La Prima guerra mondiale la Grande Guerra

La Prima guerra mondiale la Grande Guerra

Cause e inizio della guerra

LE CAUSE POLITICHE


La prima guerra mondiale (1914-18) ebbe varie cause, alcune delle quali ascrivibili a situazioni presenti in Europa da molto tempo. Queste cause remote erano di carattere politico, economico, militare e socioculturale. Le cause politiche riguardavano non solo i contrasti fra gli Stati europei, ma anche alcuni problemi presenti al loro interno, e precisamente:

il desiderio di rivincita (la revanche) dei Francesi riguardo alla grave sconfitta subita dai Tedeschi nella guerra del 1870-71, con la conseguente rivendicazione dei territori dell’Alsazia e della Lorena;

la secolare rivalità fra Austria e Russia per il predominio nell’area dei Balcani: dopo le guerre balcaniche (l’ultima nel

1912-13) l’Impero Turco-ottomano aveva perso quasi tutti i territori balcanici, l’Austria-Ungheria si era annessa la Bosnia, si erano costituiti come Stati indipendenti la Bulgaria, la Romania, il Montenegro, l’Albania e la Serbia, la quale aspirava a unire in un grande Stato “pan-serbo” tutti i popoli slavi della penisola balcanica, i cosiddetti slavi del sud o “jugoslavi” (un progetto di unificazione nazionale simile a quello attuato in Italia dal regno di Sardegna e in Germania dal regno di Prussia), e ciò comportava inevitabilmente contrasti con l’impero austro-ungarico, che dominava alcuni di questi popoli e che a sua volta aspirava a espandersi nella penisola balcanica. La Russia era alleata della Serbia e ne sosteneva le aspirazioni nazionali (in nome del pan-slavismo e della comune appartenenza al cristianesimo ortodosso); la Turchia, da sempre nemica della Russia, si era pertanto avvicinata all’Austria.

L’aspirazione all’indipendenza delle varie nazionalità presenti all’interno dell’Impero austro-ungarico e in particolare degli Slavi (Boemi e Moravi, Sloveni, Croati, Bosniaci) e degli Italiani del Trentino e della Venezia Giulia;

la presenza di due schieramenti di Stati contrapposti: la Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia) e la Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia), che comportava il coinvolgimento di tutti gli Stati aderenti in caso di guerra.

LE CAUSE ECONOMICHE

 

Le principali cause economiche furono:

 

  • la rivalità economica, riguardante anche le colonie, fra la Gran Bretagna e la Germania, provocata soprattutto dalla rapida crescita industriale di quest’ultima (dopo aver superato l’Inghilterra nella produzione industriale, la Germania mirava anche a superarla nel commercio internazionale e a sottrarle mercati e zone d’influenza);
  • la necessità per tutte le potenze industriali di espandere il proprio mercato e di garantirsi il rifornimento delle materie A questo scopo avevano creato dei grandi imperi coloniali, che occorreva difendere e possibilmente espandere. Perciò nacquero motivi di conflitto là dove le zone d’influenza non erano ben definite e dove si delineava la possibilità d’incremento delle attività commerciali da parte di un altro paese.

 

LE CAUSE MILITARI

 

  • Le cause militari sono da ricercarsi nella politica militarista delle grandi potenze e nella «corsa agli armamenti» dei paesi europei più industrializzati.

 

  • Un altro fattore “militare” era la illusione della guerra breve, vale a dire la convinzione erronea, condivisa da molti governi e da molti comandi degli eserciti, che un’eventuale guerra sarebbe stata molto breve, a causa della potenza distruttiva dei nuovi armamenti.

 

  • In questa situazione fu determinante la spinta dei forti gruppi industriali, soprattutto dei proprietari delle fabbriche di materiale bellico e delle industrie pesanti in genere.

 

LE CAUSE CULTURALI

 

Sin dai primi anni del Novecento, in larghi strati della popolazione si diffusero atteggiamenti favorevoli alla guerra. La scelta dei governi di dichiarare la guerra o di entrare nel conflitto già in atto fu facilitata:

 

  • dal dilagante nazionalismo che, alimentato anche da intellettuali e stampa, esaltava la potenza militare e la necessità di affermare la propria superiorità sulle altre nazioni;

 

  • dall’applicazione del darwinismo alle relazioni internazionali, cioè dalla convinzione che la guerra tra gli Stati fosse l’equivalente della lotta per la sopravvivenza nella natura; da qui l’intendere le relazioni internazionali non in un’ottica di collaborazione, ma di concorrenza: la guerra, dunque, avrebbe deciso quali nazioni sarebbero state dominatrici e quali ai margini della Storia;

 

  • dal fatto che molti giovani, appartenenti soprattutto alla piccola e media borghesia, vedessero nella guerra l’unica possibilità di cambiamento della situazione sociale e politica, l’occasione che avrebbe consentito loro di realizzarsi;

 

  • dall‘esaltazione della guerra e della violenza ad opera di movimenti culturali, come il futurismo, secondo i quali la guerra possedeva qualità estetiche superiori a quelle della conformista pace borghese e avrebbe ripulito il mondo da una grande massa di uomini mediocri: concetto ben sintetizzato dal noto detto futurista «La guerra, sola igiene del mondo».

 

LA CAUSA OCCASIONALE

 

Nella situazione internazionale appena delineata fu sufficiente una «scintilla» per far esplodere il conflitto. E la scintilla scoccò il 28 giugno 1914, quando un nazionalista serbo, Gavrilo Princip, uccise a Sarajevo (in Bosnia) l’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie, che erano in visita alla città (allora appartenente all’Impero austro-ungarico).

 

L’attentato era stato preparato a Belgrado, capitale della Serbia, e il governo serbo, secondo gli Austriaci, non aveva fatto nulla per impedirlo. Infatti rientrava nel progetto pan-serbo la liberazione della Bosnia dall’impero austriaco. Così l’Austria approfittò del grave fatto di sangue per motivare un’aggressione militare alla Serbia e risolvere finalmente la questione balcanica.

 

Il 23 luglio l’Austria inviò alla Serbia un ultimatum1 che richiedeva entro 48 ore:

  • la soppressione delle organizzazioni irredentistiche2 slave;

 

  • il divieto di ogni forma di propaganda antiaustriaca;
  • l’apertura di un’inchiesta sull’attentato, condotta da una commissione mista serbo-austriaca.

 

Erano richieste deliberatamente umilianti. Il governo serbo le respinse (sapendo di poter contare sull’aiuto della Russia), perché accettandole avrebbe di fatto rinunciato alla piena sovranità sul proprio territorio. Di conseguenza il 28 luglio l’Austria dichiarò guerra alla Serbia.

 

LE PRIME FASI DELLA GUERRA

 

Immediatamente scattarono le clausole delle alleanze stabilite negli anni precedenti e, nel giro di appena due giorni, dal conflitto fra Austria e Serbia si passò a una guerra europea. All’ordine di mobilitazione generale dell’esercito impartito il 29 luglio dallo zar di Russia (appartenente alla Triplice Intesa), rispose la Germania (Triplice Alleanza), che dichiarò guerra alla Russia (1° agosto) e alla Francia (3 agosto), perché si dava per scontato l’intervento di quest’ultima a fianco dell’alleato russo.

 

Le truppe tedesche diedero immediatamente attuazione al «piano Schlieffen» (dal nome del generale che l’aveva ideato), predisposto da tempo per una rapida soluzione del conflitto: prevedeva un attacco fulmineo e massiccio alla Francia

 

  • Nell’ambito del diritto internazionale si intende per «ultimatum» la richiesta di uno Stato a un altro Stato di fornire una risposta a una determinata questione in un tempo stabilito, e che non ammette dilazioni. Il carattere definitivo dell’ultimatum è in genere confermato da una dichiarazione in cui lo Stato che pone la richiesta minaccia sanzioni o punizioni allo Stato che riceve la richiesta nel caso quest’ultima non venga soddisfatta.

