LA TEORIA DEL PIACERE LEOPARDI

LA TEORIA DEL PIACERE LEOPARDI

La teoria del piacere è il cuore pulsante della filosofia leopardiana.

Nelle pagine 165-166 dello “Zibaldone” gli appunti datati dal 12 al 20 luglio 1820 ci spiegano la poesia sentimentale che è alla base della composizione dell’infinito (questi appunti sono successivi alla composizione dell’idillio, del 1819, non precedenti):

«Il sentimento della nullità di tutte le cose, l’insufficienza di tutti piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale: l’anima umana […] desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, al piacere, ossia alla felicità […]. Questo desiderio e questa tendenza, non ha limiti perch’è ingenito o congenito con l’esistenza […] ma solamente termina colla vita. […] Indipendentemente dal desiderio di piacere esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, ovvero le cose come non sono […]».

Fece riferimento a elementi fondamentali della teoria sensistica. Disse Leopardi: «Noi aneliamo infinitamente al piacere, che è felicità». L’autore fece delle due cose uno stesso concetto, nonostante fosse perfettamente consapevole della distinzione fra i due, li identificò da buon sensista perché volle considerare la cosa da un punto di vista prettamente materialistico.

Uno dei capi saldi dell’illuminismo, uno dei principi che governavano le legislazioni del movimento, era il nostro anelito alla felicità, a quella stessa felicità che in realtà è infinita e quindi inappagabile. Il piacere è una felicità assoluta che proprio in quanto tale non è conseguibile: l’anelito a esso non è il desiderio di piaceri piccoli, singoli, atomizzati; è una pulsione profonda dell’animo, la regola prima scritta nella nostra psiche.

La nostra struttura psico-fisica è improntata all’anelito al piacere, un bisogno ingenito e congenito nell’uomo: siamo caratterizzati dalla ricerca del piacere, che non può essere realizzato perché assoluto, che tende quindi a qualcosa di sempre più grande. Vivo perché desidero, quando il mio desiderio cessa io non sono più vivo. La struttura della nostra psiche è un desiderio che si rinnova sempre per amor proprio: ogni vivente si ama, l’amor proprio è il misuratore dell’eccellenza vitale; più mi amo, più cerco il piacere, più desidero e quindi più sono infelice.

Leopardi si chiese perché l’uomo avesse in sé l’anelito all’infinito. La risposta va calata nell’Ottocento spiritualista cattolico: per il cristiano in Dio si estinguevano i desideri, in quanto il desiderio, essendo infinito, veniva appagato da Dio che è l’infinito per eccellenza. Per Leopardi però non abbiamo desiderio di infinito, ma infinito desiderio, e siccome questo desiderio è infinito, non può che terminare con la morte. L’uomo, perciò, non può essere felice, desidera senza alcuna speranza.

Leopardi fu fuori da qualsiasi prospettiva trascendentale: i piccoli piaceri sono insufficienti a riempirci l’animo e perciò non possiamo conseguire il Piacere, rimaniamo sempre insoddisfatti. Siamo squilibrati verso il futuro, mai soddisfatti di quel che si ha.

Leopardi si chiese di chi fosse la colpa della nostra infelicità: all’inizio la attribuì all’uomo, poi alla natura; questa non fu una contraddizione, ma uno svolgimento del suo pensiero sempre in fieri.

Secondo Manzoni il responsabile di questa eterna infelicità sarebbe il peccato originale, secondo Rousseau l’uomo, come si può chiaramente dedurre dal “Discorso sull’Origine dell’Ineguaglianza”.

L’illusione è l’amore, è la patria, è un’apparenza di Piacere, e quindi di infinito. Non esiste nulla di infinito, un oggetto in quanto tale non può essere infinito: se è infinito non è una cosa. L’illusione non è un oggetto infinito, tuttavia è un oggetto apparentemente infinito, e quindi indefinito (come il mare, che sembrerà infinito al bimbo che ci si trova davanti per la prima volta, perché non se ne vedono i limiti, ma, crescendo, la ragione gli farà capire che il mare è finito, è circoscritto), capace cioè di saturare almeno illusoriamente la pulsione verso l’infinito.

L’immaginazione può concepire le cose che non sono e le cose come non sono, ne sfuoca i confini; mentre la ragione le rivela nella loro nullità, nel loro disvalore, mettendone in evidenza i limiti. L’uomo è infelice perché ha abdicato all’immaginazione in favore della ragione, e perciò è colpa sua se è infelice. La natura benevola, sapendo che l’uomo non avrebbe potuto essere felice, gli aveva regalato l’immaginazione in modo da poter fingere il desiderato Piacere, ma l’uomo ha rifiutato questo dono.

La speculazione leopardiana derivò dalla constatazione dell’impossibilità per l’uomo moderno di raggiungere la felicità, dovuta all’elefantiasi delle capacità razionali, che hanno annullato il piacere illusorio.

