MATTIA PASCAL RIASSUNTO DAL CAPITOLO 17 AL 18

MATTIA PASCAL RIASSUNTO DAL CAPITOLO 17 AL 18

Il finto suicidio di Adriano Meis: Mattia Pascal ritorna in biblioteca


Bisogna tenere in mano questo filo dell’«ombra», ed evitare di perdersi nel seguire un altro intrico che rende impossibile la congiunzione di Adriano e Adriana (Papiano ha rubato i soldi di Adriano, sperando così di restituire al Paleari la somma della dote della moglie morta: solo così Papiano rinuncia ad Adriana, che altrimenti vorrebbe per sé, evitando in questo modo di restituire la dote). Quando Adriano, nel capitolo XV, arriva a quel che il titolo (“Io, e l’ombra mia”) suggerisce paradossalmente, nega alla proiezione di Mattia, divenuta la sua «ombra», qualsiasi possibilità di esistere: «l’ombra d’un morto: ecco la mia vita…». Lo sdoppiamento conclude qui il suo ciclo fittizio di sopravvivenza: nell’impossibilità certa, per Adriano, di vivere portando quel nome, quel volto; nella voluta riduzione di Mattia a una larva. La comunanza fra di loro è nel non vivere: «Chi era più ombra di noi due? io o lei? Due ombre!».

A partire di qui, recuperata l’ombra una sua vitalità ma intervenuta una nuova ragione di non poter dire il proprio nome (Adriano offende il pittore che corteggia la giovane aristocratica, è sfidato a duello e non può procurarsi i padrini che garantiscano per lui), non rimane altro da fare, in effetti, che il suicidio di quella, fra le ombre, che ha minore vitalità. Adriano si reca sul Lungotevere dei Mellini, e ricompie tutti i gesti preparatori dei suicidi della novella Strigi: non si butta in acqua ovviamente, ma lascia il “cappello” sul “parapetto” del ponte prescelto, illuminato da un “fanale”, con l’aggiunta (ora, nel romanzo) di un “foglietto”, che riporta il nome e l’indirizzo, e del “bastone”. Ovviamente tratta di una messinscena, e la ragione avanzata per simulazione denuncia chiaramente, se ancora ce ne fosse bisogno, il carattere del tutto fittizio e provvisorio dello sdoppiamento di Mattia in Adriano: «Io non dovevo uccider me, un morto, io dovevo uccidere quella folle, assurda finzione che m’aveva torturato, straziato due anni, quell’Adriano Meis, condannato a essere un vile, un bugiardo, un miserabile; quell’Adriano Meis dovevo uccidere, che essendo, com’era, un nome falso, avrebbe dovuto aver pure di stoppa il cervello, di cartapesta il cuore, di gomma le vene, nelle quali un po’ d’acqua tinta avrebbe dovuto scorrere, invece di sangue: allora sì! Via, dunque, giù, giù, tristo fantoccio odioso! Annegato, là, come Mattia Pascal! Una volta per uno! Quell’ombra di vita, sorta da una menzogna macabra, si sarebbe chiusa degnamente, così, con una menzogna macabra!» (cap. XVI, “II ritratto di Minerva”). Parrebbe quasi che Mattia, nel momento in cui riprende a essere , si avvii a una sorta di abbandono della vita, se non proprio alla morte. a questo momento, Mattia, come propone il cap. VII, potrebbe davvero dar corso alle credenze del Paleari, e ritornare da morto a vivo. “Reincarnazione “, però, è il titolo del capitolo, che ancora una volta prende le distanze dalle credenze dello spiritismo. Mattia riprende, nel ritornare se stesso, alcuni attributi sacrificati ad Adriano (fondamentali il taglio dei capelli e la ricrescita della barba, mentre l’occhio, ovviamente, rimane il testimone dell’intervallo vissuto sotto altro nome); addirittura rivede alcuni luoghi ch’erano di entrambi, come Pisa, quasi a volerci far credere alla possibilità di un terzo personaggio. In effetti di una pura e semplice ripresa degli atteggiamenti, delle vesti, dei pensieri non si può parlare; la finta morte è stata vissuta come vera dai parenti di Mattia (il fratello, la moglie, la suocera), e in particolare ha indotto Romilda a sposare Pomino, da cui ha avuto una bimba.

“Il fu Mattia Pascal”, s’intitola non per nulla l’ultimo capitolo, il diciottesimo; e il motivo sta nel fatto che il protagonista, rientrato in casa, dopo avere prima visitato il fratello, ed essere stato riconosciuto senza difficoltà, ma con paura e fastidio quasi dagli altri familiari, decide di non rivendicare la moglie e di rimanere, agli occhi suoi e degli altri, il defunto che è stato per lungo tempo. Rifiuta di vivere, insomma, Mattia; e non è un caso allora che avesse già da tempo seppellito le sue figlioline (per il bastardo, nato da Oliva, non ha cure paterne, segno evidente che non può più dare ora l’impressione della vita, come se fosse sterile di natura). Ritorna alla biblioteca da cui è partito, e frequenta il cimitero, recando fiori non alla tomba, dov’è sepolto il presunto Mattia Pascal, ma alla propria lapide, stesa, come il “coccodrillo” che dava notizia del suo decesso, nel linguaggio pomposetto e falso delle circostanze. «I due luoghi del suo soggiorno terrestre» commenta il Gardair «sono ormai la biblioteca», da cui proviene il manoscritto dateci da leggere, «e il cimitero, dove va a sognare sulla sua tomba». Più che di un sogno si tratta, tuttavia, del tentativo di attingere di li, dalla tomba falsa, il fondamento dell’ultima sua trasformazione, la più paradossale e irriverente: «Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e considerando la mia condizione – mi domanda: – Ma voi, insomma, si può sapere chi siete? Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo: – Eh, caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal». Nel contrasto fra i due tempi indicativi del verbo “essere” («sono il fu…») sta l’impossibilità del libro, la sua pretesa di offrirci un personaggio vivo e morto a un tempo. Qualcuno, prendendo alla lettera la notizia che Mattia adesso «dorme nello stesso letto in cui dormì la povera mamma sua», prima o poi farà presente, non so con quanta delicatezza, che è possibile pensare a una vita che vuole disperatamente ritornare alle condizioni prenatali, almeno; io credo, più semplicemente, a una conclusione negativa sulla possibilità di uscire da quel che si è per gli altri.