 

  • Erano “irredente” (non redente, non salvate) le terre e le popolazioni ancora sottomesse a un dominio straniero, come quelle italiane o slave sotto il dominio austriaco; irredentisti erano coloro che si battevano per la liberazione di queste popolazioni e per il loro ricongiungimento allo Stato nazionale.


aggirandone le difese militari mediante l’attraversamento del Belgio. L’occupazione di questo paese neutrale determinò l’immediato intervento della Gran Bretagna, a fianco della Francia e della Russia contro l’Austria e la Germania (4 agosto). Fra gli aderenti ai due schieramenti (Triplice Intesa e Triplice Alleanza), solo l’Italia dichiarò la propria neutralità. Intanto, sul fronte oc-cidentale, in Francia, le vicende belliche non si svolgevano come il comando tedesco aveva previsto. Dopo una rapida e travolgente avanzata, che portò l’esercito tedesco a soli 35 chilometri da Parigi, i Francesi riuscirono a bloccare i nemici sul fiume Marna, lungo le cui rive, dal 6 al 12 settembre, si scontrarono circa due milioni di uomini. La terribile battaglia causò circa 500.000 vittime, ma nessuno dei contendenti riuscì ad avere la meglio: i due eserciti allora si trincerarono l’uno di fronte all’altro, nella Francia orientale, lungo una linea lunga circa 800 km, dal Mare del Nord alla Svizzera.

GUERRA DI POSIZIONE

 

L’uso dell’artiglieria e delle mitragliatrici rendeva inutili e cruenti i tradizionali attacchi di fanteria, mentre richiedeva efficaci sistemi di difesa. A questo scopo furono predisposte le trincee, cioè dei fossati scavati nel terreno che, col passare del tempo, furono allargati, dotati di ripari e di reticolati di filo spinato. Ormai svanita la possibilità di sconfiggere gli avversari con una 3 guerra di movimento, si era passati a una guerra di posizione.

 

Sul fronte orientale, tra la fine di agosto e gli inizi di settembre, i Tedeschi sconfissero i Russi nelle battaglie di Tannenberg (agosto 1914) e dei Laghi Masuri (settembre 1914). Ma presto si giunse anche qui a una situazione di stallo, per il sostanziale equilibrio delle forze in campo.

 

Il 31 ottobre entrava in guerra anche la Turchia, in appoggio degli Imperi centrali. Si ebbe, perciò, l’apertura dei fronti di combattimento russo-turco, in Armenia, e anglo-turco, in Medio-Oriente e in Egitto.

LE RESPONSABILITÀ DEGLI STATI

 

Dopo l’attentato di Sarajevo il conflitto era inevitabile? Probabilmente in un diverso contesto internazionale, quell’evento avrebbe avuto effetti limitati all’area balcanica o all’Europa centrale. Perché invece le grandi potenze europee non furono in grado di gestire la situazione? Le responsabilità vanno sicuramente suddivise fra tutti gli Stati coinvolti, anche se un ruolo particolare venne indubbiamente svolto dalla Germania, che per prima passò all’azione con il «piano Schlieffen». È quanto pensa per esempio lo storico tedesco Fritz Fischer, che attribuisce alla Germania una «parte decisiva» nello scoppio del conflitto: a suo parere, infatti, nella società tedesca erano presenti aspirazioni quali la costituzione di un’Europa federata sotto la guida del Reich e la creazione di un impero coloniale in Africa. Il governo tedesco avrebbe dunque colto la prima occasione per passare all’azione e tentare d’imporre con la guerra la propria egemonia sull’Europa: una svolta che l’avrebbe anche avvantaggiata nelle vicende coloniali, e che inoltre avrebbe favorito la coesione sociale e politica all’interno, frenando l’ascesa del movimento operaio.

 

Secondo lo storico Georges-Henri Soutou, invece, il governo tedesco prese le decisioni preoccupandosi esclusivamente della sicurezza nazionale. Nel 1914 in Germania s’era creata una vera e propria psicosi dell’accerchiamento, a causa dell’alleanza tra la Francia, l’Inghilterra e la Russia. Dal punto di vista strettamente militare, era la Russia l’oggetto di maggior preoccupazione per il Reich. Secondo il capo di Stato Maggiore dell’esercito tedesco, il generale von Moltke, soltanto una guerra preventiva, destinata a distruggere l’armata russa, dopo aver eliminato il pericolo francese, avrebbe potuto impedire il peggioramento della situazione. L’attentato di Sarajevo e la mobilitazione della Russia a sostegno della Serbia indusse il cancelliere, insieme con l’imperatore Guglielmo II, a decidere a favore della guerra preventiva, suggerita da Moltke.

 

Ricordiamo anche l’ interpretazione di Nikolaj Lenin (ne “L’imperialismo fase suprema del colonialismo”) il quale, ricollegandosi alle tesi di J. Hobson, vedeva nella guerra l’esito finale dell’imperialismo e del capitalismo: il capitalismo aveva generato l’imperialismo, cioè la corsa alle conquiste coloniali, all’espansione politico-militare, poi, esaurite le possibilità di conquiste fuori dall’Europa, gli Stati imperialisti erano tornati a scontrarsi direttamente in Europa.

 

  1. L’ltalia in guerra

 

L’ITALIA FRA NEUTRALITÀ E INTERVENTO

 

In occasione della dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, le forze politiche italiane e l’opinione pubblica si divisero sull’atteggiamento da tenere di fronte al conflitto. Nell’agosto del 1914, il governo presieduto da Antonio Salandra proclamò la neutralità del nostro paese appellandosi alle clausole della Triplice Alleanza, che prevedevano solo guerre difensive. In questo caso, invece, l’Austria e la Germania erano gli aggressori, non gli aggrediti. Accantonata l’ipotesi di una guerra a fianco dei due Imperi centrali, si aprì un animato dibattito sulla possibilità di un intervento contro l’Austria, che avrebbe consentito di riunire 4 all’Italia Trento e Trieste. Si formarono, così, due schieramenti contrapposti e, al tempo stesso, eterogenei al loro interno: i neutralisti e gli interventisti.

 

I NEUTRALISTI

 

La maggioranza della popolazione e la maggioranza dei parlamentari desideravano che l’Italia non partecipasse alla guerra. Fra i pareri favorevoli alla pace, spiccava quello autorevole di Giovanni Giolitti, che pensava di poter ottenere dall’Austria Trento e Trieste offrendo in cambio proprio la neutralità dell’Italia.

 

Oltre ai liberali che seguivano Giolitti, era schierata contro la guerra la maggioranza dei socialisti, infatti, coerentemente con i principi della Seconda Internazionale, i socialisti ritenevano la guerra uno scontro fra opposti interessi capitalistici, dal quale i proletari avrebbero avuto solo danni.

 

Anche la maggior parte dei cattolici rifiutava la prospettiva della guerra. Lo stesso papa Benedetto XV aveva condannato ogni tipo di conflitto e aveva invitato più volte i governi a trovare accordi per mantenere la pace. Nel luglio del 1915 il pontefice parlò di «orrenda carneficina […] che disonora l’Europa» e nel 1917, quando ormai la guerra aveva provocato milioni di vittime, la definì apertamente «un’inutile strage»

 

GLI INTERVENTISTI

 

La posizione favorevole all’intervento in guerra era sostenuta soprattutto dai nazionalisti e dagli irredentisti, i cosiddetti interventisti di destra, convinti che la violenza bellica fosse un segno di vitalità della nazione. Fra gli intellettuali che davano voce a quest’ideologia si distinsero Gabriele D’Annunzio e Giovanni Papini, che non esitò ad affermare: «Siamo troppi. C’è un troppo di qua e un troppo di là che premono. La guerra fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola».

 

Gli interventisti di destra avevano come obiettivo prioritario la liberazione di Trento e Trieste dal dominio austriaco. Con l’acquisizione delle terre irredente si sarebbe accresciuto il prestigio internazionale dell’Italia e concluso il ciclo risorgimentale delle guerre d’indipendenza. Anche gli alti ufficiali dell’esercito e l’ambiente della corte, intorno al re Vittorio Emanuele III, vedevano nella guerra un’occasione per conseguire maggiore prestigio epotenza. A loro si affiancarono sia la piccola borghesia, sia i grandi industriali, per i quali la guerra si prospettava come un’occasione per elevati profitti.

