Le rivoluzioni inglesi del Seicento

Le rivoluzioni inglesi del Seicento

Le rivoluzioni inglesi del Seicento


Il XVII secolo è stato in Gran Bretagna un periodo caratterizzato da profondi sconvolgimenti sociali, politici e religiosi. La prima rivoluzione, cominciata nel 1640-41, sorse dal conflitto intercorso per motivi religiosi e politici tra il sovrano, Carlo I Stuart, e il parlamento; alla fuga del re seguì una guerra civile nella quale si affrontarono, da un lato, l’aristocrazia tradizionale britannica, ultima erede dell’Inghilterra feudale, dall’altro la giovane classe sociale della gentry, la nuova nobiltà terriera, la cui fede religiosa era basata sul puritanesimo. L’arresto e la decapitazione del re, il protettorato di Cromwell e, dopo il 1660, la restaurazione operata da Carlo II Stuart, non crearono però un clima di armonia tra un Parlamento, sempre più consapevole della necessità di far valere i propri diritti, e la monarchia. La Glorious revolution del 1689, conclusasi con la fuga di Giacomo II Stuart e la salita al trono del protestante Guglielmo d’Orange, non fu una rivoluzione cruenta e parve il naturale completamento di quel processo di modernizzazione della società politica anglosassone, nella quale le prerogative del Parlamento si apprestavano ad affiancare il sovrano nella gestione del paese.

 

Le cause e i motivi politici

Il periodo storico che coincise con il regno di Elisabetta I Tudor (1558-1603) determinò decisive trasformazioni economiche, politiche e sociali in Inghilterra. Uno di questi mutamenti, che avrà ripercussioni sulle travagliate vicende del XVII secolo, riguarda la modifica dei rapporti di proprietà nelle campagne. Il fatto che lo Stato, per reperire fondi in vista delle necessità militari, fosse costretto a vendere terre e a concedere monopoli, favorì il consolidamento di una nuova classe media o medio-alta di possidenti, la gentry, la cui nobiltà non era di antico lignaggio, a scapito dell’autorità dell’aristocrazia tradizionale. La gentry infatti riuscì a ottenere grandi estensioni di terreno a prezzi relativamente bassi: la pratica delle enclosures, inoltre, favorì l’accorpamento delle proprietà e diede forza a questa classe.
Dal punto di vista religioso, la gentry era legata al puritanesimo, che propugnava una religiosità severa, un’etica rigorosa ed esaltava l’azione del singolo, il quale grazie all’istruzione poteva leggere le Scritture e conformarsi ai comandamenti. Il puritanesimo, fin dai tempi di Elisabetta I aveva acquisito in Inghilterra un grande seguito: l’ostilità crescente che la regina aveva manifestato verso di esso non aveva però impedito ai suoi sostenitori di fare proseliti nella società. La progressiva affermazione di ministri del clero e predicatori puritani, unitamente alla crescita della sfiducia verso il clero anglicano, giudicato compromesso con il potere, diffuse nella società e nel parlamento il desiderio di rinnovamento e purificazione sia del potere temporale che di quello religioso.
Queste idee non solo alimentarono i contrasti religiosi, ma resero gli yeomen delle campagne e dei ceti medi particolarmente ostili nei confronti di un sovrano come Carlo I Stuart (1625-1649) che, sposato con una principessa cattolica, manifestava simpatie verso le posizioni anglicane moderate e verso l’arminianesimo. Ma anche il predecessore di Carlo, Giacomo I Stuart (1603-1625), benché protestante, aveva subito l’opposizione di una parte consistente di questa nobiltà, dal momento che era profondamente legato alla gerarchie della Chiesa d’Inghilterra.
Dunque la rivolta non ebbe solo cause religiose, ma nacque da un intreccio tra due tipi di conflitto: quello tra anglicani e puritani e quello tra le nuove élites (piccoli e medi proprietari terrieri, come gli yeomen) e istituzioni monarchiche sempre meno credibili. L’atteggiamento di Giacomo I e Carlo I di fronte alle nuove classi emergenti e alle istanze innovative da esse sostenute, fu di netta chiusura: essi si appoggiarono a quello che sembrava loro ancora saldo in Inghilterra: la Chiesa anglicana e l’aristocrazia tradizionale. Tuttavia, la Chiesa d’Inghilterra stessa aveva perso credibilità proprio per i suoi legami con il potere politico, mentre l’aristocrazia e le oligarchie mercantili assicurarono alla Corona un sostegno blando e non troppo convinto. Di contro, paiono assenti dalla scena della rivolta del 1640-41 le masse rurali e i braccianti agricoli.
Un altro elemento che può spiegare gli eventi rivoluzionari è legato al tipo di potere che la Corte esercitava: tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII, la Corte, in difficoltà a causa dei contrasti con il Parlamento, sviluppò un sistema di clientele, di distribuzioni di denaro, di lavori e di pensioni che crearono un ramificato sistema di corruzione e di gestione personale del potere. Questo fatto sottrasse autorità morale alla Corona e causò l’ostilità della camera dei comuni, dove la gentry, esclusa dalla distribuzione di cariche e benefici, si oppose duramente alle richieste del re di ottenere finanziamenti.

