LE BUCOLICHE DI VIRGILIO

LE BUCOLICHE DI VIRGILIO

LE BUCOLICHE DI VIRGILIO


Le “Bucoliche” [42-39 a.C., composte in parte a Mantova e in parte a Roma]. [trad.it] *Le “Bucoliche” [dal gr. “boukolos” = pastore] costituiscono forse una scelta (da cui il titolo posteriore, sempre dal greco, di “Ecloghe” = “poesie scelte”) giudicata definitiva di 10 componimenti in esametri, d’ispirazione alessandrina, di cui alcuni sono lirico-narrativi, altri in forma dialogica, distribuiti non nella successione cronologica della loro stesura, ma con un ordine d’intento letterario (numerosi sono infatti i rimandi, i parallelismi, le simmetrie).

Questo il contenuto:

Ecloga I: d’intonazione forse autobiografica. Il dialogo tra i due pastori Titiro (V.?) e Melibeo avviene nella cornice della campagna mantovana. Melibeo è triste perché ha perduto i suoi beni; Titiro è invece sereno, perché un giovane a Roma (Ottaviano?) gli ha concesso la libertà personale e il possesso della sua terra.

Ecloga II: è il lamentevole soliloquio di Coridone innamorato di Alessi.

Ecloga III: Da meta e Menalca si sfidano in una gara d’abilità nel canto.

Ecloga IV: è del tutto singolare e non ha nulla di bucolico. Scritta nel 40, quasi profetizza la palingenesi del mondo e il ritorno all’ “età dell’oro”, che inizierà con la nascita di un bambino, sotto il consolato di A. Pollione (e ricordiamo, tra le altre, la strumentalizzazione ideologica che di questi passi ha fatto il Cristianesimo, ritenendo addirittura d’individuare in V. il profeta dell’avvento messianico).

Ecloga V: due pastori, il cantore Menalca e il suonatore di zampogna Mopso, uno dopo l’altro, cantano in onore di Dafni, ucciso crudelmente. Mopso ne canta la morte, l’altro l’apoteosi.

Ecloga VI: è trattata l’origine del mondo secondo la dottrina di Epicureo. Il cantore è il vecchio Sileno che due giovani hanno sorpreso ubriaco e hanno legato.

Ecloga VII: Melibeo, trattenuto da Dafni, assiste ad una gara poetica tra Coridone e Tirsi.

Ecloga VIII: presenta il canto mattutino di due pastori, ed è imitata quasi interamente da un modello di Teocrito. E’ dedicata a Pollione, che ritorna vittorioso dalla Dalmazia.

Ecloga IX: d’intonazione forse autobiografica. Menalca (V.?) è stato cacciato dai suoi beni e anulla sono valsi, né varranno, i suoi canti.

Ecloga X: è dedicata a C. Gallo, confortato perché l’infedele Licoride l’ha lasciato.

L’egloga VI si apre con questa importante dichiarazione: “Prima Syracosio dignata est ludere versu – nostra neque erubuit silvas habitare Thalia” (“Per prima, la mia Talia stimò cosa degna poetare in verso siracusano, né arrossì di abitare le selve”). Con essa, V. rivendicava il merito di aver trattato per primo un genere che la letteratura latina non aveva ancora. In secondo luogo, avvertiva che tale genere era da considerarsi fra i minori: Talia è propriamente la musa della commedia, cioè della forma più dimessa della poesia drammatica, il verbo “ludere” indica un comporre quasi per divertimento, i boschi sono i luoghi più naturali ed incolti. Infine, riconosceva che era stato suo modello il poeta greco Teocrito (III a.C.). Tuttavia, V. lo rifonde in una trama di rapporti talmente complessa che la nuova opera sta alla pari col modello.


I temi riconducono ad un ambiente pastorale, che manca tuttavia di ogni connotazione realistica (nonostante siano vividi i riferimenti ed i ricordi della “bucolica” fanciullezza del poeta), e appare come un’elaborata e stilizzata costruzione: a cantare sono gli stessi personaggi, pastori, mandriani, butteri: Titiro, Melibeo, Mopso, Meri, Menalca… Essi non hanno un’individualità propria, ma (siano innamorati o delusi, vecchi o giovani, entusiasti o malinconici) ci appaiono un poco tutti, come osservò l’Ussani, “Virgili personati”, perché in tutti ritroviamo la sua delicata sensibilità, la sua “verecundia”, il suo amore per la vita serena e tranquilla, soprattutto quella naturale avversione ad ogni forma di violenza, che era stata acuita dai tumulti delle guerre civili, e che aveva trovato una sua forma filosofica proprio nell’atarassia epicurea: non è un caso, così, che V. non parli mai dell’attività dei pastori o delle loro fatiche, ma dei loro “otia” o dei loro “amores”.

Eppure, da un’iniziale imitazione di Teocrito abbastanza aderente all’originale, il poeta man mano allo sfondo aggiunge il senso del suo tempo e l’ansia del suo sentimento e del suo cuore, con sfumature tutte personali di dolcezza e di nostalgia. Così, sullo sfondo, si intuisce tutto un complesso di allegorie e di significati riposti, che ripetute volte si è tentato di penetrare, probabilmente invano. Non è forse Cesare il Daphnis di cui la V Egloga canta la divinizzazione? E’ verosimile, ma in nessun modo dimostrabile. E il Sileno della VI, che fa pensare a Lucrezio, ma anche ad altri poeti contemporanei, e persino a Sirone, l’amato maestro, chi nasconde sotto il suo travestimento? Un personaggio definito oppure un aspetto, un volto della poesia?

Ma forse, gli avvenimenti e i personaggi non devono essere considerati, fino in fondo, allegorie di fatti storici e/o autobiografici e di persone reali, bensì piuttosto simboli della condizione umana in essi rappresentata: la tensione poetica deriva, infatti, dallo scontro fra l’arcadica perfezione di quel mondo e la realtà effettiva, che in vari modi – e spesso gratuitamente – tenta d’insidiarlo, dandosi essa sotto il dolore e gli sconvolgimenti provocati dall’esilio, dalla morte, dalla passione.

*La raccolta fu pubblicata quasi certamente negli ultimi mesi dell’anno 39, momento in cui tutto sembrava sorridere ai triumviri, dopo la firma della pace con Sesto Pompeo che aveva fino ad allora affamato Roma con le sue flotte. Le “Bucoliche” respirano perciò, in genere, un’atmosfera serena, e rendono omaggio a quel “giovane dio”, simile all’Apollo onorato dai pastori, nel quale è facile (stavolta) riconoscere lo stesso Ottaviano.