 

L’ interventismo di sinistra era rappresentato da alcuni esponenti democratici, repubblicani e socialisti (tra questi Salvemini, Bissolati e Labriola). Secondo loro l’Italia doveva schierarsi a fianco dei paesi democratici dell’Intesa contro i regimi autoritari dell’Austria e della Germania, per contribuire a liberare tutte le nazionalità oppresse. L’organo principale dell’interventismo di sinistra divenne ben presto il quotidiano «Il Popolo d’Italia», diretto da Benito Mussolini. Nato a Predappio (Forlì) il 29 luglio

 

1883, Mussolini era stato un importante dirigente del Partito Socialista. Vicino alle posizioni del sindacalismo rivoluzionario, divenne direttore dell’ «Avanti! » nel 1912 e da questo giornale condusse una vigorosa campagna a favore del neutralismo. Nel giro di pochi mesi, però, rovesciò la sua posizione schierandosi a favore dell’interventismo e per questo venne espulso dal partito. Fu allora (novembre 1914) che fondò «Il Popolo d’Italia».

 

Nel complesso gli interventisti erano una minoranza, ma molto attiva e «rumorosa», e soprattutto potevano contare sull’appoggio del re e di molti giornali (come il Corriere della Sera, espressione della borghesia industriale milanese).

 

IL PATTO DI LONDRA

 

Mentre nel paese il dibattito pro o contro l’intervento assumeva toni sempre più accesi, il governo italiano agiva per vie diplomatiche. Il tentativo di ottenere dall’Austria il riscatto dei territori italiani ancora sotto la sua sovranità fu inutile, perché il governo austriaco intendeva attendere la fine del conflitto prima di dare attuazione a qualsiasi patto. Al contrario fu raggiunto, con le potenze dell’Intesa, un accordo basato sulla richiesta di togliere territori ai paesi nemici. Il 26 aprile 1915, il ministro degli Esteri Sonnino sottoscrisse, a nome del governo, il Patto di Londra, un trattato segreto stipulato ignorando completamente la volontà neutralista della maggioranza del Parlamento. Il Patto impegnava l’Italia a entrare in guerra nel giro di un mese e le garantiva, in caso di vittoria dell’Intesa, Trento e Trieste, il Sud Tirolo (cioè l’Alto Adige), l’Istria (esclusa la città di Fiume), la Dalmazia; inoltre fu concordata la possibilità di partecipare all’eventuale spartizione delle colonie tedesche. È evidente che i compensi territoriali richiesti andavano ben oltre il semplice recupero delle terre irredente.

 

L’ITALIA IN GUERRA

 

Nel frattempo il governo contribuiva a creare artificiosamente un clima di tensione, incoraggiando delle tumultuose manifestazioni di piazza, per portare l’opinione pubblica su posizioni interventiste. In queste dimostrazioni si distinsero, per attivismo e violenza verbale, Benito Mussolini e Gabriele D’Annunzio, che definì quei giorni di maggio «radiose giornate». Alla fine ebbe il sopravvento il volere della piazza e, soprattutto, della corte e del governo. Salandra ottenne dal re i pieni poteri e il 20 maggio il Parlamento si piegò alla volontà interventista, infatti gran parte dei deputati (compreso Giolitti) finì con l’accettare il fatto compiuto (cioè il Patto di Londra) perché respingerlo avrebbe significato delegittimare il governo e anche il re, quindi aprire una gravissima crisi politica in un periodo di grandi tensioni. Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria, e le truppe varcarono il Piave e avanzarono fino alle Alpi e al fiume Isonzo.

  1. La Grande Guerra 3

In Oriente

Contro l’Impero turco ottomano gli Inglesi e i Francesi sferrarono un attacco allo Stretto dei Dardanelli, ma i soldati

inglesi, francesi, neozelandesi e australiani, sbarcati sulle

sponde dello Stretto (battaglia di Gallipoli) furono respinti dai Turchi ed ebbero gravissime perdite (circa 300.000 uomini tra morti e feriti). Gli Inglesi allora, per indebolire l’Impero Turco, fomentarono la rivolta delle tribù arabe del Medio-Oriente (Arabia, Palestina, Giordania, Libano, Mesopotamia-Iraq)

In questa vicenda ebbe un ruolo di primo piano il colonnello Lawrence, agente dei servizi segreti britannici, inviato presso le corti arabe per fomentare e organizzare la rivolta 4. Per questo il governo inglese si impegnò con lo Sceriffo della Mecca a favorire la costituzione di un grande Stato arabo indipendente (comprendente tutti popoli arabi) al termine della Guerra. Tuttavia questo impegno fu tradito, infatti nel 1916 i governi francese e inglese, con l’accordo segreto Sykes-Picot, si accordarono per spartirsi il Medio-Oriente, poi nel 1917 gli Inglesi, con la dichiarazione Balfour, si impegnarono nei confronti del movimento sionista a favorire la nascita di un “focolare” ebraico in Palestina: l’espressione “focolare” era generica, ambigua, ma di fatto si trattava di un impegno a sostenere il progetto sionista di creazione di uno Stato ebraico; gli Inglesi fecero questa dichiarazione per ottenere l’appoggio

dei sionisti, e in particolare per spingere gli ebrei che vivevano negli Stati Uniti a far pressioni sul presidente Wilson perché intervenisse in guerra, come poi di fatto avvenne.

  1. L’inferno delle trincee

UN ANTICHISSIMO SISTEMA DIFENSIVO

La prima guerra mondiale fu segnata dall’uso della trincea, un antichissimo sistema difensivo utilizzato nelle guerre di posizione. Si trattava di un fossato, più o meno profondo, scavato nel terreno, utilizzato inizialmente per offrire riparo dal fuoco nemico e successivamente come vero e proprio rifugio. I militari erano costretti a viverci per lungo tempo, in uno stato di tensione continua per l’incombente minaccia di un attacco nemico, esposti alle intemperie, dalle quali era quasi impossibile difendersi. Nonostante i ripari, gli uomini soffrivano per il caldo, il freddo, il vento, la pioggia e talvolta erano immersi nel fango fino a mezza coscia. Su tutti i fronti di guerra i combattenti dovettero sopportare condizioni estreme di vita, soprattutto d’inverno, a causa della neve e del gelo. Anche l’approvvigionamento del cibo per le truppe delle trincee di prima linea (quelle immediatamente di fronte al nemico) era spesso difficoltoso; se arrivava a destinazione, dopo parecchi chilometri a piedi, raramente il vitto era caldo.

Le condizioni igieniche erano pessime: i soldati tenevano gli stessi vestiti per parecchie settimane, ospitando così pulci e pidocchi. Per i bisogni fisiologici venivano scavate le latrine, ossia delle buche che, col passare dei giorni e l’arrivo di precipitazioni, si trasformavano rapidamente in grandi cloache puzzolenti. Ma spesso, per repulsione, per pigrizia o sempli-cemente per paura di allontanarsi troppo dal riparo della trincea, i soldati non si recavano alla latrina ed espletavano le loro necessità in qualsiasi angolo della trincea. La mancanza d’igiene trasformò ben presto le trincee in ricettacoli di topi, che rosicchiavano i cadaveri e tormentavano i vivi, danneggiando l’equipaggiamento e le riserve di cibo. Frequenti e virulente erano le epidemie, in particolare di colera; ma anche la malaria e la dissenteria mietevano vittime.

ALLA COSTANTE PRESENZA DELLA MORTE

Una delle caratteristiche peculiari del primo conflitto fu la tragica presenza della morte, con la quale i soldati dovevano costantemente convivere. Numerosi cadaveri di compagni e di nemici restavano nell’area compresa fra le opposte trincee per più giorni, talvolta per sempre. Quando finalmente i corpi senza vita venivano seppelliti, poteva accadere che le granate colpissero i cimiteri improvvisati, rivoltando la terra e riportando alla luce e mutilando nuovamente le povere spoglie: uno spettacolo orribile e sconvolgente. L’inevitabile presenza della morte si dimostrò, alla lunga, traumatizzante e deprimente per i soldati. Gli uomini in guerra vivevano fra paure individuali e panico collettivo. La loro resistenza nervosa era spesso messa a dura prova dai bombardamenti dell’artiglieria, il cosiddetto «fuoco di preparazione» che precedeva l’attacco nemico. In quei lunghi minuti i soldati rimanevano addossati gli uni agli altri in preda al panico.

