LE ARGONAUTICHE DI APOLLONIO RODIO
Della vita del grande autore Apollonio Rodio abbiamo oggi poche informazioni, tratte dal famoso lessico bizantino “Suda” (X secolo d.C.). Apollonio nacque ad Alessandria d’Egitto, la capitale culturale del mondo ellenistico, intorno al 295 a.C. e fu educatore del futuro sovrano Tolomeo III Evergete; sollevato per ignote ragioni intorno al 250 a.C. dai suoi incarichi bibliotecario-letterari ad Alessandria (si dice per sopraggiunte inimicizie con la moglie di Tolomeo Evergete, nonché con il suo più famoso compagno di studi, lo storico Eratostene, e/o con il loro maestro Callimaco) si trasferì a Rodi, l’altra capitale culturale ellenistica: per questo già gli antichi gli diedero il soprannome ‘Rodio’. Morì anziano, intorno al 215 a.C., forse di nuovo nella sua Alessandria, ma più probabilmente nell’adottiva Rodi.
C’è incertezza anche sui rapporti che il nostro intrattenne con il grande poeta suo maestro, Callimaco: una tesi sostiene che Apollonio fosse un seguace della poetica callimachea e, in effetti, anche se scrissero componimenti diversi, il loro stile è similare; un’altra teoria sostiene, invece, che tra i due sia avvenuta una contesa letteraria, soprattutto perché Callimaco vedeva il poema epico come morto e sepolto, al contrario di Apollonio, che voleva ridargli slancio, rinnovandolo; i passi che però documenterebbero inequivocabilmente questa teoria non ci sono rimasti in forma diretta o sono sospetti di essere spuri.
Apollonio Rodio produsse, tra le altre, varie opere erudite sulle fondazioni delle città, un argomento molto in voga all’epoca. Scrisse inoltre un poemetto in coliambi (complessa forma metrica), il “Canopo”, che racconta il mito di Canopo, timoniere di Menelao. Di queste opere non ci restano però che pochissimi frammenti.
LE ARGONAUTICHE E L’EPICA DI APOLLONIO
L’opera di gran lunga più importante di Apollonio sono “Le Argonautiche”, giunteci probabilmente nella loro seconda edizione (della supposta prima si hanno pochissimi richiami), databile intorno al 245 a.C. Si tratta dell’unico poema epico greco pervenutoci per intero dopo quelli omerici.
L’epica di Apollonio, però, è qualitativamente molto diversa da quella omerica; essa segue infatti i canoni aristotelici della completezza della vicenda narrata, dell’unicità dell’argomento trattato e, soprattutto, della brevitas (criterio che impone che un’opera sia abbracciabile da mente umana, ovvero sia lunga circa 6000 versi, come una tetralogia tragica). “Le Argonautiche” si compongono di ‘soli’ 5836 versi, distribuiti su appena 4 libri, (per capirci, stiamo parlando di una lunghezza in versi pari a circa un terzo dell’Iliade e alla metà dell’Odissea). Detto questo il modello del poeta di Rodi resta Omero per quanto riguarda lo stile linguistico, che ripropone molti hapax (termini caratteristici usati una sola volta in un’opera) del mitico poeta greco, pur evitando i numerosi epiteti e i versi ripetuti caratteristici dell’opera omerica. Lo stesso discorso vale per la scelta dei temi, di carattere mitico.
Tenendo pur valida questa premessa è importante avere un occhio di riguardo per il periodo storico greco in cui si inserisce Apollonio Rodio: è l’epoca che viene ricordata come ‘Ellenismo’, la Grecia post-classica del III secolo a.C., un’epoca che si nutre linguisticamente e culturalmente di virtuosismo, di bozzetti realistici e patetici, di frammentazione allusiva e di variazioni che rompono la continuità linguistico-narrativa. In questo senso Apollonio è davvero un autore della sua epoca, che è influenzato da essa e che la plasma con la sua opera. “Le Argonautiche”, infatti, aggiungono alla loro veste epica-omerica tutti gli elementi citati; si compongono anche di tratti tipici di altri generi, come le opere erudite e la tragedia euripidea, in un riuscito mix letterario che ha nei continui interventi dell’io-narrante la sua ennesima sfumatura pionieristica.
Lo stile di Apollonio lascia trasparire un carattere sussultorio nella narrazione che trasmette al contempo vicinanza ed estraneità rispetto alla vicenda raccontata, fatta di scene finite e solo abbozzate in sequenza, di sottintesi e, ulteriore novità, di momenti di introspezione psicologica dei personaggi, che inframmezzano la tradizionale narrazione continua ed estesa di tipo omerico. Tutti questi elementi di analisi ci fanno capire la ragione per cui “Le Argonautiche” sono ricordate come il ‘poema del frammento’.
“Le Argonautiche” segnano anche il passaggio da un’etica fondata sulla vergogna, tipica di un’epica di eroi guerrieri valorosi, ad un mondo più complesso, fondato sulla ragione, su sentimenti come l’amore e sui valori civili della quotidianità, vale a dire ad un’epica meno vitale ma più reale, fondata di contro su una più moderna etica della colpa e del rimorso. “Le Argonautiche” sono, insomma, un’opera estremamente complessa ed innovatrice del genere epico per toni, stile e piani narrativi.