Il ruolo del parlamento

Le due rivoluzioni inglesi del XVII secolo provocarono, tra le altre conseguenze, un rafforzamento del parlamento che, dopo il 1689, con la nascita della monarchia costituzionale, diventerà un’assemblea in grado di costituire un potere autonomo, prima parallelo a quello regio e poi addirittura prevalente. Esso ebbe un ruolo fondamentale sia durante la rivolta contro Carlo I, sia negli anni successivi, allorché si mostrerà sempre più in grado di opporsi alla politica del sovrano. Nel 1604 erano state concesse ai membri del parlamento l’immunità giudiziaria e la libertà di parola in materia religiosa: l’assemblea, dunque, oltre a controllare il fisco (in particolare per quel che riguardava le spese militari), poté da quel momento esercitare le proprie prerogative anche nelle questioni religiose. L’accrescimento dei compiti offrì ai membri del Parlamento una più salda consapevolezza delle proprie prerogative, oltre a una grande preparazione e una autonomia decisionale che si concretizzava. Per questo il parlamento divenne la sede dei più forti contrasti durante la rivoluzione: la Petizione dei diritti (1628), con la denuncia degli arresti illegali operati da Carlo I e la violazione della prassi costituzionale del regno in materia fiscale, fu un atto fondamentale delle vicende politiche di quel periodo, tanto è vero che da allora il re evitò di convocare il Parlamento per ben 11 anni, accrescendo ovviamente l’opposizione dei suoi membri.
La successiva convocazione del Parlamento, avvenuta nel 1640, serviva, nelle intenzioni del sovrano, a reperire nuovi fondi per armare l’esercito e sedare la rivolta degli scozzesi, irritati per le scarse attenzioni che Carlo I (il quale era anche re di Scozia, essendo le due corone unite dal 1603), riservava loro, e per l’imposizione di un Book of Prayer che conservava poco dello spirito calvinista. Tuttavia, il parlamento presentò al sovrano una serie di rimostranze: il re allora lo sciolse dopo tre settimane (si trattò del cosiddetto “Corto parlamento”), ma nel novembre 1640 il re dovette riconvocarlo di nuovo (fu definito “Lungo parlamento”, perché rimase in carica fino al 1660), dal momento che l’esercito scozzese era penetrato in Inghilterra mietendo successi. Nondimeno, l’assemblea, sfruttando il malcontento popolare che cresceva contro il sovrano, chiese a Carlo I l’abolizione di tutte le tasse fino ad allora decise, lo scioglimento dei tribunali colpevoli di vessazioni, la messa a morte del primo ministro, la convocazione triennale delle Camere e la possibilità per il parlamento di controllare la scelta dei ministri. Tali richieste non ebbero però grande ascolto e la situazione politica, già problematica, divenne ancora più tesa, anche a causa di una rivolta cattolica scoppiata in Irlanda che alimentò la paura di un complotto papista: tra il novembre 1641 e gennaio 1642 il parlamento presentò una Grande Rimostranza che ripercorreva le tappe dei contrasti con la Corona. Di fronte a queste difficoltà e a nuove rivolte popolari, Carlo I cercò di giocare d’anticipo, facendo irruzione con dei soldati nella Camera dei Comuni per arrestare i cinque membri di essa che più si erano opposti al sovrano: i parlamentari riuscirono però a fuggire e Londra si sollevò contro il re, il quale abbandonò la capitale.