Il momento peggiore della guerra era, però, quello dell’assalto alle trincee dei nemici. Il periodo tra l’annuncio dell’azione e 7 l’uscita effettiva dalla trincea poteva essere di pochi minuti o di alcune ore e proprio l’attesa creava un’angoscia diffusa. Tutti sapevano che i varchi aperti dall’artiglieria nei reticolati posti a difesa delle trincee avversarie sarebbero stati insufficienti e che molti sarebbero irrimediabilmente rimasti impigliati nel filo spinato, diventando un perfetto bersaglio per i tiratori nemici. Anche passare per quei varchi era assai rischioso, perché i soldati vi si accalcavano offrendosi facilmente al fuoco delle micidiali armi automatiche. La paura non risparmiava nessuno, ma colpiva gli individui in modo differente, manifestandosi in vari modi secondo le circostanze e il carattere: singhiozzo, tremori, crisi di diarrea, vomito, prostrazione e, nei casi più gravi, ribellione e rifiuto di obbedire, diserzione, follia o suicidio. La diffusione delle «nevrosi di guerra» fra i combattenti di tutti gli eserciti attesta l’ampiezza del fenomeno. Quando giungeva l’ordine, l’attacco veniva comunque sferrato. Se i soldati riuscivano a raggiungere le trincee della prima linea avversaria, subivano il contrattacco dei reparti della seconda linea e spesso erano ricacciati alle posizioni di partenza. Le probabilità di morire durante l’assalto erano altissime.

PERCHÉ COMBATTERE?

In queste condizioni si resta stupiti di fronte al coraggio di tanti uomini. Fra i commilitoni regnava una solidarietà che permise ai soldati di continuare a lottare nonostante tutto. Lo spirito di corpo e il cameratismo costituivano il cemento fra i componenti delle piccole unità combattenti. La straordinaria tenacia dei soldati viene spiegata anche con il loro attaccamento alla nazione. Ma si trattava di vero patriottismo, oppure i soldati obbedivano solo perché non potevano agire diversamente? Sul campo di battaglia il comandante del reparto aveva diritto di vita o di morte sui suoi subordinati e poteva uccidere sul posto chi cercava di fuggire. Sovente i comandanti dei reparti trasformavano le esecuzioni capitali tramite fucilazione in vere e proprie cerimonie, di fronte alle truppe schierate, perché svolgessero una funzione esemplare e allontanassero ogni velleità di disobbedienza. Si procedette anche alle decimazioni 5 e furono istituiti numerosi processi di fronte alle corti marziali. Evidentemente il sentimento patriottico non era sufficiente, se gli stati maggiori ricorrevano a questo apparato repressivo e a queste macabre messe in scena. Per la maggioranza dei soldati, passati i primi giorni, la guerra perse rapidamente ogni alone di eroismo e venne accettata con rassegnazione come un ineluttabile flagello naturale; solo per piccoli gruppi di combattenti, come le Sturmtruppen (truppe d’assalto) tedesche o gli Arditi italiani, impiegati per le azioni più rischiose, la guerra rimase fonte di esaltazione. La forza d’animo con cui i soldati affrontarono la guerra non ha, in realtà, un’unica spiegazione. Infatti, l’oppressione esercitata nei loro confronti

  • Il termine deriva dal latino decimatici. La decimazione consiste nell’eliminare un soldato su dieci di un reparto resosi colpevole di insubordinazione o di atti di codardia. Una punizione esemplare introdotta dai Romani e più volte applicata durante la prima guerra dall’esercito italiano, come dagli altri eserciti.

 

non fu continua né ebbe sempre la stessa rigidità: secondo gli eserciti d’appartenenza, i settori e i periodi, i combattenti co-nobbero condizioni molto diverse. I soldati subivano una pressione psicologica che li indusse nella stragrande maggioranza a continuare a combattere: chi avesse deciso di disertare avrebbe trovato difficilmente rifugio, e ancora meno facilmente sarebbe potuto tornarsene a casa. E in questo caso, avrebbe potuto essere denunciato, o non avrebbe trovato lavoro: disertare non significava solo coprire di vergogna la propria famiglia, ma anche ridurla in miseria.

  1. La tecnologia al servizio della guerra

UN’ARMA SCIENTIFICA: I GAS

Oltre alle armi tradizionali – artiglieria pesante, fucili automatici e mitragliatrici – usate comunque con un dispiegamento mai visto, gli eserciti che parteciparono alla prima guerra mondiale poterono utilizzare nuove armi e applicazioni tecnologiche messe a disposizione dai grandi progressi della scienza nei decenni precedenti.

I mezzi d’offesa che maggiormente sconvolsero i combattenti e l’opinione pubblica internazionale furono le armi chimiche. Si trattava di gas, inizialmente sotto forma di bombole che venivano aperte in direzione del vento e poi di ordigni che venivano lanciati verso le trincee avversarie: l’effetto dei gas era la morte per soffocamento o avvelenamento. Nel caso del «gas mostarda» o iprite (dal nome della città belga di Ypres dove fu usato la prima volta), si aggiungevano piaghe e ustioni. I gas vennero utilizzati dai tedeschi per primi nel 1915, imitati poi dagli altri eserciti: le loro prime apparizioni causarono grande impressione per la loro azione subdola e i loro tremendi effetti – chi inalava il gas moriva fra atroci sofferenze o poteva rimanere invalido per sempre – ma presto gli eserciti presero le opportune contromisure, come la dotazione di maschere antigas per tutti i soldati. L’efficacia dei mezzi di difesa e la non piena affidabilità dei gas – che il vento poteva disperdere o rimandare indietro – ne limitarono sempre più l’uso.

Le necessità belliche stimolarono lo sviluppo di settori industriali e scientifici di nascita recente: l’industria automobilistica fornì alle forze armate mezzi per il trasporto più rapido di truppe o rifornimenti, o dei feriti grazie alle autoambulanze. La radiofonia permise lo sviluppo di mezzi di telecomunicazione, essenziali per coordinare le azioni e accelerare le catene di comando o l’invio di informazioni.

NUOVI STRUMENTI PER LA GUERRA

Un impatto più limitato ebbe l’utilizzo dell’aviazione: nel corso della guerra furono costruiti circa 20.000 velivoli militari, utilizzati per l’osservazione dall’alto dei teatri di battaglia o per bombardamenti su settori circoscritti, senza mai essere utilizzati con

continuità nelle battaglie (tuttavia i duelli fra aerei avversari rimangono fra gli eventi più mitizzati del conflitto). 8 Anche il carro armato, che sarebbe stata un’arma fondamentale nel corso del secondo conflitto mondiale, fu scarsamente utilizzato, anche per una sottovalutazione delle sue potenzialità. Dapprima comparvero le autoblindo: si trattava di autocarri riparati da piastre d’acciaio e dotati di mitragliatrici la cui utilità era limitata perché adatti solo alla circolazione su strada. Si passò poi a sostituire le ruote con cingoli come quelli utilizzati sui mezzi agricoli, che permettevano ai mezzi blindati di muoversi

su qualunque terreno. Impiegati dagli Inglesi a partire dal 1916, i carri armati furono utilizzati con grande spiegamento solo alla fine del 1917: nonostante i mezzi corazzati si dimostrassero un’arma importante per spostare rapidamente il fronte evitando lo stallo della guerra di trincea, gli stati maggiori, abituati alle tecniche di guerra del passato, non ne incoraggiarono l’uso.

Nella guerra navale fece la sua comparsa, con importanti conseguenze, il sottomarino: furono i Tedeschi a utilizzarlo su grande scala, sia per attaccare le navi nemiche sia per colpire di sorpresa le navi mercantili, anche di nazioni neutrali, che portavano rifornimenti ai paesi dell’Intesa. La qualità dei sottomarini e l’abilità dei marinai fecero dei sommergibili tedeschi, per quanto esigui di numero, delle armi micidiali. Tuttavia la guerra sottomarina causò le proteste degli Stati Uniti che ritenevano minacciati il principio della libertà di commercio e il loro interesse economico: l’affondamento ad opera dei Tedeschi nel maggio 1915 del transatlantico inglese Lusitania con 140 passeggeri americani a bordo – ma anche armi destinate all’Inghilterra – provocò tali proteste da parte degli Stati Uniti da indurre i Tedeschi a sospendere momentaneamente la guerra sottomarina illimitata.

  1. Il fronte interno e la guerra “totale”.

IL COINVOLGIMENTO DEI CIVILI

Anche le popolazioni civili, oltre ai combattenti, furono coinvolte nel conflitto. In primo luogo a subire danni e perdite furono gli abitanti delle zone in cui si svolgevano i combattimenti: per molti chilometri attorno al fronte cadevano bombe e la popolazione doveva lasciare le proprie case e le terre. Ogni spostamento del fronte comportava fughe di profughi e occupazioni da parte delle truppe nemiche.