Operò, dunque, una sorta di trascrizione in termini laici del concetto di peccato originale: la colpa è dell’uomo, che ha rifiutato il regalo della natura, la quale, da madre provvida, gli aveva donato l’immaginazione. Da quest’ultima scaturiscono le illusioni, che sono un surrogato di infinito e quindi le uniche capaci di soddisfare, almeno apparentemente, il nostro anelito all’infinito. Infatti, poiché tendiamo infinitamente al piacere, possiamo essere felici soltanto saturando questo anelito.

Leopardi era un classicista, e perciò ricercava l’equilibrio della mente e del cuore nell’uomo; tuttavia si era formato sulla cultura dei lumi, quindi per lui lo stato di natura era semplicemente un mito regolatore, ipotetico, al di fuori dell’interesse dell’uomo moderno perché se mai fosse esistito, certamente era irrecuperabile, e quindi non si poteva prendere in considerazione in quanto era al di fuori dell’umano; era solo un esperimento mentale.

In un ipotetico stato presociale, la natura si manifestava nell’uomo come in qualsiasi altro animale, ovvero attraverso l’amor proprio, il volersi bene dell’ente: il soggetto si amava e quindi ricercava il proprio piacere; per l’istinto di sopravvivenza era portato ad appagare i suoi bisogni vitali, in questo senso l’amor proprio è misuratore di eccellenza vitale. Su un piano etico, l’amor proprio non ha nessun valore, in quanto l’etica nasce con la vita sociale: dunque nello stato di natura l’amor proprio è vitalmente buono e moralmente indifferente.

L’animale è spinto da determinate pulsioni, una di queste è la ragione naturale, una facoltà istintiva il cui compito è quello di farlo ritrovare nell’ordine della natura e di determinare ciò che gli è utile; è una facoltà primaria di cui sono dotati tutti gli animali, una complicazione dell’istinto, ovvero il ragionamento che normalmente si trasmette alla specie ma che l’uomo modifica. In un ipotetico stato di presociale la ragione naturale e la natura non possono essere in conflitto, ma collaborano e cooperano per il bene dell’individuo. Quando gli uomini hanno capito che la loro sopravvivenza sarebbe stata più facile se si fossero coalizzati, è stata necessaria la ragione per lo sviluppo della società, in quanto la natura, seppure madre di immaginazioni, da sola non può dare uno stato sociale dal momento che l’amor proprio è egoismo.

Ci sono vari tipi di ragione, ne è un esempio quella dantesca, illuminata dalla fede cristiana; quella di cui parlava Leopardi era la raison illuminista, ovvero una facoltà naturale dell’uomo.

I romantici valorizzarono il Medioevo poiché lo ritennero l’epoca che aveva messo le basi per la civiltà moderna, in quanto fu in quel periodo che nacquero le nazioni e che i popoli nordici presero parte alla storia. L’illuminista Leopardi, invece, lo vide come il trionfo della civiltà barbara, che si differenziava da quella primitiva in quanto, mentre quest’ ultima non era ancora sviluppata, la prima era già guasta, e che sopraggiunse dopo la ‘civiltà mezzana’, ovvero la civiltà privilegiata dei classici in cui natura e ragione erano in perfetto equilibrio fra loro.

In epoca successiva, secondo Leopardi, ci furono due tentativi di ripristinare lo stato di classicità: il rinascimento e l’illuminismo. Per questo motivo, era visceralmente avverso alla restaurazione: rappresentava la fine ingloriosa del tentativo illuminista, per il quale aveva alimentato la grande speranza di poter restituire l’uomo a se stesso. Leopardi (fino al 1824) fu un antirazionalista, non un irrazionalista come i romantici; fu cioè cosciente dell’eccessivo potere della ragione.

Già da tempo, Leopardi si era reso conto che gli antichi erano superiori in quanto a capacità immaginativa; fino al 1818 aveva creduto che i moderni potessero riacquistare questa felicità ispirandosi agli antichi, apprendendo da essi la capacità di ispirarsi alla natura; nel 1819, invece, si rese conto che l’uomo era troppo corrotto dalla ragione per poter usufruire dell’immaginazione: il poeta aveva una missione sociale, non sarebbe stato responsabile da parte sua riprendere i miti degli antichi in un’età senescente. Questa svolta avvenne sulla base dell’esperienza: era stato un anno difficile, in cui Leopardi aveva perso fantasia per l’indebolimento fisico e quindi energetico.

Quella degli idilli era una poesia sentimentale, impura, mista (termine che deriva da Montesquieu), doveva cioè saldare il piano dell’immaginazione con quello del nulla, ovvero del disvalore della contemporaneità; doveva, sulla base del sensismo, saldare il piano del vero a quello dell’illusione.

