L’ITALIA dal 1876 al 1914

L’ITALIA dal 1876 al 1914

L’epoca compresa tra il 1876 e il 1914 fu per il regno d’Italia (governato fino al 1876 dalla Destra storica) un periodo di profonde trasformazioni di natura politica, sociale ed economica, connesse, per vari aspetti, con i mutamenti in atto nello stesso arco di tempo sul piano europeo e internazionale. Dal punto di vista politico questa lunga fase della storia italiana può essere suddivisa in quattro momenti:

  1. i primi governi della Sinistra storica, guidati, con brevi interruzioni, da Agostino Depretis (dal 1876 al 1887)
  2. l’epoca crispina, a cui diede l’impronta la figura di Francesco Crispi (dal 1887 al 1896)
  3. la prima crisi dello Stato liberale (la cosiddetta “crisi di fine secolo” dal 1896 al 1900
  4. l’età giolittiana, dominata dalla figura di Giovanni Giolitti (dal 1901 al 1914)
  1. Nel marzo 1876 il governo della destra storica fu battuto su un progetto di legge relativo alla statalizzazione delle ferrovie. Il nuovo governo presieduto da Agostino Depretis segnava il definitivo allontanamento della Destra dal potere. La Sinistra storica era una corrente del movimento liberale che si differenziava dalla Destra storica in quanto si proponeva di attuare riforme per modernizzare la società italiana, per migliorare le condizioni di vita del popolo e per avvicinare i ceti popolari allo Stato (ricordiamo che nei primi anni del Regno d’Italia la politica dei governi, tesa soprattutto al consolidamento del nuovo Stato, aveva “sacrificato” i ceti popolari e li aveva resi ostili verso le istituzioni del Regno).

 

I governi della Destra storica attuarono quindi riforme, che però furono criticate perché troppo prudenti e quindi poco efficaci. Le principali riforme attuate in questa fase furono:

 

  • la legge Coppino che rendeva obbligatoria l’istruzione elementare per 3 anni (questa legge ebbe però un’efficacia limitata nella lotta contro l’analfabetismo9 a causa della povertà della popolazione rurale: infatti molte famiglie non potevano permettersi di rinunciare al lavoro dei figli per mandarli a scuola, inoltre tale legge assegnava ai Comuni l’onere di istituire nuove scuole elementari, ma spesso i Comuni più poveri non avevano i mezzi finanziari per farlo),

 

  • l’abolizione della tassa sul macinato (compensata però da un aumento di altre imposte e dal rincaro dei prezzi determinato dal protezionismo doganale),

 

  • l’estensione del diritto di voto (era riconosciuto il diritto di voto a chi aveva un certo reddito (suffragio censitario) e a chi sapeva leggere e scrivere, ma in tal modo furono favoriti gli abitanti delle città e del nord, gli elettori passarono dal 2% al 7% della popolazione)

 

Con l’avvento al potere della Sinistra storica si allargavano quindi in qualche misura le basi dello Stato. Tuttavia, dopo l’approvazione della legge Coppino sull’istruzione e della riforma elettorale, gran parte del programma riformatore della Sinistra storica fu accantonato. Con il fenomeno del “trasformismo” (che consisteva nel costituire solide maggioranze parlamentari a sostegno dei governi attraverso accordi, compromessi e concessioni di favori ai singoli deputati) il sistema politico italiano perse il suo carattere bipartitico, finendo con l’essere dominato da un grande centro che emarginava le ali estreme (l’opposizione fu sostenuta solo dal gruppo, numericamente esiguo, dei deputati della cosiddetta Estrema: radicali e socialisti).

 

In politica estera si ebbe un mutamento di rotta con l’adesione, nel 1882, alla Triplice Alleanza (Germania, Austria e Italia): questo mutamento di rotta fu indotto dalla conquista francese della Tunisia, dove l’Italia aveva rilevanti interessi e numerosi coloni, che “guastò” i tradizionali rapporti di amicizia tra Francia e Italia.

 

Alla “perdita” della Tunisia l’Italia reagì avviando la colonizzazione dell’Africa orientale (Assab e Massaua sulla riva del Mar Rosso), ma il tentativo di estendere i possedimenti coloniali con la penetrazione in Etiopia fu interrotto dalla sconfitta di Dogali (1887).