Coloro che si trovavano in un paese straniero potevano trovarsi nella condizione di nemici: venivano quindi sottoposti alla confisca dei beni e a vari gradi di detenzione. Le minoranze etniche che in passato avevano mostrato velleità indipendentiste furono sottoposte a rigidi controlli perché sospettate di possibile tradimento. Ma anche le popolazioni che vivevano lontano dal fronte subirono le conseguenze del conflitto: pesanti limitazioni della libertà personale, razionamento del cibo, rialzo dei prezzi, diffusione di epidemie, aumento dei carichi di lavoro. Quest’ultimo fattore negativo fu l’esito del grandissimo sforzo produttivo delle nazioni in conflitto: soprattutto nel settore industriale, le aziende dovettero garantire ai militari tutte le risorse di cui avevano bisogno. Le industrie siderurgiche, meccaniche, chimiche e anche tessili ebbero uno sviluppo imponente, finanziato

dallo Stato e quindi al di fuori di ogni logica di concorrenza. In questa situazione, i turni di lavoro divennero più duri, grazie anche al clima di mobilitazione che caratterizzò le fabbriche e la società del tempo di guerra. In pratica tutta la popolazione fu militarizzata: non solo, ovviamente, i soldati che combattevano e che costituivano il fronte esterno, ma anche le persone che senza imbracciare le armi lavoravano nelle fabbriche a sostegno dello sforzo bellico e che formavano il fronte interno. Il peggioramento delle condizioni di vita causò proteste in particolare in Francia, Germania e Italia, soprattutto nel 1917: nell’agosto di quell’anno a Torino vi furono dimostrazioni e scioperi, causati dalla penuria di generi alimentari e seguiti da violenti scontri che provocarono decine di vittime.

IL PREDOMINIO DELLO STATO E DEL POTERE ESECUTIVO

La riorganizzazione dell’assetto produttivo avvenne grazie a un massiccio intervento dello Stato, con un serie di misure che il liberismo di stampo ottocentesco non avrebbe mai previsto: settori industriali sottoposti a controllo governativo, requisizione e controllo dei prezzi per i prodotti agricoli, razionamento dei beni di consumo. La Germania operò una tale pianificazione economica da far parlare di «socialismo di guerra». I grandi imprenditori privati non erano però esclusi dai profitti: partecipavano insieme ai militari ai progetti di gestione economica e alla fine del conflitto godettero di grandi entrate e di un maggior peso politico.

Anche il settore pubblico dovette adeguarsi alla situazione di guerra: gli apparati statali, investiti di compiti sempre più numerosi, aumentarono le file della burocrazia. I governi presero il sopravvento sui parlamenti, poco adatti alla segretezza e alla rapidità di decisione necessari in tempo di guerra.

Il potere politico doveva però confrontarsi con le pretese dei militari: per tutto quello che riguardava la condotta della guerra, gli stati maggiori cercavano di imporre le proprie decisioni ai governi, da cui in realtà dipendevano, assumendo una sorta di potere assoluto. In Germania si formò di fatto una dittatura militare guidata dal capo di stato maggiore Paul von Hindenburg e dal suo collaboratore Erich Ludendorff. In altri paesi il potere politico mantenne la preminenza, ma anche qui in condizioni simili a una dittatura: nell’ultimo anno di guerra, dopo un’inutile e cruenta offensiva nel maggio 1917 e l’ammutinamento di alcuni reparti dell’esercito, la Francia venne governata da un’unione nazionale comandata con pugno di ferro da Georges Clemenceau, mentre in Gran Bretagna si era formato un «gabinetto di guerra» sotto David Lloyd George. Anche in Italia dopo Caporetto si formò un governo di unità nazionale.

A giustificare queste misure politiche eccezionali non erano soltanto le difficoltà incontrate dagli eserciti sui fronti; ricordiamo che nel 1917 si era nel quarto anno di una guerra che molti, all’inizio, avevano pronosticato di breve durata. Il protrarsi del conflitto aveva accresciuto enormemente i problemi interni e occorreva mobilitare tutta la popolazione nell’ultimo sforzo per la vittoria.

9

IL NEMICO INTERNO E LA PROPAGANDA

Per ottenere l’obiettivo del successo finale i governi sottoposero le rispettive popolazioni a uno sforzo di mobilitazione totale: tutte le forze del paese dovevano puntare alla vittoria. Venne imposta una stretta censura su tutte le voci che rivelavano le difficili situazioni dei fronti o le reali condizioni di vita dei soldati, come pure quelle che richiedevano la fine del conflitto, tutte accomunate sotto la definizione di «disfattismo».

I disfattisti erano posti, dai sostenitori del conflitto, sullo stesso piano dei sabotatori: nemici che minavano la stabilità della nazione agendo subdolamente all’interno dello Stato. Per mobilitare la popolazione i governi ricorsero massicciamente alla propaganda, rivolta alle truppe per sostenerne il morale, ma anche ai civili. Vennero stampati in enormi quantità manifesti e cartoline che esaltavano le doti e le vittorie del proprio esercito oppure prospettavano disastri e violenze di ogni genere in caso di vittoria nemica. Vennero organizzate manifestazioni di sostegno ai combattenti, istituiti comitati per la resistenza contro il nemico interno. Anche il cinema, arte che da poco aveva fatto la sua comparsa, venne posto al servizio della causa nazionale.

I bambini divennero oggetto peculiare di indottrinamento, a partire dalla scuola per arrivare ai libri e ai giocattoli, tutti di carattere bellico. L’insistenza e la capillarità della propaganda6 governativa si fecero sempre più pressanti man mano che passavano i mesi e la stanchezza cresceva al fronte e fra i civili. In realtà era naturale che si rafforzasse l’opposizione alla guerra, perché appariva ormai evidente a tutti che gli annunci di strepitose vittorie e di una rapida conclusione delle ostilità erano solo invenzioni propagandistiche.

La volontà e la capacità di mobilitazione attraverso la propaganda non scomparvero con la fine del conflitto e diventarono anzi uno dei caratteri più tipici del dopoguerra, raggiungendo il loro apice negli Stati totalitari sorti negli anni successivi.

LE DIVISIONI DEL MOVIMENTO SOCIALISTA

  • In origine il termine, semplificazione dell’espressione latina de propaganda fide («sulla fede da diffondere»), designava l’attività di proselitismo e di diffusione della dottrina cattolica. Il suo significato odierno indica la diffusione deliberata e sistematica di messaggi e informazioni, con lo scopo di costruire un’immagine – negativa o positiva a seconda degli interessi – di un evento, di una persona, di un gruppo. Il termine è talvolta usato anche nell’ambito commerciale come sinonimo di pubblicità. Primi a usare la propaganda politica su grande scala furono i movimenti socialisti, ma con l’avvento della società di massa e con la prima guerra mondiale la propaganda è risultata una componente essenziale della vita politica, grazie all’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione (stampa, radio, cinema, televisione). Le potenzialità che tali mezzi offrivano sono state impiegate poi dai regimi totalitari – che ne possiedono il monopolio – come strumento di persuasione. La parola ha assunto pertanto un significato negativo, poiché richiama l’idea di manipolazione e di informazione distorta.

 

Di fronte a un conflitto di così vaste proporzioni, assunse particolare importanza l’atteggiamento dei socialisti. Negli anni immediatamente precedenti la guerra, la Seconda Internazionale socialista prese posizione contro un evento considerato estraneo agli interessi del proletariato e voluto dai capitalisti, per portare a termine i loro progetti imperialisti. In questa prospettiva l’Internazionale lanciò numerosi appelli per la pace, fra cui lo slogan «guerra alla guerra». A livello locale, però, le scelte furono diverse e in molti partiti socialisti, nell’estate del 1914, prevalsero le ragioni degli interessi nazionali rispetto a quelle dell’internazionalismo operaio.

  • caso più clamoroso fu quello del Partito Socialdemocratico Tedesco, che il 4 agosto 1914 votò a favore dei crediti di guerra7, e lo stesso fecero i Socialisti francesi e i Laburisti inglesi. I Socialisti italiani invece, come abbiamo visto, furono contrari alla guerra, con alcune eccezioni (p.e. Mussolini). Tuttavia, già nel settembre 1915, i socialisti pacifisti (in genere in minoranza nei loro paesi) e quelli dei paesi neutrali (Olanda, Svizzera, Svezia) organizzarono una conferenza internazionale a Zimmerwald (Svizzera), dove si ribadì con forza la condanna della guerra e si chiese una pace «senza annessioni e senza indennità» (cioè una pace senza vincitori né vinti).

Nel documento conclusivo del congresso si prospettava anche l’idea di trasformare la guerra in rivoluzione proletaria.

Questa tesi, sostenuta soprattutto dal socialista russo Lenin, ebbe ancora più consensi nella conferenza di Kienthal (Svizzera) dell’aprile 1916. Anche il gruppo tedesco degli spartachisti – dal nome di Lega di Spartaco del loro movimento, fondato da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht – si pose su queste posizioni.

L’opposizione alla guerra crebbe, comunque, in tutti i paesi coinvolti nel grande conflitto e assunse talvolta il carattere di sollevazione popolare.

Il culmine fu raggiunto in Russia con l’abbandono in massa del fronte e con la rivoluzione d’ottobre (1917), grazie all’azione dei bolscevichi guidati da Lenin.

  1. Il genocidio degli Armeni

LE VICENDE DEL POPOLO ARMENO

Il coinvolgimento delle popolazioni civili negli eventi del primo conflitto mondiale raggiunse il suo tragico culmine con il genocidio8 degli Armeni, una vicenda le cui radici affondano nel nazionalismo e nell‘intolleranza religiosa. L’origine remota di questo evento è la progressiva crisi dell’Impero ottomano: abitato in gran parte da musulmani, l’Impero dovette concedere l’indipendenza alle minoranze cristiane: Greci, Rumeni, Bulgari e Serbi. Gli Armeni abitavano un territorio diviso fra Impero russo e Impero ottomano, dove erano presenti anche in diverse città. Gli Armeni erano cristiani e rivendicarono a loro volta l’autonomia. Ma il governo turco rifiutò d’impegnarsi in cambiamenti che avrebbero portato a una perdita territoriale. Contro le 10 rivendicazioni degli Armeni, il sultano turco sfruttò anche la tensione esistente fra loro e altri popoli musulmani dell’Impero, come i Curdi. Negli anni 1894-95 vi furono vere e proprie sommosse popolari contro gli Armeni che causarono più di 100.000 morti. L’avvento al potere dei «Giovani Turchi», fortemente nazionalisti, non aveva migliorato la situazione: non essendo Turchi,

gli Armeni andavano perseguitati. Nel 1914, allo scoppio del conflitto mondiale, gli Armeni sudditi dell’Impero ottomano si trovarono a dover combattere contro i loro fratelli cittadini della Russia. Alcuni disertarono e il governo turco ebbe seri motivi per dubitare della lealtà degli altri.

UN MILIONE DI MORTI, METÀ DEGLI ARMENI

Nel febbraio del 1915 fu decisa dal governo turco l‘eliminazione sistematica della popolazione armena. Gli Armeni furono vittime di un genocidio che coinvolse dapprima coloro che erano concentrati alla frontiera nord, poi quelli che si trovavano nelle principali città dell’Impero. Infine, a partire da maggio, fu ordinata la deportazione di tutti i superstiti verso alcune zone periferiche dell’Impero, lontano da sguardi indiscreti. Lo smistamento degli Armeni fu organizzato ad Aleppo, dove furono raggruppati e inseriti in vari convogli. I poliziotti incaricati della sorveglianza bastonavano le persone senza pietà, impedivano alle donne incinte di riposarsi e lasciavano che saccheggiatori senza scrupoli attaccassero la carovana. Molti Armeni sparirono nel deserto della Mesopotamia o della Siria, vittime della fame, del tifo e del colera, nonché delle violenze dei militari e dei briganti. La morte certa attendeva coloro che, nonostante tutto, giungevano al termine del viaggio, per essere internati in ap-positi campi di concentramento. Molti diplomatici tedeschi, liberi di circolare per l’Impero perché appartenenti a una nazione alleata, stesero tremende relazioni su quanto poterono vedere. Molti racconti narravano di donne seviziate e uccise, di uomini gettati vivi dai dirupi, di mani di bambini tagliate. Per quanto il numero delle vittime sia oggetto di controversie, una stima seria non può scendere, in ogni caso, complessivamente sotto il milione di morti, ossia la metà degli Armeni presenti nel 1914 nell’Impero ottomano.

LA NEGAZIONE DEL GENOCIDIO

  • I crediti di guerra erano i finanziamenti delle spese belliche, approvarli significava approvare la decisione di entrare in guerra.

 

  • Il termine, coniato nel 1944 dal polacco Raphael Lemkin, deriva dal greco ghénos («razza, stirpe») e dal latino caedo («uccidere»): significa dunque «uccisione di un popolo», tutto o in parte. Si differenzia dal termine massacro in quanto mette in evidenza l’appartenenza alla stessa comunità degli uccisi. L’11 dicembre 1946, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto il genocidio come crimine contro l’umanità, in quanto negazione del diritto alla vita, non solo fisica, ma anche sociale, politica, culturale, religiosa. Quello armeno fu il primo genocidio del Novecento.

 

Il primo governo turco del dopoguerra sostenne che gli Armeni morti durante la guerra non erano più di 300.000, individuando le cause dei decessi nell’insicurezza e nelle privazioni, comuni a tutti i cittadini in tempo di guerra. Questa tesi è sostenuta anche dal governo attuale della Turchia, che nega il genocidio e vieta la pubblicazione di studi e ricostruzioni su di esso.

Perseguitati nella loro terra, gli Armeni emigrarono e si sparsero nel mondo. In Europa la maggioranza degli Armeni fu accolta dalla Francia (300.000 persone circa). Un consistente numero di persone fuggì negli Stati Uniti d’America, nel Canada, nell’America meridionale e in Australia.

  1. Dalla svolta del 1917 alla conclusione del conflitto

LA SVOLTA DEL 1917

La prospettiva di una lunga durata della guerra faceva prevedere un aumento delle difficoltà economiche per gli Imperi centrali. Perciò, sin dal febbraio 1917, i Tedeschi decisero di riprendere la guerra sottomarina, colpendo anche navi di paesi neutrali (come gli Stati Uniti) per bloccare tutti i rifornimenti ai paesi dell’Intesa e isolare economicamente la Gran Bretagna.

Ma proprio la guerra sottomarina, che danneggiava i loro intensi scambi commerciali con la Francia, l’Italia e soprattutto l’Inghilterra, spinse gli USA a entrare nel conflitto a fianco dell’Intesa (6 aprile 1917). L’ingresso in guerra fu preceduto da un acceso dibattito interno, perché intervenire in Europa significava abbandonare definitivamente la politica d’isolamento. Alla fine prevalsero gli interessi economici, in particolare il timore di perdere sia gli ingenti crediti nei confronti dei paesi dell’Intesa, sia i contratti d’esportazione verso l’Europa. Il 1917 fu un anno decisivo per le sorti del conflitto, non solo per l’intervento degli USA. Nel marzo il regime zarista russo fu rovesciato e sostituito da una repubblica, il cui governo provvisorio, guidato da Kerenskij, decise di proseguire la guerra. Tuttavia l’esercito russo si stava dissolvendo per le diserzioni in massa. La situazione interna divenne sempre più confusa sino alla rivoluzione dell’ottobre 1917, quando il potere fu assunto dai comunisti guidati da Lenin. Il nuovo governo decise di uscire dalla guerra e avviò con gli Imperi centrali le trattative di pace, che si conclusero con l’accordo di Brest-Litovsk (marzo 1918). La Russia fu obbligata a pesanti concessioni: la Germania ottenne la Polonia e i paesi baltici (Finlandia, Estonia, Lituania, Lettonia).

CAPORETTO: LA DISFATTA DELL’ESERCITO ITALIANO

In seguito alla crisi della Russia, l’Austria e la Germania poterono spostare delle truppe sul fronte occidentale e su quello italiano. Con un grande sforzo offensivo gli Austriaci, appoggiati dai Tedeschi, sfondarono le linee italiane a Caporetto9 – oggi Kobarid, in Slovenia – (24 ottobre 1917).

