LE OPERE POLITICHE VITTORIO ALFIERI

LE OPERE POLITICHE VITTORIO ALFIERI


Le opere politiche

L’Alfieri, perennemente agitato da un desiderio prepotente di libertà (teorizzò infatti l’immagine del “liberuomo”, di cui era lui stesso rappresentazione, nella vita e nell’arte), non concretò mai un preciso programma politico, come poteva essere quello del Machiavelli, che pur l’Alfieri aveva letto attentamente ed apprezzato, poiché ogni limite posto alla libertà individuale gli appariva insopportabile e perciò nessun regime avrebbe potuto, in fondo, appagarlo.

Egli era contro la tirannide, intesa come qualunque forma di potere; riteneva che un preciso dovere dell’”eroe”, ovvero del “liberuomo”, ma diciamo anche meglio dell’artista in generale, dovesse essere quello di combattere ed abbattere una qualsivoglia espressione del potere. Alfieri riteneva bensì che i tiranni esistono perché la maggior parte degli uomini (la “plebe”) è contenta di vivere in condizioni di schiavitù e appoggia colpevolmente la tirannide; d’altra parte si comporta similmente anche quella che Alfieri definiva la “sesquiplebe”, ovvero la classe media, i borghesi, i quali, tutti compresi nella difesa dei propri affari e dei propri interessi (“il mercato obeso”), sono sempre pronti ad affidarsi al tiranno che dà loro maggiori garanzie diventandone ugualmente schiavi, al pari della plebe.

In tale visione del mondo politico, il ruolo dell’artista è fondamentale e riassume le caratteristiche che la tradizione classica ci ha restituito come “eroiche”: l’artista deve essere pronto ad uccidere il tiranno e, non potendolo fare, ad uccidere se stesso. Evidenti gli elementi definiti di “protoromanticismo” in questo rapporto tra il potere e la cultura. Resta da specificare comunque che Alfieri, in politica, ebbe chiari i lineamenti della sua “pars destruens” (cosa bisogna fare, e perché, per abbattere la tirannide) ma si rivelava estremamente fumoso e approssimativo nella sua “pars costruens”. Ovvero: abbattuta la tirannide, che si fa? Ecco, egli non esprime mai un’idea precisa in proposito. Non parla di democrazia, né di popolo, si dimostra disgustato dal governo rivoluzionario francese alla caduta della monarchia, insomma non traccia linee programmatiche per la riorganizzazione delle dinamiche sociali e civili a seguito dell’abbattimento della tirannide. Questo perché il suo è un discorso fondamentalmente artistico; anche la tirannide di cui parla, nonostante, soprattutto nelle tragedie, si rifaccia ad esempi concreti della storia (bliblica, greca, romana,  longobarda, medicea), sembra sempre più un simbolo valido per lo scandaglio interiore ed esistenziale del poeta che non una presa di posizione lucida, quale poteva essere quella dei filosofi illuministi (dei quali Alfieri non sposa in assoluto alcuna teoria).

Anche nei trattati principali, in cui questa sua esigenza di libertà si fa pressante e viene definita in qualche maniera teorica, restano molto vaghi sulle alternative al potere che schiaccia la libertà: in Della tirannide, trattato del 1770, dimostra quanto siano dannosi i regimi assoluti; nel Del Principe e delle lettere, del 1786, esalta l’ufficio dello scrittore in particolare, e dell’artista in generale, che dovrebbe rifiutare ogni protezione principesca per conservare gelosamente la propria indipendenza. Alfieri è fermamente e fieramente avverso al “mecenatismo”. In questo possiamo dire che spalanca una finestra completamente nuova e, nonostante i limiti della sua produzione e della sua visione artistico-politica, davvero salutare sul panorama della letteratura italiana. Non dimentichiamo infatti quanto ancora fosse presente la tendenza secolare della letteratura di corte in Italia e che anche durante l’Illuminismo aveva dato i suoi frutti (scadenti) presso sovrani riformisti ed illuminati, pur attenti ai dettami della nuova filosofia. Ebbene, Alfieri non faceva alcuna distinzione: per lui il potere era potere e basta e andava combattuto dai poeti anche quando si presentava nelle forme più accomodanti, ammalianti, paternalistiche o concilianti, aperte e progressiste.

Infatti Alfieri, dopo aver letto un testo encomiastico che Plinio aveva dedicato all’imperatore Traiano ed essersene indignato, scrive il Panegirico di Plinio a Traiano facendo parlare lo storico ed intellettuale latino come, secondo lui, avrebbe dovuto, cioè consigliando all’imperatore di ristabilire le libertà repubblicane, non esaltandone l’operato (come lo scrittore lombardo del I secolo fece) di sovrano assoluto.