La poetica del fanciullino

La poetica del fanciullino


In un suo scritto famoso, “Il fanciullino”, Pascoli definisce ampiamente la sua poetica.

La poesia non è “logos”, cioè razionalità, ma consiste in una perenne capacità di stupore tutta infantile, in una disposizione irrazionale che permangono dentro l’uomo anche quando si è cronologicamente lontani dall’infanzia.
Il poeta viene paragonato al fanciullino che si mette di fronte alla realtà rendendo inattiva la ragione: sa attribuire significati alle cose che lo circondano, estremamente soggettivi.

Il poeta, come il bambino, secondo Pascoli, è privo di malvagità, è caratterizzato dalla condizione di stupore e dalla capacità di riflettere i propri stati d’animo nelle piccole cose.

Il poeta-fanciullino è una figura astratta perchè non tutti i fanciulli sono buoni e, imperfetta in quanto il poeta non riuscirà mai pienamente nel suo tentativo di tornare bambino.

 Questo fanciullino “…alla luce sogna o sembra sognare ricordando cose non vedute mai… parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle; popola l’ombra di fantasmi ed il cielo di dei…”.

Il fanciullino “…impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare e… adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e viceversa…”.

“… Il nuovo non si inventa: si scopre…” e la poesia consiste nel trovare nelle cose “il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serenamente di tra l’oscuro tumulto della nostra anima…”.


 LA POETICA

«Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l’oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’ uno e l’ altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d’un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. É, per usare immagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fiori o cavolfiori. Sapete che cosa non è? Non è cuoco e non è fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni intingoli, che i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlandette. Egli non sa se non levare al cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alla meglio, con un torchietto che strappa lì per lì a un salcio: come a dire, unisce i suoi pensieri con quel ritmo nativo, che è nell’anima del bimbo che poppa e del monello che ruzza.

Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali? Senza accorgersene, se mai. Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l’ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro. Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di tutti.

Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma é trascinato; non persuade, ma è persuaso.»[…]

«Bene! Dunque riassumo, come uomo serio che sono. La poesia, per ciò stesso che è poesia, senz’essere poesia morale, civile, patriottica, sociale, giova alla moralità, alla civiltà, alla patria, alla società. Il poeta non deve avere, non ha, altro fine (non dico di ricchezza, non di gloriola o di gloria) che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo. I poeti hanno abbellito agli occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l’ amore, il dolore, la virtù; e gli uomini non sanno il loro nome. Ché i nomi che essi dicono e vantano, sono, sempre o quasi sempre, d’epigoni, d’ingegnosi ripetitori, di ripulitori eleganti, quando non siano nomi senza soggetto. Quando fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s’inventa; si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto. Siffatte quisquilie intorno alla vita del poeta si cominciarono a narrare a studiare a indagare, quando il poeta stesso volle richiamare sopra sé l’attenzione e l’ammirazione che è dovuta soltanto alla poesia. E fu male. E il male ingrossa sempre più. I poeti dei nostri tempi sembrano cercare, invece delle gemme che ho detto, e trovare, quella vanità che è la loro persona. Non codesta quei primi. E tu, o fanciullo, vorresti fare quello che fecero quei primi, col compenso che quei primi n’ebbero; compenso che tu reputi grande, perché sebbene non nominati, i veri poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi.