LE CANZONI

LE CANZONI

LEOPARDI


Presa coscienza del nulla e abbandonate le “favole antiche”, la poesia di Leopardi nasce sotto il segno della precarietà. Essa si sviluppa attorno a due registri distinti, ma non per questo incomunicanti, tematici e stilistici: quello delle nove canzoni (divenute poi dieci nel 1824, con l’aggiunta di Alla sua Donna) e dei cinque idilli. Assieme, i quindici componimenti costituiranno quelli che saranno poi due dei nuclei contenuti nel libro definitivo dei Canti. È Leopardi stesso a definire le sue canzoni “dieci stravaganze”, per la particolarità stilistica e tematica che le caratterizza: infatti, nessuna di esse è amorosa, o adotta lo stile petrarchesco o arcadico tanto in voga al tempo. Ma la caratteristica più interessante è quella tematica: con sorpresa del lettore, il contenuto di queste canzoni non corrisponde quasi mai a quello che potrebbe sembrare introdotto dal titolo. Le prime cinque canzoni sono mosse dal proposito di comporre una poesia come “magistero civile”, ma anche da quell’ansia di grandi ed eroiche azioni propria del Leopardi giovanile. Esse sono: All’ItaliaSopra il monumento di DanteAd Angelo MaiNelle nozze della sorella PaolinaA un vincitore nel pallone

All’Italia Sopra il monumento di Dante affrontano la tematica patriottica, proponendo un confronto tra il passato glorioso degli antichi e il presente umiliato dall’asservimento e dalla viltà. Lo slancio eroico è mosso da un soggetto incapace all’azione (il poeta stesso) che si rivolge ad un oggetto, la patria, che però, per la sua corruzione, non esiste più. L’attenzione si volge allora verso i “suoi figlioli”, gli “itali prodi”, che tuttavia sono costretti a combattere in guerra non per la “moribonda Italia”, ma per i tiranni che la governano (Napoleone). Anche Ad Angelo Mai è inizialmente impostata come un’esortazione alla riscossa, ma la situazione particolare di decadenza dell’Italia si allarga al contesto generale dell’intera umanità che, perdendo le illusioni di un primitivo e felice “stato naturale”, è sprofondata nel dolore di un mondo governato dalla cognizione del vero. Si delinea così quel pessimismo storico proprio della prima fase di pensiero dell’autore, secondo il quale l’infelicità sarebbe causata dal progressivo distaccarsi degli uomini da quella natura che li nutriva di illusioni per distoglierli dalla percezione del loro dolore. Il cammino dell’individuo nel corso della storia ha infatti favorito lo sviluppo della ragione, che a sua volta ha spento le illusioni. È un tema che trova conferma anche Nelle nozze della sorella Paolina e in A un vincitore nel pallone: la prima propone come rimedio al dolore l’esaltazione della virtù stoica; la seconda, invece, proclama il valore dell’agonismo e del rischio per ridare vitalità ad un’esistenza svuotata di significato. 

La constatazione finale di A un vincitore segna poi il passaggio alle due allegorie dell’infelicità umana: il Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo. Il primo distrugge quel mito della virtù precedentemente menzionato ed il suo protagonista, Bruto, si erge titanicamente contro le divinità suicidandosi (il suicidio eroico è un tema tipicamente romantico).  Anche Saffo si suicida, ma il suo gesto non ha in sé alcuno slancio titanico, anzi le sue note sono alquanto dolenti. L’Ultimo canto di Saffo cade cronologicamente tra la composizione di Alla Primavera e dell’Inno ai Patriarchi e tale posizione conserverà sino alla pubblicazione dell’edizione bolognese delle Canzoni datata 1824. Ma già dall’edizione Piatti del 1831, l’ordinamento risulta diverso: Saffo venne spostata dopo i Patriarchi, non solo perché quest’ultimo, assieme Alla Primavera, costituiva un dittico tematico, ma anche perché l’Ultimo canto chiudeva in modo significativo il ciclo delle canzoni per introdurre ufficialmente quello degli idilli. Se stilisticamente in esso permane la struttura complessa composta da lunghe subordinate e da un linguaggio elevato con frequenti metafore, proprie delle canzoni, certi aspetti tematici anticipano quelli che saranno poi caratteristici degli idilli (come, ad esempio, il notturno lunare che fa da sfondo alla narrazione). 

Il dittico Primavera-Patriarchi svolge un duplice congedo: il primo, come si è già visto, dalle “favole antiche”; il secondo dalla mitologia. In Alla Primavera Leopardi ripercorre il cammino dell’umanità dal tempo delle illusioni sino alla realtà del vero: l’uomo moderno è dominato da quest’ultimo, ma in primavera il suo animo torna a vibrare all’unisono con la natura, vagheggiando e sospirando quelle “favole antiche” che un tempo lo consolavano. Ma tale vagheggiamento permane privo di illusioni ed è coperto dall’ombra oscura del nulla.  L’Inno ai Patriarchi, invece, tratta il tema della nostalgia del primitivo e rievoca così il mito rousseauiano dell’allontanamento dell’uomo dal suo stato di natura: l’argomento consente a Leopardi di introdurre un confronto tra il mondo dei patriarchi e quello degli indigeni della California, felici nella loro ingenuità primitiva minacciata però dalle vicende della colonizzazione europea. Importante è sottolineare come nell’Ultimo canto di Saffo tramonti il concetto di natura materna: ad esso si oppone l’idea di una matrigna causa stessa dell’infelicità umana, che non sarebbe quindi più dovuta dall’allontanamento dell’individuo dalla sua realtà primitiva. 

Ricapitolando, per concludere, le Canzoni sono dieci e sono: Alla sua Donna, All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, Bruto minore, Alla Primavera, Inno ai Patriarchi, Ultimo canto di Saffo.