L’influenza del puritanesimo

Il ruolo che il puritanesimo ebbe negli anni precedenti alla rivolta del 1640-41 fu significativo, ma secondo modalità non ipotizzate neppure dai puritani stessi. Infatti, di per sé il puritanesimo non possiede affatto un carattere sovversivo, anzi, è insito nello spirito puritano un rispetto per la gerarchia. Tuttavia, l’attesa di una Nuova Gerusalemme, la fede in un rinnovamento profondo della società avevano in sé i presupposti di una chiamata alla rivolta: infatti, quando nei puritani venne meno la fiducia verso la Corona, i nobili e i parlamentari moderati che avrebbero dovuto condurre all’agognato rinnovamento, essi si rivolsero ai parlamentari più radicali. Senza una totale fede nella loro causa, i leaders parlamentari degli anni Quaranta del Seicento non sarebbero riusciti a condurre a fondo la loro opera rivoluzionaria, arrivando a processare il re. Inoltre, la fiducia puritana nella coscienza del singolo e sulla preminenza dei dettami biblici sulla legge, metteva in discussione la legittimità dei tribunali ecclesiastici; l’insistenza sulla necessità che il singolo interpretasse da sé le scritture favorì l’alfabetizzazione e la lettura, agevolando la politicizzazione degli yeomen e degli artigiani urbani: ne risultò, durante la rivoluzione, un fiume di petizioni e libelli di carattere politico. In ultimo, l’organizzazione che i puritani si erano dati fin dal XVI secolo, incentrata sulle classi e le congregazioni che si raccoglievano attorno a un predicatore, fornì involontariamente un modello di organizzazione politica che fu attuato dagli esponenti del radicalismo. Infine, il puritanesimo fu protagonista nella rivoluzione inglese degli anni Quaranta del XVII secolo anche perché fornì all’opposizione uomini politici di alto livello e dotati di forte personalità. Un’altra conseguenza politica del movimento rivoluzionario fu la riscoperta e il rafforzamento del diritto consuetudinario che, in un periodo di conflitto tra parlamento, cittadini e Corona, ebbe un ruolo significativo: infatti, molte delle questioni dibattute tra le camere e la Corona ebbero un risvolto legale; oltre a ciò, tra gli esponenti della gentry era molto diffusa la conoscenza del diritto, e il primo risultato del lungo parlamento fu l’abolizione dei tribunali privilegiati, che erano il puntello del potere regio e antichi rivali dei tribunali consuetudinari. Una terza conseguenza politica, non meno rilevante delle altre, fu la tendenza a contrapporre alla Corte, con i suoi intrighi e i suoi mercanteggiamenti, la “Campagna”, considerata come un luogo fisico e ideale puro, libero, lontano dalle clientele e dal malcostume di Corte e della città di Londra.
Dopo che l’esercito parlamentare guidato da Oliver Cromwell (1599-1658) sconfisse il re nella battaglia di Naseby del 1645, sorse il contrasto tra i presbiteriani, conservatori e favorevoli a un dialogo con le forze realiste e gli indipendenti, ben radicati nell’esercito parlamentare e ostili alle gerarchie religiose. Un altro movimento politico, diffusosi tra le leve più giovani dell’esercito, era quello dei livellatori, i quali chiedevano la tolleranza religiosa, proponevano di estendere il diritto di voto a tutti i maschi adulti (eccezion fatta per i servi e i mendicanti), oltre alla riduzione dei dazi e dei monopoli commerciali. Le loro idee confluirono nel Patto del popolo, che pose la questione della natura del potere.
La questione se trattare con il re oppure respingere ogni compromesso venne tuttavia “risolta” dallo stesso Carlo I che fuggì dal luogo di detenzione cercando di accordarsi con gli scozzesi. Il nuovo arresto del sovrano, operato dall’esercito di Cromwell, tolse ogni possibilità di successo alle posizioni dei presbiteriani, i cui rappresentanti in parlamento vennero arrestati da Cromwell. I rimanenti membri dell’assemblea (Rump parliament, letteralmente il “parlamento superstite”) costituirono un’alta corte di giustizia che processò e condannò il re. Dopo l’esecuzione del re, avvenuta nel febbraio 1649, fu abolita la camera dei Lord, fu proclamata la Repubblica (Commonwealth) e cominciò il protettorato di Cromwell, protrattosi fino al 1658, caratterizzato da una dittatura militare e da una politica estera aggressiva, che vide l’Inghilterra scontrarsi con l’Olanda (Atto di Navigazione) e con la Spagna per le colonie d’oltremare.
In seguito alla morte di Cromwell, la restaurazione, approvata dal parlamento, si concretizzò nel ritorno al potere degli Stuart, nella figura di Carlo II (1660-1685). Durante la restaurazione, tuttavia, il paese non raggiunse la pace religiosa, perché all’atteggiamento tollerante del sovrano si contrapponeva la diffidenza del parlamento, ormai dotato di notevoli poteri .

