LAVORARE STANCA CESARE PAVESE

LAVORARE STANCA CESARE PAVESE

LAVORARE STANCA CESARE PAVESE


Lavorare stanca è una raccolta di poesie dello scrittore Cesare Pavese pubblicata nel 1936.


Il suo primo libro – da lui stesso così considerato – fu Lavorare stanca (Firenze 1936; edizione definitiva, 1943), una raccolta di poesie che denotano nell’autore il riallacciarsi ad un ambito regionale, crepuscolare (accentuato in direzione popolaresca, dialettale in confronto con il parlato borghese crepuscolare). Così spiega Cesare Pavese: “… Contro il sospetto che il mio sia un piedmontese revival, sta la buona volontà di credere a un possibile allargamento dei valori piemontesi. La giustificazione? Questa: non è letteratura dialettale la mia – tanto lottai d’istinto e di ragione contro il dialettismo -; non vuole essere bozzettistica – e pagai d’esperienza – cerca di nutrirsi di tutto il miglior succo nazionale e tradizionale; tenta di tenere gli occhi aperti su tutto il mondo ed è stata particolarmente sensibile ai tentativi e ai risultati nord americani, dove mi parve di scoprire un tempo un analogo travaglio di formazione. O forse il fatto che ora non mi interessa più la cultura americana, significa che ho esaurito questo punto di vista piemontese? Credo di sì; almeno, il punto di vista come l’ho ottenuto finora.”.1 Questi valori piemontesi sono ben evidenziati in tutte le sue opere. Per fare un esempio, la poetica di Lavorare stanca è di una sconvolgente novità rispetto agli ultimi modelli della tradizione ottocentesca, libera da ogni provincialismo. 
… “Camminammo più di mezzora. La vetta è vicina, sempre aumenta d’intorno il frusciare e il fischiare del vento. Mio cugino si ferma ad un tratto e si volge: “Quest’anno scrivo sul manifesto: – Santo Stefano è sempre stato il primo nelle feste della valle del Belbo – e che la dicano quei di Canelli.”. Poi riprende l’erta. Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio, qualche lume in distanza: cascine, automobili che si sentono appena; e io penso alla forza che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare, alle terre lontane, al silenzio che dura. Mio cugino non parla dei viaggi compiuti. Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro e pensa ai suoi motori.” … “Ma quando gli dico Ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora nelle isole più belle della terra, al ricordo sorride e risponde che il sole si levava che il giorno era vecchio per loro.”.2
Qui, viene accentuata in modo particolare la direzione popolaresca presa da Pavese, soprattutto nei versi 3/7 in cui rende pesantemente il suo campanilismo paesano e le sempre più presenti rivalità fra paese e paese. Il segno crepuscolare lo si nota subito dopo i sopraddetti versi: quel ritornare con la mente al paese dal quale egli è lontano – a causa del confino – lo rende malinconico e questo sarà l’inizio dello stile dello scrittore piemontese che fa riscontrare spesso nelle sue poesie e nei suoi romanzi quest’onda di malinconia. A mio parere una delle più belle poesie di Pavese, forse la più profonda per maturità e serietà di ogni singola parola, maliziosamente inserita al posto giusto è sicuramente Esterno: 
“Quel ragazzo scomparso al mattino non torna. Ha lasciato la pala ancor fredda, all’uncino – era l’alba – nessuno ha voluto seguirlo: si è buttato su certe colline. Un ragazzo dell’età che comincia a staccare bestemmie non sa fare discorsi. Nessuno ha voluto seguirlo. Era un’alba bruciata di febbraio, ogni tronco colore del sangue aggrumato. Nessuno sentiva nell’aria il tepore più duro. Il mattino è trascorso e la fabbrica libera ogni operaio. Nel bel sole qualcuno – il lavoro riprende fra mezz’ora – si stende a mangiare affamato. Ma c’è un umido dolce che morde nel sangue e alla terra dà brividi verdi. Si fuma e si vede che il cielo è sereno e lontano le colline son viola. Varrebbe la pena di restarsene lunghi per terra nel sole. Ma buon conto si mangia. Chissà se ha mangiato quel ragazzo testardo? Dice un secco operaio, che, va bene, la schiena si rompe al lavoro, ma mangiare si mangia. Si fuma persino. L’uomo è come una bestia, che vorrebbe far niente. Son le bestie che sentono il tempo, e il ragazzo l’ha sentito all’alba. E ci sono dei cani che finiscono marci in un fosso. La terra prende tutto. Chi sa se il ragazzo finisce dentro un fosso affamato? E’ scappato nell’alba senza fare discorsi, con quattro bestemmie, alto il naso nell’aria. Ci pensano tutti aspettando il lavoro, come un gregge svogliato.”.3 
Un ragazzo dunque, un giovane operaio di una fabbrica da cui fugge in una fredda mattina di febbraio. Fugge perché nell’aria ha sentito qualcosa che nessun altro poteva sentire ed è corso a sdraiarsi sulle colline. Aveva sentito l’arrivo della primavera. “Nessuno voleva seguirlo.”. Gli ultimi versi di questa poesia, fan capire che i compagni della fabbrica, nonostante le parole dure, sentono che quel ragazzo ha fatto qualcosa che non sarà facilmente accantonabile; ora avvertono dentro una pena nuova, un sentimento inquieto che non conoscevano. Anche in questa poesia, come nella precedente, Pavese tiene ben evidenziato il titolo della raccolta originale, appunto Lavorare stanca, in quanto nella prima poesia, I mari del sud, vi è un sordo lamento, quasi una eco lontana che narra la tristezza e la depressione nel vedere il sole sorgere all’alba quando il lavoro è già iniziato da tempo e, nella seconda poesia, Esterno, con tono pesante, ma finemente sarcastico, facendo notare che il lavoro in fabbrica rompe sì la schiena, ma permette di mangiare e “addirittura” di fumare. Due tipi di stanchezza dunque: una di tipo fisico, accentuata maggiormente; l’altra una fatica mentale, l’arrugginirsi dei sentimenti verso la natura ed una rassegnazione alla propria condizione attuale, di stampo quasi leopardiano: “… e il naufragar m’è dolce in questo mar.”.