta ha fatto ipotizzare che a distruggere i palazzi siano state rivolte degli strati più miseri della popolazione contro il potere dei signori.

Le tavolette di Pilo si sono conservate in seguito agli incendi dei palazzi, che potrebbero essere la conseguenza di un attacco nemico o di quello dei sudditi in rivolta.

Gli scavi archeologici hanno individuato, in vari punti della penisola e anche sull’istmo di Corinto, opere di fortificazioni, che potrebbero far supporre il timore di invasioni anche da nord. Di sicuro, proprio all’inizio del XII secolo a.C., nel Peloponneso arrivò forse proprio da nord l’ultimo dei popoli ellenici, già stabilito in Tessaglia, quello dei dori, che si infiltrò nel Peloponneso e si sostituì ai micenei. La tradizione ricorda il loro arrivo come il ritorno degli Eraclidi. Alcuni profughi micenei, per sfuggire ai dori, invece si sarebbero uniti ai popoli del mare che facevano razzie nel Mediterraneo orientale.

TRA STORIA E LEGGENDA

I micenei nel ricordo dei greci

Sugli achei i greci elaborarono miti in cui la realtà storica si confondeva con l’immaginario. L’espansione micenea verso il mar Nero alla ricerca dell’oro fu adombrata nel mito della spedizione degli Argonauti, un gruppo di cinquanta eroi che, al comando di Giasone, con la nave Argo, “la veloce”, andò alla ricerca del vello d’oro, la pelle di un ariete sacrificato al dio Marte, custodita da un drago nella Colchide, sul mar Nero. Compiuta la difficile impresa, mai tentata prima, di attraversare il Bosforo, Giasone conquistò il vello aiutato dalla maga Medea. La pelle d’oro potrebbe essere la trasposizione mitica dell’usanza dei cercatori d’oro di filtrare l’acqua ricca di detriti del prezioso metallo con una pelle di pecora che si impregnava delle pagliuzze d’oro.

La spedizione si collocherebbe, secondo il mito, qualche decennio prima della famosa guerra di Troia. La città sorgeva in Frigia, in posizione strategica per il controllo dello stretto dei Dardanelli e delle rotte verso il mar Nero. Era una città molto potente che entrò certamente in contatto con gli achei perché sono stati rinvenuti reperti di vasellame miceneo in varie fasi della sua esistenza. Troia, infatti, costruita una prima volta forse già nel 3600 a.C., nella pianura alluvionale formata dai fiumi Scamandro e Simoenta, fu distrutta e ricostruita almeno nove volte, come dimostrano gli strati sovrapposti che gli scavi hanno portato alla luce. C’è chi pensa che la città fosse stata fondata o ricostruita dagli stessi micenei. È perciò molto difficile stabilire se davvero tra micenei e troiani ci sia stata una guerra, anzi oggi alcuni studiosi tendono a escluderla del tutto o a limitarla a una semplice scorreria achea.

La guerra di Troia di cui parla la tradizione si può sintetizzare come la spedizione organizzata da una coalizione di re micenei, guidati dal wanax di Micene, e finalizzata ad eliminare una pericolosa rivale e un ostacolo all’espansione commerciale micenea sulle rotte del mar Nero. La guerra tra le due grandi potenze sarebbe durata a lungo e avrebbe indebolito gli stessi micenei. Poco dopo la distruzione di Troia, infatti, la civiltà micenea avrebbe incontrato notevoli difficoltà, che il mito rappresentò attraverso le peripezie, a volte tragiche, degli eroi durante il loro ritorno in patria (cantato nei vari nóstoi, canti dei “ritorni”): Agamennone fu ucciso dalla moglie, Odisseo dovette affrontare un viaggio pieno di pericoli e una guerra per riconquistare il trono, il suo amico Diomede fu costretto a vagare a lungo, finché giunse fino in Italia. Qualche studioso ha ravvisato nei nóstoi il ritorno in patria degli achei stanziati sulle coste dell’Asia Minore in seguito alle incursioni dei popoli del mare. Il loro arrivo in Grecia avrebbe provocato spostamenti di vari popoli stanziati in Grecia, tra cui i dori.

La fine della potenza micenea fu segnata, secondo il mito, dal ritorno degli Eraclidi, i discendenti di Eracle. L’eroe infatti aveva assoggettato le città achee del Peloponneso, ma dopo la sua morte i suoi figli, cacciati dal re di Micene, si erano rifugiati in Tessaglia, dove vivevano i dori, che, dopo un centinaio di anni, proprio gli Eraclidi guidarono alla riconquista del Peloponneso.


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