La ritirata delle truppe italiane divenne in breve tempo una vera e propria disfatta e l’esercito nemico penetrò in Italia per 150 11 chilometri, causando la perdita di circa 400.000 uomini (tra morti, feriti e prigionieri), con le loro armi e con molti altri materiali bellici. La sconfitta ebbe immediate ripercussioni politiche: fu formato un nuovo governo di unità nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando (ottobre 1917-giugno 1919). Il generale Cadorna dovette lasciare il comando supremo dell’esercito e

fu sostituito dal generale Armando Diaz, che decise di sistemare una nuova linea di difesa sul fiume Piave dove, il 12 novembre, fu bloccata l’offensiva austriaca. Il nuovo comandante impose ai soldati, ormai stanchi e demoralizzati, una disciplina meno rigida e ne curò meglio l’addestramento. Inoltre, evitò tutte le azioni e le offensive che potevano portare a un inutile sacrificio dei suoi uomini. Vennero anche fatte promesse di riforme a favore dei ceti popolari e distribuzione di terre ai contadini a fine guerra.

Le ragioni militari della disfatta di Caporetto sono da ricercarsi in un’offensiva ben condotta da parte degli Austriaci, nella conformazione del terreno favorevole agli attaccanti, nell’errata impostazione della battaglia difensiva e nel mancato controllo della ritirata da parte del comando supremo italiano. Inoltre non bisogna dimenticare il clima di sfiducia e di disagio, peraltro comune a tutti gli Stati belligeranti, diffuso al fronte e nel paese.10

I soldati erano ormai logorati, nel fisico e nello spirito, dall’interminabile guerra di trincea, dalle stragi effettuate e subite, dalle angherie dei comandanti, dalla morte sempre incombente. Il rifiuto della guerra si manifestava soprattutto in comportamenti individuali, come la diserzione, la fuga, la simulazione di malattie e la pratica dell’autolesionismo, consistente nel procurarsi

  • L’espressione «È stata una Caporetto» indica un fallimento totale, una sconfitta disastrosa, anche al di fuori del linguaggio militare. Deriva dalla località dove le truppe italiane nell’ottobre 1917 furono travolte dall’offensiva austriaca.

 

Non si trattò di un semplice rovescio militare, fu anzi l’inizio di una ritirata caotica che mise a rischio l’esito stesso della guerra. Coinvolgendo pesantemente anche i civili, quella battaglia divenne presto un simbolo ed entrò nel linguaggio quotidiano.

 

  • Lo scrittore americano Ernest Hemingway (1899-1961) fu volontario nella prima guerra mondiale e successivamente nella guerra civile di Spagna. Ispirato alla sua esperienza in guerra sul fronte italiano, il romanzo Addio alle armi racconta la vicenda di Frederic Henry, giovane americano che partecipa come volontario in un reparto di sanità alla guerra sul Piave. Ferito, viene ricoverato in un ospedale militare, dove incontra un’infermiera inglese, Catherine, e se ne innamora. I due vivono una parentesi di serenità e guardano al loro futuro coltivando speranze e illusioni. Frederic guarisce e Catherine gli confessa di essere incinta. Ritornato al fronte, è coinvolto nella ritirata di Caporetto e riesce a sfuggire a stento alla morte. Scopre così che la guerra non ha nulla di romantico e di affascinante come credeva al momento dell’arruolamento. Decide di raggiungere Catherine e fugge con lei in Svizzera. Ma la serenità tanto desiderata si rivela effimera: la donna muore di parto con il bambino, lasciando il protagonista solo, con la sua disperazione. Il libro si rivela una recisa condanna della disumanità della guerra, che irrompe nelle vite degli uomini, le sconvolge e spesso le spezza.
volontariamente  delle  mutilazioni  tali  da  giustificare  l’esenzione  dal  servizio  al  fronte.  Vi  furono  anche  fenomeni
d’insubordinazione collettiva, veri e propri ammutinamenti, a malapena arginati con processi, fucilazioni e decimazioni.
1918: LA CONCLUSIONE DEL CONFLITTO
Benché avessero firmato la pace di Brest-Litovsk con la Russia, la Germania e l’Austria avvertivano sempre più chiaramente che
il blocco economico, attuato dall’Intesa, impediva di prolungare ulteriormente lo sforzo bellico. Da qui l’esigenza di passare
all’offensiva. Nella primavera del 1918 l’attacco portato dai Tedeschi sul fronte occidentale si arenò, però, contro la reazione
delle truppe anglo-francesi, che ebbero la meglio nelle battaglie della Marna e di Amiens (luglio-agosto 1918). Successivamente
tutti i fronti degli Imperi centrali crollarono. Il 29 settembre la Bulgaria si arrese a un esercito franco-serbo; l’ Ungheria, la
Cecoslovacchia e la Iugoslavia si dichiararono indipendenti dall’Austria, e i soldati di queste nazioni arruolati dall’Austria-
Ungheria abbandonarono l’esercito, che dovette subire la controffensiva italiana. Infatti, il 29 ottobre 1918 l’esercito austriaco
fu sconfitto nella battaglia di Vittorio Veneto e costretto alla ritirata. Il 3 novembre, a Villa Giusti, nei pressi di Padova, venne
firmato l’armistizio che siglava la vittoria dell’Italia. L’11 novembre l’imperatore Carlo I abdicò e abbandonò l’Austria, dove venne
proclamata la repubblica.
Il 30 ottobre si arrese la Turchia, mentre la Germania si preparava, a sua volta, alla resa definitiva. In Germania scoppiarono
manifestazioni popolari e molti reparti dell’esercito e della flotta, mobilitati dai partiti di sinistra, si ammutinarono. Si
formarono, come in Russia nel 1917, i Soviet (consigli di operai e soldati). Il 9 novembre l’imperatore Guglielmo II lasciò il trono
e anche a Berlino fu proclamata la repubblica. Il nuovo governo, presieduto dal socialdemocratico Ebert, iniziò subito le
trattative che portarono alla firma dell’armistizio di Rethondes (11 novembre). Terminava così, dopo più di quattro anni, la
prima guerra mondiale.
I CADUTI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
I numeri delle vittime della prima Guerra mondiale sono impressionanti: circa 8 milioni e mezzo di morti, di cui 615.000 italiani.
A questi occorre aggiungere i 21 milioni di feriti più o meno gravi. Fra questi, milioni di uomini ebbero una percentuale
d’invalidità permanente superiore al 50% e molti subirono delle amputazioni. Inoltre, ben 500.000 soldati morirono subito dopo
la  guerra in seguito a malattie contratte in trincea. Al di là delle conseguenze immediate, la prima guerra mondiale
ebbe profondi effetti sull’evoluzione demografica della popolazione europea.
Secondo lo storico J.M. Winter, un terzo dei soldati caduti avrebbe lasciato delle vedove aventi ciascuna in media due bambini. È
possibile stimare in 3 e 6 milioni rispettivamente il numero delle vedove e degli orfani, tenendo conto che, nel 1919, la Germania
da sola contò 500.000 vedove e più di un milione di orfani. In Francia, nel 1928, venivano ancora erogate 630.000 pensioni di
guerra alle vedove, delle quali 367.500 risultavano non rimaritate e 262.500 risposate. Inoltre, circa un milione di donne francesi 12
rimasero forzatamente nubili perché era enormemente calato il numero di uomini adulti. La prima guerra mondiale costò alla
Francia il 3,5% della popolazione residente nel 1914, e soprattutto più del 10% della popolazione maschile attiva. Secondo i
calcoli di J. Dupàquier, fu necessario attendere il 1950 per ritrovare il livello di popolazione del 1° agosto 1914. Se si tiene conto
della densità di popolazione, la Francia fu, con la Romania e la Serbia, il paese più duramente colpito dalle perdite provocate dal
conflitto 1914-18.
  1. I trattati di pace

IDEALI E INTERESSI

I ministri dei paesi vincitori si riunirono a Parigi il 18 gennaio 1919, in una Conferenza per la pace; i delegati degli Stati vinti furono convocati, a cose fatte, solo per la firma finale. I protagonisti delle trattative furono i rappresentanti delle quattro potenze vincitrici: Clemenceau per la Francia, Lloyd George per la Gran Bretagna, Wilson per gli Stati Uniti e Orlando per l’Italia. Relativamente ai princìpi che dovevano ispirare gli accordi di pace, fin dal gennaio 1918 il presidente americano Woodrow Wilson aveva presentato Quattordici punti che riassumevano i progetti statunitensi per le future relazioni internazionali.

