L’economia dell’Europa preindustriale

L’economia dell’Europa preindustriale

Dopo la crisi demografica prodotta dalla “peste nera”, cominciano a manifestarsi nei primi decenni del Quattrocento segni di ripresa, favoriti dai processi di ristrutturazione sollecitati dalla stessa crisi. Nell’agricoltura l’abbandono delle terre meno fertili favorisce il rialzo dei rendimenti; la diminuita pressione della richiesta di cereali orienta verso colture specializzate e destinate al commercio (vite, piante tintorie). Un forte sviluppo conosce in particolare l’allevamento bovino e ovino in numerose regioni europee. Si diffonde anche, in regioni che hanno un’agricoltura progredita (Lombardia, Paesi Bassi), un allevamento bovino collegato con la produzione di foraggere e con la rotazione delle colture.

All’aumento della domanda di generi alimentari l’agricoltura europea risponde in due modi: introducendo nuove tecniche di coltivazione che permettono rese superiori (risposta intensiva); estendendo la superficie coltivabile ai terreni incolti o precedentemente abbandonati e meno fertili (risposta estensiva). È quest’ultima la soluzione che prevale, anche a causa di un’organizzazione della società contadina (di impronta comunitaria e priva di risorse) che impedisce di fatto investimenti produttivi.

I secoli del basso Medioevo videro in gran parte dell’Europa centro-occidentale non solo la disgregazione della feudalità come sistema di governo, ma anche l’erosione dei poteri signorili nelle campagne per effetto sia della crisi demografica (manodopera più rara, quindi più cara), sia della tendenza generale dei signori fondiari alla monetizzazione delle prestazioni loro dovute, sia alla serie di rivolte contadine esplose in diverse aree geografiche tra la metà del Trecento e i primi decenni del Cinquecento. Tuttavia, in seguito, si assiste ad una forte contrazione della proprietà contadina, effetto di processi diversi (rifeudalizzazione). Il forte aumento della popolazione registrato nel XVI e poi nel XVIII secolo si accompagnò a fenomeni di proletarizzazione contadina, cioè alla diminuzione in percentuale dei coltivatori autosufficienti o addirittura provvisti di eccedenze di derrate da vendere sul mercato, alla moltiplicazione dei contadini poveri o nullatenenti e alla riduzione del potere d’acquisto dei salari.

Nell’attività manifatturiera al calo di settori tradizionali (lana e tessuti grezzi) si reagisce, nel corso del Quattrocento, o con la produzione di merci di lusso o (trasformazione di più vasta portata) con la produzione di merci a basso costo e di minore qualità (ad esempio tessuti con fustagni, cioè stoffe di minor pregio) destinate però a uno smercio più vasto. Una maggiore produttività si ottiene con la diffusione del lavoro a domicilio e delle manifatture nelle campagne, dove la manodopera è più abbondante e meno costosa. L’attività mercantile si modifica per la minore importanza delle fiere e la crescita di una rete di operatori stabili nei maggiori centri; essa si orienta inoltre verso prodotti di largo consumo, valorizzando diverse caratteristiche produttive delle differenti regioni europee, grazie anche al miglioramento dei trasporti.

L’espansione dei traffici favorisce lo sviluppo del trasporto marittimo e di quello via terra, decretando la fortuna dei porti del Baltico, di città quali Anversa e Amsterdam, dei banchieri tedeschi e italiani, dei mercanti olandesi.

Il capitale mercantile conserva così il proprio predominio sull’attività manifatturiera, anche per l’esiguità della domanda di beni industriali da parte di una società in cui permangono vaste aree di autoconsumo. Prevale in ogni caso una produzione di tipo artigianale, mentre per quanto concerne il settore manifatturiero trainante, quello tessile, nei paesi più evoluti (Inghilterra) va diffondendosi l’industria a domicilio (o protoindustria).

Trasformazioni profonde si registrano anche nella società, con gravi disagi testimoniati da rivolte sia urbane che rurali, numerose a partire dai decenni centrali del Trecento. Esse sono conseguenza per un verso delle difficoltà provocate dalla crisi, per l’altro dalla perdurante evoluzione di lungo periodo verso una economia più aperta agli scambi e al mercato, che modifica i vecchi assetti produttivi, le forme del lavoro, la distribuzione della ricchezza a danno dei ceti meno abbienti. Nelle città in particolare si determina una polarizzazione tra un ceto ristretto di grandi artigiani e di mercanti-imprenditori da un lato, e, dall’altro, vasti strati di piccoli artigiani e di lavoranti a bottega; si diffonde un pauperismo più crudo, a cui solo in parte pongono riparo le nuove istituzioni di assistenza e di carità. Nelle campagne si accentua la crisi della grande proprietà signorile, lasciando spazio all’emergere sia di ceti contadini, nelle vesti di proprietari o di conduttori di terre, sia a una nuova proprietà borghese, dei cittadini. Ma più numerosi sono i coltivatori che si ritrovano impoveriti, ridotti alla condizione di salariati, privati anche del sostegno che assicuravano vecchi istituti come la proprietà o l’uso comune delle terre.

Nell’Europa orientale (Polonia, Boemia, parte orientale dell’Impero germanico, Russia), gli effetti della crisi demografica sono più gravi e duraturi, e creano le condizioni per la crescita del potere signorile. In particolare si introducono più rigide forme di dipendenza contadina, u n vero e proprio “servaggio” (la cosiddetta “servitù della gleba”) che peserà per lungo tempo sull’evoluzione economica e sociale di quei paesi.