 

In questi anni la crisi economica europea indusse anche il governo italiano ad adottare il protezionismo doganale, che favorì soprattutto l’industria pesante del nord e le grandi aziende agrarie cerealicole. Furono invece danneggiate le colture specializzate (agrumi, ortaggi, viti, olivi) che producevano per l’esportazione. In generale le tariffe protezionistiche favorirono l’avvio dell’industrializzazione nel “triangolo industriale”, ma non risolsero i problemi del mondo agricolo e accentuarono il divario tra l’Italia settentrionale e il Meridione.

 

Il protezionismo doganale, applicato anche alle merci francesi, provocò una “guerra doganale” (1888) con la Francia, che reagì bloccando le importazioni di prodotti italiani come p.e. il vino e lo zolfo: le esportazioni italiane verso la Francia si ridussero drasticamente e l’economia italiana ne fu gravemente colpita (alla base della “guerra doganale”

In Italia nel 1861 gli analfabeti erano circa il 75% della popolazione.

c’era anche l’irritazione italiana per lo “schiaffo” della conquista della Tunisia e l’irritazione francese per l’adesione dell’Italia alla Triplice alleanza)

Francesco Crispi, presidente del consiglio dei ministri dopo la morte di Depretis, ex-repubblicano e democratico, fu il fautore di uno “Stato forte” e autoritario, sul modello del Reich tedesco (Crispi era un grande ammiratore del Bismark); i governi Crispi (intervallati da brevi ministeri presieduti da Di Rudinì e da Giolitti) si caratterizzarono per alcune importanti riforme di orientamento democratico, ma anche per un accentuato nazionalismo e colonialismo. D’altra parte, se Crispi cercò di far evolvere il sistema politico italiano verso una maggiore democrazia, non esitò a reprimere duramente quei movimenti popolari che assumevano posizioni eversive e che contestavano l’autorità dello Stato.

 

Le principali riforme attuate furono la legge comunale e provinciale che rendeva elettive le amministrazioni locali (elezione dei sindaci delle città), e quindi introduceva le prime forme di decentramento, il Codice penale Zanardelli, che aboliva la pena di morte e legittimava lo sciopero10, la legge sull’assistenza pubblica con cui lo Stato per la prima volta assumeva il compito della difesa della salute e dell’assistenza sociale (nel quadro di questa riforma vennero statalizzati istituti assistenziali e ospedalieri della chiesa cattolica, e in tal modo fu confermato l’indirizzo politico anticlericale dei governi del Regno d’Italia).

 

Nel periodo crispino si moltiplicarono i segni di una vasta crisi sociale, alimentata anche dalla depressione economica e dalla crisi finanziaria (che provocò il fallimento di importanti banche e portò alla luce diffusi fenomeni di corruzione).

 

In questo quadro si verificò una considerevole ascesa del movimento socialista, giunto alla fondazione del Partito dei Lavoratori (nel 1892) , successivamente denominato Partito Socialista italiano, nel quale confluirono tendenze riformiste e tendenze rivoluzionarie.

 

Anche l’organizzazione del movimento cattolico si sviluppò considerevolmente, soprattutto in campo sociale (leghe, sindacati, associazioni, cooperative ecc.) e nelle realtà locali, mentre restava in vigore per i cattolici il divieto pontificio (Non expedit) di partecipare alle elezioni e alla vita politica.

 

Le difficoltà economiche e le tensioni sociali giunsero all’apice nei moti della Lunigiana (agitazioni dei cavatori11 di marmo) e dei Fasci siciliani (leghe di contadini e minatori siciliani rovinati dalla crisi economica e dal protezionismo). Crispi reagì ai moti adottando pesanti misure repressive (legge marziale in Sicilia, scioglimento del Partito socialista, limitazioni della libertà di stampa e di associazione), ma cercò anche di modificare i rapporti sociali accogliendo le istanze dei lavoratori; pertanto propose una legge che avrebbe ridotto i latifondi in Sicilia, a vantaggio dei contadini, e che avrebbe modificato i contratti tra proprietari e contadini, in senso favorevole a questi ultimi. Questa legge però fu respinta dal Parlamento (per effetto del voto censitario i proprietari vi erano rappresentati assai più dei lavoratori).