Il lavoro di Apollonio tentò di ridare slancio ad un genere ormai agonizzante come il poema epico tradizionale, ma con delle variazioni, pensate per la lettura privata di un pubblico ristretto e culturalmente d’élite, molto diverso da quello vasto di Omero e dei rapsodi.
“Le Argonautiche”, perfette per il raffinato gusto del pubblico ellenistico, conobbero uno straordinario successo nell’antichità e influenzarono anche il più grande autore di poemi epici nel mondo latino, Virgilio.
LA TRAMA DELL’OPERA
Come detto il poema di Apollonio è di impianto tradizionale-omerico in quanto si struttura su un’antica saga mitica, narrata in molte varianti da altri autori prima e dopo Apollonio. Ma lo stesso mito, di ispirazione omerica, cambia veste e, da visione complessiva dell’esistenza, diventa semplice spunto narrativo per un’opera d’arte autonoma da esso.
Il mito in questione è la saga di Medea e Giasone, (per la cronaca la pronuncia corretta è Giàsone) della quale ricordiamo le versioni di Euripide, Valerio Flacco e Seneca come quelle più note. La Medea di Apollonio, però, si distingue da tutte le altre perché è una Medea molto più giovane rispetto alle varianti alternative del mito; anche per questo appare insolitamente complessa, erotica ed inquieta. Un’ulteriore peculiarità dell’opera di Apollonio è che molti personaggi, Giasone più che ogni altro, appaiono statici, privi di quella ferocia vitale che contraddistingueva il mondo omerico, tesi all’isolamento più che all’auto-affermazione, bloccati, caratterizzati dal vuoto perfino nelle ambizioni di gloria personale. Medea vive una ricchissima vicenda interiore ma si astiene dall’azione furiosa che normalmente la distingue nei miti a lei dedicati, mentre Giasone è privato addirittura di qualunque qualità legata al suo coraggio, alle sue sfide al destino; ha addirittura alcuni tratti dell’anti-eroe omerico.
La narrazione, che viene introdotta da un’invocazione di Giasone ad Apollo, comincia da un antefatto: Pelia ha usurpato il regno di Iolco al fratellastro Esone, padre di Giasone, che reclama il trono. Giasone, su indicazione dell’usurpatore Pelia, che vuole sbarazzarsi del pericoloso nipote, parte per la Colchide (regione dell’Asia minore) sulla sua nave Argo (da qui il titolo dell’opera) per recuperare il vello d’oro come lasciapassare per il regno. Giasone salpa da Pegase insieme ai suoi compagni di viaggio, gli Argonauti. Di qui in poi si susseguiranno un’infinità di avventure, le ‘Argonautiche’ appunto, per i protagonisti in viaggio nei mari, tra ciclopi ed eroi, donne, arpie ed amici incontrati nel percorso, in una sequenza di scene finite e bozzetti virtuosistici carichi di mistero, anche estranei alla narrazione (ad esempio vediamo Eros bambino che sconfigge a dadi il piccolo portatore di vino di Zeus, Ganimede, barando), una narrazione che, seppur continua, risulta a tratti frammentata ed enigmatica. Questi episodi diedero ad Apollonio l’opportunità di mostrare la sua enorme cultura, soprattutto per quanto riguarda i miti e la geografia.
Arriviamo così al III libro che inizia con un’invocazione alla musa Erato perché racconti come Giasone poté conquistare in Colchide il vello d’oro grazie all’amore di Medea (già solo da questo salto si evince la complessità dell’opera). La scena, nel racconto di Erato, si sposta sull’Olimpo dove Afrodite, spronata da Era ed Atena, ordina a suo figlio Eros di colpire con una freccia Medea per farla innamorare di Giasone. Da questo intervento degli dei, attivi nella vicenda sul modello di quelli omerici, iniziano i tormenti interiori di Medea, combattuta tra l’amore che prova per Giasone e la fedeltà verso suo padre, il re Eeta di Colchide. Il sovrano ha subordinato il possesso del vello d’oro per Giasone a delle prove terribili: il giovane deve aggiogare due tori spiranti fuoco, arare un campo dove piantare in seguito dei denti di serpente da cui nasceranno spaventosi guerrieri che dovrà poi sconfiggere. Questa impresa sarà compiuta da Giasone solo grazie ad un filtro magico procuratogli proprio da Medea.
Siamo al IV libro: Medea, Giasone e gli Argonauti fuggono. Giasone sposa Medea per ricompensarla del suo aiuto; seguono altre avventure in scene finite.
L’opera termina com’era iniziata, con un’invocazione di Giasone ad Apollo, mentre gli Argonauti rientrano a Pegase. Tutte le vicende del tradimento di Medea da parte di Giasone, oggetto delle altre versioni del mito, sono omesse. Tutti gli avvenimenti successivi per la conquista del trono di Iolco sono lasciati sottintesi come molte parti delle avventure degli Argonauti.
L’opera, insomma, resta in molti tratti misteriosa e difficile da cogliere sino in fondo. Ma è anche questo che la rende così originale ed unica nel meraviglioso panorama della letteratura greca.
BIBLIOGRAFIA
-Guidorizzi, Giulio, Il mondo letterario greco, Milano, Einaudi, 2000.