Lo scopo del poeta era quello consolarci, di liberare le residue capacità fantastiche di cui eravamo ancora in possesso; doveva operare la rivincita dell’immaginazione sulla ragione: questo obiettivo venne perseguito sia nelle canzoni filosofico-civili (anche in quelle del 1818, nonostante fossero ancora poesia di immaginazione) sia negli idilli. La natura è più forte della ragione, che è un suo prodotto, perciò non può non restarci dentro un po’ di immaginazione.

La poesia filosofica di Leopardi era testimonianza responsabile del vero, ma prima di tutto una rivendicazione sensistica delle residue capacità fantastiche dell’uomo. L’anelito al piacere è una spinta profonda, ingenita e congenita nell’uomo; tuttavia non ci è possibile appagarlo nemmeno illusoriamente a causa dell’elefantiasi della ragione, determinatasi durante il corso storico, in quanto ormai essa prevale sull’immaginazione.

Quando compose gli idilli, Leopardi era ancora nella fase del pessimismo storico, in cui vedeva la natura come una madre benevola che ci aveva concesso l’immaginazione affinché si potesse raggiungere un piacere almeno illusorio, dal momento che non saremmo mai potuti essere veramente felici.

Il processo per cui il dato naturale venne scalzato da quello razionale fu il processo storico che l’umanità descrisse; in questo progressivo ottundersi delle capacità naturali a vantaggio di quelle razionali ci fu un punto di equilibrio, ovvero uno stato in cui immaginazione e ragione si equivalsero: questo fu il momento privilegiato della civiltà umana, ovvero quella classica, che Leopardi chiamò ‘civiltà mezzana’.

In conclusione, l’assunto di poetica prevedeva che la poesia non potesse che testimoniare responsabilmente (infatti il poeta era un intellettuale impegnato) lo stato delle cose.

La teoria del piacere

Illuminista convinto, ancora adolescente Leopardi rigettò definitivamente la fede cristiana e accettò la tesi materialista. E’ proprio la svolta verso il pensiero materialistico che lo porta a costruire la teoria del piacere che diventa il fondamento del suo pensiero. L’individuo desidera naturalmente la felicità che coincide con il piacere, un piacere che coinvolge l’aspetto psicologico e quello fisico. Ma a questo desiderio, per sua natura illimitato in intensità e in durata, si contrappone la constatazione che ogni piacere è destinato a finire. Dalla contrapposizione tra l’infinità del desiderio e la limitatezza del piacere, deriva lo stato di perenne scontentezza degli esseri umani. E’ il cosiddetto “pessimismo psicologico”. “Piacer figlio d’affanno” dice il poeta, nel senso che il piacere esiste solo come liberazione dal dolore e dalla paura.


LA TEORIA DEL PIACERE.

Nel 1820 Leopardi consegna allo Zibaldone la sua teoria del piacere, di derivazione sensistica, ma contaminata dalla nuova cultura romantica:

1) L’uomo sperimenta in sé un desiderio infinito di piacere, che in quanto tale è irrealizzabile per definizione;

2) quando prova piacere, si tratta di piaceri limitati e temporanei, per lo più prodotti dalla momentanea cessazione del dolore, ma che non possono appagare il desiderio illimitato di piacere;

3) la natura interviene benevola a celare o attenuare l’intima contradditorietà della natura umana, in un pietoso tentativo di celargli la verità;

4) l’età primitiva e l’infanzia sono epoche di relativa felicità dell’uomo perchè allora era capace di illudersi; il progresso storico e l’età adulta sono epoche di disillusione e infelicità.


LA POETICA DELL’INDEFINITO E DEL VAGO.

– Alla teoria del piacere si ricollega anche la più specifica poetica dell’indefinito e del vago che Leopardi comincia a elaborare in questi anni. Cardine di questa poetica è la ricerca del modo di riprodurre mediante il linguaggio quella sensazione di indefinitezza ( o di infinito) e di vaga immaginazione propria della fancioullezza.

– Particolarmente adatte allo scopo gli paioono tutte le sensazioni e percezioni indefinite e vaghe, di cui egli nello Zibaldone fornisce un ampio elenco, serbatoio di motivi e immagini realizzati poi concretamente nelle sue liriche.

– Importante è la funzione attribuita alla memoria della prima infanzia o di un passato anche solo relativamente remoto, che consente di attenuare e rendere più vaga e poetica anche l’esperienza del dolore.

– Ciò che è lontano nello spazio e nel tempo, ciò che è solo intravisto nella penombra della luce lunare, ciò che è solo immaginato e non percepito direttamente (comne nell’Infinito) sono percezioni e stati di coscienza essenzialmente poetici perchè confondono i precisi contorni delle cose, esercitando nell’uomo la facoltà poetica per eccellenza, l’immaginazione.