 

In politica estera Crispi confermò l’adesione dell’Italia alla Triplice alleanza, l’amicizia con la Germania e l’atteggiamento antifrancese (il protezionismo provocò una “guerra doganale” con la Francia, con gravi danni per la viticoltura meridionale e per le zolfatare siciliane); inoltre riprese la politica di espansione coloniale in Africa orientale, costituendo la colonia Eritrea. Nel 1896, Crispi cercò di riguadagnare il favore dell’opinione pubblica

 

(critica nei confronti del governo per la crisi economica e sociale e per le dure repressioni) con una grande conquista coloniale, e attaccò l’Etiopia, ma l’esercito italiano subì una tragica disfatta ad Adua. Crispi, travolto dalle critiche popolari e parlamentari, dovette dimettersi.

 

  1. Negli anni dal 1896 al 1900 la crisi economica e sociale si aggravò: l’aumento del prezzo del pane suscitò manifestazioni di protesta in tutta l’Italia, a cui il governo reagì con spietate repressioni: a Milano nel 1898 l’esercito prese a cannonate la folla dei dimostranti provocando un centinaio di morti, i capi del Partito socialista e del movimento cattolico furono arrestati; inoltre il governo cercò di far approvare dal parlamento leggi che limitavano la libertà di stampa, di associazione e di riunione, ma in questa occasione si costituì un’alleanza fra socialisti, democratici (radicali e repubblicani) e liberali di sinistra (tra i quali Giolitti e Zanardelli), che riuscì a impedire l’approvazione delle leggi liberticide.

 

Nell’anno 1900 le elezioni politiche furono vinte dalle opposizioni (liberali di sinistra, democratici, socialisti) e determinarono una svolta politica, cioé l’abbandono della prassi autoritaria e repressiva dei governi di fine Ottocento: questa svolta fu favorita anche dal miglioramento della situazione economica internazionale. L’assassinio del re Umberto I da parte dell’anarchico Bresci (che intendeva vendicare la strage di Milano del 1898) non frenò il nuovo indirizzo della politica italiana, che fu approvato dal nuovo re Vittorio Emanuele III e che fu interpretato dai capi di governo Zanardelli (1901-1903) e Giolitti (ministro dell’interno con Zanardelli e poi capo del governo – salvo brevi intervalli – dal 1903 al 1914). In effetti il liberale Giovanni Giolitti dominò la politica italiana in questa prima parte del nuovo secolo che pertanto vien chiamata “età giolittiana”.

 

In primo luogo Giolitti assunse un atteggiamento di neutralità nei conflitti sociali: egli era convinto che il governo dovesse rimanere imparziale tra datori di lavoro e lavoratori e non dovesse quindi intervenire per reprimere scioperi e

La legalizzazione dello sciopero fu però “compensata” dall’aumento del potere dei prefetti e da norme più restrittive riguardo alla difesa dello Stato e dell’ordine pubblico (contro movimenti rivoluzionari, manifestazioni di protesta ecc.)

  • I lavoratori delle cave di marmo di Massa Carrara

manifestazioni, fin quando non venisse minacciato l’ordine pubblico12; questo atteggiamento favorì lo sviluppo delle organizzazioni sindacali e l’aumento degli scioperi, con la conseguenza di un incremento dei salari operai e agricoli.

In secondo luogo attuò riforme per far evolvere in senso democratico il sistema politico italiano e per favorire lo sviluppo economico dell’Italia, anche con un miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari; per attuare il suo programma di riforme egli cercò di coinvolgere anche le forze politiche e sociali che per ragioni storiche e ideologiche erano “nemiche” del liberalismo, vale a dire il Partito socialista e il movimento cattolico: Giolitti fece importanti concessioni a queste forze per ottenerne l’appoggio, tuttavia mantenne saldamente il potere nelle proprie mani, tanto che si parlò di “dittatura” di Giolitti, realizzata attraverso il controllo del Parlamento (anche con pratiche trasformistiche e clientelari) e l’intervento del governo (per mezzo dei prefetti) nelle competizioni elettorali, soprattutto al Sud.

