MATTIA PASCAL RIASSUNTO DAL CAPITOLO 8 AL 9

MATTIA PASCAL RIASSUNTO DAL CAPITOLO 8 AL 9

Mattia Pascal diventa Adriano Meis


La nuova serie di capitoli, incaricati di verificare la mutazione, dall’ottavo al sedicesimo, inizia difatti col nome assunto da Mattia dopo la sua creduta scomparsa: Adriano Meis. Il cognome è quello, parziale, di un filosofo positivista, udito da Mattia sul treno che lo conduce a Torino, oltre il paese dove ha letto della sua morte (ligure di sicuro, ma non identificabile, se non pensando che si tratta della contrazione di Albenga, donde questo “Alenga”). Quanto al nome, Adriano, è pronunciato dall’interlocutore di chi aveva ricordato il De Meis, ed è quello dell’imperatore romano. Quindi, mutando identità, Mattia ne assume una doppiamente fìttizia, la quale congiunge bislaccamente l’antico e il moderno, il positivismo e la classicità, rendendo sin da ora sommamente precaria la nuova persona. Quanto al volto, affidato tostamente dal “barbiere-sartore” di Alenga allo “specchio”, sottolinea ancora di più, scomparsa la peluria, i segni particolari del naso e dell’occhio: “- Ah, quest’occhio – pensai -, cosi in estasi da un lato, rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia! Io non potrò far altro che nasconderlo alla meglio dietro un pajo d’occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a rendere più amabile l’aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco. Finanziera e cappellaccio a larghe tese”. La seconda persona di Mattia nasce con fatica, e solo a patto d’occultare la prima: la quale, tuttavia, resiste e conferma che tutto quanto sta accadendo è sotto il segno dell’aleatorietà. Si è tanto parlato di “doppio” per questo libro, ma si è per lo più evitato di far presente che si tratta di un doppio artificiale, e nel nome e nel volto: un doppio destinato, lo si capisce presto, a scomparire. Finché vive, e Pirandello si accinge ora a farlo vivere, ha una sola possibilità di autonomia: quella, dichiarata, di apparire come un “filosofo”, secondo un’ambizione che non è soltanto sua, ma anche di altri protagonisti di novelle del tempo. Ma di quale filosofia sarà esponente Adriano Meis? Non certo di quella del suo parziale omonimo, bensì “d’una discreta filosofia sorridente per passare in mezzo a questa povera umanità, […] un po’ ridicola e meschina”. Poco, a dire il vero; e difatti Pirandello non vi ritorna su, preferendo insistere sulle nuove emozioni della “leggerezza” e del “sorriso”, che la nuova identità provoca, ma anche, per altro verso, sulla difficoltà per il neo-protagonista di costruirsi un passato (la parodia del racconto genealogico si fa completa nel capitolo ottavo) e sulle continue ricadute nella memoria di quel che è stato. Anche la possibilità d’immergersi in nuovi spazi si riduce notevolmente, nel resoconto striminzito d’una serie di viaggi che hanno tutta la parvenza di tentativi di fuga da una situazione, per altro, obbligata. Il massimo di filosofia, cui può arrivare Adriano Meis, da solo, si racchiude nella formula, espressa nel capitolo nono (“Un po’ di nebbia”), con riferimento a chi è momentaneamente solo: “Tu invece, a volerla dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della vita, Adriano Meis”. Un conoscente occasionale, tale Tito Lenzi, incontrato in una trattoria di Milano, filosofeggia per lui con maggiore profondità. Partendo di qui, Adriano arriva sul finire del capitolo a meditare più profondamente, sino al punto di domandarsi: “ero io dunque sul punto di diventare sul serio un filosofo?”, ovvero sul perché mai, “nella sua libertà sconfinata, gli riusciva difficile cominciare a vivere in qualche modo”. E non è un caso che sia Milano, la città moderna, la città del “tram elettrico”, a farlo sentire “sperduto tra quel rimescolio di gente” e a fargli ripetere le parole di un’altra retorica, quella leopardiana sul “progresso” che “non ha nulla a che fare con la felicità.