Wilson nei Quattordici punti richiamava al rispetto dell’autodeterminazione delle nazioni11, della libertà dei mari e dei commerci e proponeva la costituzione, dopo la guerra, di una Società delle Nazioni, cioè di un organismo internazionale che avrebbe dovuto garantire il rispetto del diritto internazionale e risolvere i contrasti tra gli Stati per via diplomatica, impedendo nuove guerre.

In realtà le potenze europee non affrontarono le trattative di pace guidate da questi alti ideali. La Francia puntava a indebolire la Germania per assumere una posizione dominante nel continente europeo. La Gran Bretagna voleva invece evitare la rovina della Germania perché temeva che la Francia divenisse troppo potente. Dovette, comunque, trovare un accordo con i Francesi per ottenere quanto le stava a cuore: l’eliminazione della flotta tedesca e la spartizione delle colonie della Germania. L’Italia pretendeva gli ingrandimenti territoriali che le erano stati promessi da Francia e Gran Bretagna col Patto di Londra.

In un certo senso anche Wilson esprimeva gli interessi del suo paese: l’introduzione del libero commercio e la soluzione dei contrasti attraverso pacifiche trattative erano la via per affermare la superiorità economica e politica degli Stati Uniti.

IL PREVALERE DELLA LINEA PUNITIVA

  • Nel linguaggio politico indica sia la capacità delle popolazioni di disporre di se stesse sia il diritto di un popolo di scegliersi la propria forma di governo. L’ideale dell’autodeterminazione dei popoli ha profondamente condizionato l’assetto europeo, influendo sulla formazione degli Stati nei secoli XIX e XX.

 

L’obiettivo della Conferenza per la pace era di trovare un equilibrio tra la necessità di penalizzare gli sconfitti e quella di risarcire i vincitori. Contemporaneamente occorreva rispettare i princìpi di nazionalità e autodeterminazione proposti dal presidente americano Wilson.

Nel corso delle trattative si scontrarono due strategie politiche:

quella di Clemenceau (Francia) che intendeva piegare la Germania per consentire alla Francia di sostituirla nel ruolo di grande potenza europea;

quella avanzata dal presidente americano Wilson che proponeva un modello democratico di convivenza pacifica, fondato sull’equilibrio delle nazioni e sul rispetto dei popoli. Le trattative durarono un anno e mezzo e alla fine prevalse la linea punitiva proposta dalla Francia. La pace «democratica», cercata da Wilson, incontrò invece la diffidenza degli altri paesi vincitori che non vollero rinunciare alle loro ambizioni nazionali.

LA NUOVA CARTA D’EUROPA

I trattati di pace furono firmati tra il 1919 e il 1920 nelle cittadine francesi di Versailles, Saint-Germain, Neuilly e Sèvres. Le decisioni più significative furono le seguenti.

  1. Vennero riconosciuti indipendenti alcuni nuovi Stati europei: l’Ungheria, la Cecoslovacchia (nazioni e regioni che prima erano incluse nell’Impero Austro-ungarico) , la Iugoslavia (costituita dai popoli slavi della penisola balcanica, riuniti attorno alla Serbia), la Polonia e le repubbliche baltiche, cioè la Finlandia, la Lettonia, la Lituania e l’Estonia (che prima della guerra facevano parte dell’Impero russo)
  1. L’Austria perse circa i 7/8 dei territori dell’antico impero e si trovò ridotta ad appena 85.000 km2, senza sbocchi sul mare.
  1. La Giordania, la Palestina e l’Iraq furono affidati agli Inglesi, la Siria e il Libano alla Francia, con la formula dei “mandati” della

Società delle Nazioni: si affermò cioè che questi popoli arabi, a cui era stata promessa l’indipendenza, non erano ancora in grado di governarsi di soli, e quindi la Società delle Nazioni dava mandato alla Francia e all’Inghilterra di amministrarli per 30 anni (una formula ipocrita per giustificare il dominio inglese e francese su queste nazioni, di cui cominciava ad emergere il potenziale economico).

  1. La Germania, con il trattato firmato a Versailles il 28 giugno 1919, venne riconosciuta come principale responsabile del conflitto. Pertanto:
  • fu costretta a pagare i danni di guerra (132 miliardi di marchi-oro) soprattutto alla Francia e al Belgio, e a mantenere una flotta e un esercito molto ridotti; fu privata di tutte le colonie; l’Alsazia e la Lorena ritornarono alla Francia, che venne anche autorizzata a occupare e sfruttare per 15 anni la regione tedesca della Saar; la regione tedesca della Renania fu smilitarizzata.
  • altri territori tedeschi passarono alla Danimarca e alla Polonia; a quest’ultima venne garantito uno sbocco al mare 13 mediante una stretta striscia di territorio che separava la Prussia orientale dal resto della Germania (il corridoio polacco): la città di Danzica venne dichiarata città libera sotto il controllo internazionale;
  • infine furono annullati gli accordi di Brest-Litovsk con la Russia e quindi furono sottratti alla Germania i territori baltici e la Polonia. I nuovi Stati dell’Europa orientale costituirono un “cordone sanitario”, con la funzione di isolare la Russia comunista.
  1. L‘Italia ricevette dall’Austria il Trentino, l’Alto Adige, la Venezia Giulia e Il primo ministro Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino avevano chiesto anche i territori promessi dal Patto di Londra in Dalmazia, e in aggiunta l’annessione della città di Fiume (abitata anche da Italiani). Le altre potenze ritenevano però che queste concessioni avrebbero violato il principio dell’autodeterminazione (l’Italia, cioè, avrebbe avuto delle vere e proprie colonie sul territorio europeo) e si opposero alla richiesta. Per protesta, la delegazione italiana abbandonò i colloqui e, quando vi tornò, Francia e Inghilterra si erano già spartite le ex colonie tedesche.
  1. La Turchia perse tutti i territori europei, tranne la città di Istanbul; dallo smembramento dell’Impero ottomano fu creata la Grande Armenia. Ma i Turchi s’opposero al trattato; non solo sul piano diplomatico, ma anche attraverso l’azione militare. La Repubblica armena, infatti, dovette subire in questa fase l’aggressione congiunta dei Sovietici e dei Turchi, che si erano accordati a tal fine. Al di là della «simpatia universale» espressa dalla Società delle Nazioni, il destino dello Stato armeno era ormai segnato: venne diviso fra la Turchia e una repubblica armena appartenente all’Unione Sovietica.

FINE DELLA CENTRALITÀ EUROPEA

Le reazioni ai trattati di pace furono particolarmente violente in Germania12: i Tedeschi ritenevano di essere stati sottoposti a condizioni troppo dure, soprattutto per colpa della Francia. A loro volta i Francesi non erano soddisfatti e giudicavano insuffi-cienti le sanzioni imposte alla Germania.

L’Italia non ebbe i vantaggi sperati e questo fatto causò il risentimento nei confronti degli alleati e grandi proteste, soprattutto da parte di nazionalisti ed ex interventisti 13.

  • In Germania nacque anche un “mito”, alimentato e diffuso dai movimenti nazionalisti e militaristi, il mito della “pugnalata alle spalle”: secondo questo mito la Germania non era stata sconfitta sui campi di battaglia, ma era stata costretta alla resa dalla rivoluzione interna, scatenata dai partiti di sinistra. In realtà, benché l’esercito tedesco si trovasse ancora in territorio francese al momento della resa, tuttavia era stato sconfitto ad Amiens, era in ritirata e gli stessi Comandi dell’esercito avevano chiesto al governo di firmare la resa. La rivoluzione interna era stata una conseguenza della crisi economica e della mancanza di rifornimenti, effetto del blocco economico che gli Inglesi erano riusciti ad imporre alla Germania.

In conclusione, con l’applicazione dei trattati di pace, la situazione internazionale mutò profondamente. Quattro imperi erano crollati: l’Impero austro-ungarico, l’Impero tedesco, quello russo e quello turco; erano nate molte nuove nazioni.

Il primato dell’Europa si era indebolito sia dal punto di vista politico sia da quello economico ed emergeva il ruolo mondiale degli Stati Uniti. Furono infatti gli Stati Uniti i veri vincitori della guerra: divennero la prima potenza politica ed economica del mondo e i principali creditori degli Stati europei. Proprio quest’ultimo dato è quello che meglio evidenzia il ruolo che la guerra ebbe nell’affermazione della supremazia statunitense: alla vigilia della guerra gli USA dovevano 5 miliardi di dollari all’Europa; nel 1919 l’Europa doveva circa 7 miliardi di dollari agli Stati Uniti.