Nei primi anni di governo Giolitti si rivolse al Partito socialista13, che in quegli anni era guidato da Filippo Turati e dalla corrente riformista o “minimalista”: Turati rifiutò l’offerta di entrare a far parte del governo ma diede il suo appoggio alle riforme giolittiane: leggi speciali per il Meridione, statalizzazione delle ferrovie, legislazione sul lavoro (riposo festivo, divieto del lavoro notturno per donne e bambini ecc.), monopolio statale sulle assicurazioni per la vita, con i cui proventi si dovevano finanziare le pensioni e le assicurazioni contro gli infortuni, suffragio universale maschile, introdotto dalla legge elettorale del 1912 (le prime elezioni con il suffragio universale furono quelle del 1913).

La politica di riforme sociali e di collaborazione con i socialisti fu favorita, oltre che dal riformismo dei socialisti, dalla favorevole congiuntura economica internazionale, che consentì una forte accelerazione dello sviluppo industriale italiano; il “decollo” dell’industria italiana non ridusse il divario con i paesi più ricchi, ma produsse comunque un aumento del reddito e del tenore di vita degli italiani. Tuttavia questo sviluppo industriale avvenne soprattutto nell’Italia settentrionale e non modificò le condizioni di arretratezza e di povertà del Meridione; le leggi speciali per il Mezzogiorno (con cui furono costruite opere pubbliche, come l’acquedotto per la Puglia, e furono concesse agevolazioni fiscali al Sud) non intaccarono il sistema agrario del Mezzogiorno dove i latifondisti, difesi dalla concorrenza estera dal protezionismo doganale, puntavano più sullo sfruttamento dei contadini che sulla modernizzazione delle aziende. Pertanto le masse rurali meridionali non beneficiarono della crescita economica italiana e il fenomeno dell’emigrazione continuò, e s’intensificò, anche nel decennio giolittiano. Oltre tutto Giolitti, per ottenere voti nel Sud, ricorse anche alla corruzione e al clientelismo e fu accusato di essere in rapporto con le organizzazioni criminali del Sud (il meridionalista Gaetano Salvemini definì Giolitti “ministro della malavita”).

Sul piano della politica estera l’Italia giolittiana si riavvicinò alla Francia, pur restando fedele alla Triplice Alleanza. Nel frattempo si modificò l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti delle conquiste coloniali, che cominciarono ad essere richieste soprattutto dal nuovo movimento nazionalista. Giolitti fu spinto alla conquista della Libia dalla campagna di stampa dei nazionalisti14, dalle pressioni della corte e dell’esercito, dagli interessi di alcuni gruppi industriali e della finanza cattolica (Banco di Roma). Venne dichiarata guerra all’Impero turco, a cui apparteneva la Libia, e il territorio libico fu conquistato nonostante la strenua resistenza opposta dagli indigeni (berberi); la pace di Losanna (1912) assegnò all’Italia la Libia e le isole del Dodecaneso (Rodi è la principale di esse). La conquista della Libia dimostrava che l’Italia si era notevolmente rafforzata sul piano economico e militare dal 1896 (disfatta di Adua), ma non recò benefici economici all’Italia (era, secondo la definizione di Nitti, “uno scatolone di sabbia”); invece ne uscì indebolita la politica liberal-progressista di Giolitti: infatti si rafforzarono il movimento nazionalista e le tendenze antidemocratiche che avevano cominciato a svilupparsi in Europa agli inizi del Novecento; inoltre la guerra di Libia determinò la vittoria, all’interno del Partito socialista, della corrente rivoluzionaria o