La salita al trono di Giacomo II Stuart (1633-1701), nel 1685, fece precipitare la situazione: il suo tentativo di restaurazione cattolica colpiva gli interessi dell’aristocrazia terriera (rappresentata in politica dal partito tory) e della grande borghesia urbana (whigs). L’opposizione si appellò allora a Guglielmo III d’Orange, statolder di Olanda, e marito protestante di Maria Stuart, figlia di Giacomo II. Nel 1689 Guglielmo intervenne in favore dell’Inghilterra protestante e Giacomo II fuggì da Londra: i nuovi sovrani, Guglielmo e Maria, regnarono fino al 1702, accettando il Bill of Rights, il quale sanciva la libertà di parola e di stampa del parlamento, ponendo rigorosi limiti al potere del re. Fu questa una rivolta incruenta, passata alla storia come Glorious revolution anglosassone.

Il dibattito sulla natura del potere

Gli eventi rivoluzionari verificatisi in Inghilterra nel XVII secolo diedero una forte spinta non solo al riformismo, ma anche influenzarono profondamente la riflessione politica. Non è possibile entrare nel dettaglio di questa discussione ma è bene accennare a essa, perché da quel momento cominciarono ad affermarsi tendenze politiche tuttora presenti. Per secoli gran parte del pensiero politico era stato dominato dall’idea espressa dal filosofo greco Aristotele (384-322 a. C.), secondo la quale l’uomo è un animale politico, la cui realizzazione più piena risiede nella partecipazione alla vita pubblica. Tale fine poteva essere realizzato, però, solo all’interno di un governo giusto ed equilibrato: solo la virtù dei governanti e dei cittadini, poteva dunque assicurare la realizzazione di questa alta destinazione dell’uomo.
Tuttavia, il pensiero politico aveva anche sviluppato l’idea secondo la quale tutti gli uomini avevano un diritto naturale alla proprietà e alla sovranità, ma essi avevano rinunciato volontariamente a tale diritto , in virtù di un accordo, per dare vita agli Stati (contrattualismo). Durante gli anni del Commonwealth questa teoria venne ripresa da un filosofo, Thomas Hobbes (1588-1679), per fornire una giustificazione all’assolutismo. Secondo Hobbes, nello stato di natura gli uomini non hanno vincoli, né vi sono leggi che li limitano: il “diritto” sta dalla parte del più forte, di chi riesce a dominare. Per limitare questa condizione i cittadini hanno volontariamente rinunciato al pieno diritto su ogni cosa, accettando di diventare sudditi di uno Stato e, tramite un patto, accettano che uno di loro invece diventi il loro sovrano. Questi ha il dovere di tutelare la libertà e la proprietà dei cittadini, ma, in virtù del patto stipulato, possiede un potere illimitato.
La riflessione politica di John Warr, invece, vissuto nel XVII secolo, propugna le idee dei radicali inglesi, critica il formalismo religioso e giuridico: l’insieme dei privilegi (compresi quelli del parlamento) costituisce infatti secondo Warr un ostacolo alla vera libertà. L’insieme di tutto il popolo, invece, è al di sopra dei suoi governanti, perché solo nella moltitudine del popolo si riflette quella scintilla di libertà che scaturisce direttamente dall’immagine di Dio nella mente delle persone. Più che a un pensiero democratico in senso moderno, Warr fa appello a una visione utopica, nella quale il popolo è colui che, per intercessione divina, possiede il diritto di governare, un diritto che non può essere cancellato da altri uomini.

Ci furono invece autori, come R. Filmer (1588-1653), che sostennero l’origine divina del potere del sovrano. Questa idea rappresentava il fondamento del monarca francese Luigi XIV di Borbone (1638-1715); a essa si contrappose John Locke (1632-1704). Anche Locke accettava l’idea dell’esistenza di uno stato di natura; egli tuttavia, a differenza di Hobbes, ritiene che in questo stato gli uomini non siano destinati a combattersi, dato che essi possiedono tre diritti specifici: alla vita, alla libertà e alla proprietà. Nondimeno, per evitare l’anarchia e per vedersi garantiti questi diritti naturali, gli uomini si associano, stipulando un patto e creando la comunità politica, la quale ha il compito di tutelare i tre diritti fondamentali. Per questo gli individui possono essere legittimati a opporsi a un’autorità che non rispetti il loro naturale diritto alla libertà. Infine, nota Locke, affinché lo Stato sia equo, è bene che il potere esecutivo sia separato da quello legislativo.


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