  • Giolitti era convinto che lo Stato dovesse rimanere neutrale (non reprimere scioperi e manifestazioni come era avvenuto in precedenza) affinché tutti gli Italiani, compresi i lavoratori dei ceti popolari, si sentissero membri dello Stato, e non assumessero posizioni ostili, rivoluzionarie; inoltre era convinto che gli scioperi non erano dannosi per l’economia italiana perché producevano un aumento del potere d’acquisto dei lavoratori, e quindi un’espansione del commercio e dei consumi.
  • Il Partito socialista si era ormai consolidato ed era entrato in Parlamento con l’elezione di un certo numero di deputati socialisti. Nei primi anni del Novecento il partito socialista era costituito da due correnti: una minimalista riformista e una massimalista rivoluzionaria, divise a loro volta in due gruppi. I due gruppi minimalisti erano quello marxista (a cui apparteneva il leader del Partito, Filippo Turati), che non rinunciava all’ideale marxista della rivoluzione, ma lo proiettava in un lontano futuro, e nel frattempo si impegnava per ottenere riforme favorevoli ai lavoratori attraverso metodi legali, e quello revisionista: i revisionisti aderivano alla teoria del socialista tedesco Eduard Bernstein, il quale sosteneva che le predizioni di Marx sulla futura e inevitabile rivoluzione erano sbagliate, e che quindi bisognava accantonare definitivamente l’ideale rivoluzionario, e impegnarsi solo per le riforme; la differenza tra riformisti marxisti e revisionisti era dunque solo teorica, comunque i revisionisti costituivano la corrente più “ a destra” all’interno del Partito Socialista; i leaders dei revisionisti erano Bonomi e Bissolati. La sinistra del P.S.I., massimalista e rivoluzionaria, era costituita dai Marxisti (leader Menotti Serrati) che intendevano attuare immediatamente il progetto marxista della rivoluzione, con la conquista del potere da parte del proletariato e l’abolizione della proprietà privata, e dagli anarco-sindacalisti, che traevano ispirazione dalle teorie di Bakunin e soprattutto di George Sorel, socialista francese che aveva esaltato la violenza rivoluzionaria e aveva proposto lo sciopero generale come metodo di lotta contro il capitalismo. Gli anarco-sindacalisti costituivano l’ala più a sinistra, più “arrabbiata” ed eversiva nel panorama del socialismo italiano.
  • Nel 1910 era nata in Italia l’Associazione Nazionalista, che si proponeva di spingere l’Italia a una politica di potenza militare, di espansione e di conquiste coloniali. L’ideale nazionale era costituito, nella prima metà dell’Ottocento, dall’aspirazione dei popoli a costituire Stati-nazionali, caratterizzati da unità e indipendenza politica; negli ultimi decenni questo ideale si trasforma in Nazionalismo, cioè nell’aspirazione all’affermazione politico-militare dello Stato nazionale nello scenario internazionale. Il Nazionalismo (alimentato anche dalle teorie razziali, dal darwinismo sociale, dagli interessi economici) si diffuse in tutta l’Europa nell’età dell’Imperialismo e ne fu uno dei fattori propulsivi.

“massimalista”, che rifiutava ogni forma di collaborazione con Giolitti e in genere con lo Stato liberale (infatti la guerra per la Libia era stata condannata dal Partito socialista, ma alcuni socialisti revisionisti, cioè simpatizzanti del “revisionismo” di Bernstein, l’avevano approvata, e quindi erano stati espulsi dal Partito; con la loro uscita dal partito però la corrente moderata, riformista, era diventata minoritaria, e quindi i massimalisti -rivoluzionari, antigiolittiani, antimonarchici, antiparlamentari – avevano assunto la direzione del Partito).

Le elezioni del 1913, a suffragio universale maschile, presentavano dunque grossi rischi per i liberali e per Giolitti: i ceti popolari, ammessi per la prima volta al voto, avrebbero potuto determinare un grande successo del Partito socialista (massimalista e antigiolittiano, come abbiamo detto); per evitare questa evenienza Giolitti strinse un accordo con i cattolici, noto come “Patto Gentiloni”.

Per capire i termini di questo accordo ripercorriamo la storia del movimento cattolico in Italia: nel 1864 il papa Pio IX aveva condannato il liberalismo (con il Sillabo) e nel 1870, dopo la conquista di Roma da parte del Regno d’Italia, aveva vietato ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche (“non expedit”) per manifestare così il dissenso rispetto allo Stato italiano usurpatore dei diritti della Chiesa. La politica anticlericale, le espropriazioni di beni ecclesiastici, ma anche l’oppressione dei ceti popolari attuata dai governi del Regno, alimentarono il contrasto tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Il papa Leone XIII (succeduto a Pio IX nel 1878) assunse un atteggiamento più conciliante nei confronti degli Stati liberali e nel 1891 pubblicò l’enciclica Rerum Novarum, con cui la Chiesa cattolica prendeva posizione sul problema sociale: la Rerum Novarum affermava il diritto naturale alla proprietà, e condannava quindi il socialismo, sia perché esso negava tale diritto, sia perché propugnava la lotta di classe, anche violenta, come soluzione dei problemi sociali (naturalmente venivano anche condannati il materialismo e l’ateismo dI Karl Marx). La Rerum Novarum affermava però che la proprietà privata comportava dei doveri sociali (quindi il profitto non doveva essere l’unico fine e valore dell’attività economica), condannava lo sfruttamento economico dei proletari, approvava l’intervento dello Stato nell’ambito economico-sociale per tutelare le classi più deboli, riconosceva il diritto dei lavoratori di associarsi per difendere i propri interessi, proponeva la collaborazione tra lavoratori e padroni in vista del “bene comune”. Tale enciclica proponeva quindi una dottrina sociale cattolica che, pur essendo molto distante dalle teorie socialiste, contestava anche i principi del liberismo ed esprimeva una visione solidaristica e sensibile al disagio dei ceti popolari. L’effetto immediato della Rerum Novarum fu quello di incoraggiare e sostenere l’associazionismo cattolico: si venne così formando un vasto movimento cattolico costituito da sindacati, associazioni, leghe, cooperative, banche ecc.; nell’ultimo decennio dell’Ottocento le organizzazioni sindacali del movimento cattolico entrarono in concorrenza con le organizzazioni socialiste e difesero attivamente i diritti dei lavoratori, subendo anche le repressioni governative (nel 1898, dopo i moti di Milano, seimila associazioni cattoliche furono accusate di sovversivismo e sciolte dal governo, e il leader cattolico don Davide Albertario fu arrestato, insieme al socialista Turati, e condannato a tre anni di carcere). Il movimento cattolico era però presente solo a livello sociale, mentre non esisteva, a causa del “non expedit”, un’attività e un’organizzazione politica dei cattolici. Un tentativo di formare un partito dei cattolici venne attuato nei primi anni del Novecento da don Romolo Murri, che fondò la Democrazia Cristiana, questo tentativo però naufragò per l’opposizione del nuovo papa Pio X (1903-1914) (don Murri, fra l’altro, venne condannato per il suo “modernismo” teologico, considerato incompatibile con la dottrina cattolica); comunque Pio X sospese il “non expedit”, e in tal modo consentì l’elezione dei primi deputati cattolici, ma soprattutto rese possibile il “patto Gentiloni”.

Il Patto Gentiloni (che prese il nome dal presidente dell’Unione elettorale cattolica) prevedeva che i cattolici avrebbero votato per quei candidati liberali che si impegnavano a non fare una politica anticlericale e a non promuovere leggi sgradite alla Chiesa, come p.e. il divorzio: tale impegno fu sottoscritto da moltissimi candidati liberali e in tal modo i liberali, grazie al voto dei cattolici, ebbero ancora la maggioranza in Parlamento, anche se ci fu una certa crescita dei deputati socialisti. Molti dei liberali eletti però erano conservatori, piuttosto distanti dal liberalismo progressista di Giolitti; pertanto Giolitti, avvertendo di non avere una solida maggioranza, preferì lasciare la guida del governo (1914).

Il nuovo capo del governo fu il liberale conservatore Antonio Salandra.

La situazione politica e sociale tendeva nuovamente a radicalizzarsi: alla sinistra rivoluzionaria si contrapponeva la destra liberal-conservatrice. Un sintomo evidente di questo nuovo clima fu la “settimana rossa” che scoppiò in Romagna e nelle Marche nel giugno 1914: un’ondata di scioperi e di agitazioni che assunse un carattere apertamente insurrezionale (con violenze, sabotaggi, assalti a edifici pubblici), e che fu repressa con l’impiego di 100.000 soldati. Un mese dopo scoppiava la Grande Guerra e si poneva il problema della partecipazione italiana, che avrebbe suscitato nuovi contrasti e divisioni.