La morte di Pallante prepara il destino di Turno

La morte di Pallante prepara il destino di Turno

La morte di Pallante prepara il destino di Turno


(Eneide, 10, 433-509)

Il libro decimo si apre con un concilio di dei in cui, dopo un litigio fra Venere e Giunone, Giove decide che le sorti della giornata di battaglia siano affidate al caso e al valore dei guerrieri. Nella pianura Turno infuria, e i Troiani assediati sono sempre più stremati. Ma Enea arriva, con gli alleati: gli Arcadi guidati dal giovane Pallante, figlio di Evandro, e una coalizione di Etruschi guidati da Tarconte. Il loro arrivo risolleva il morale e riaccende la speranza nel campo troiano. Comincia una battaglia feroce, nella quale si distingue Pallante, che rianima i suoi come un capo esperto e coraggioso. L’aristìa (il racconto delle prodezze) di Pallante si dovrebbe concludere con un duello con l’altrettanto giovane e bellissimo Lauso (vv. 434-435), ma interviene Turno, che reclama per sé lo scontro col giovane Arcade. Virgilio anticipa che l’esito sarà favorevole a Turno: sia Pallante che Lauso sono destinati a morire, ma la morte che li attende sarà gloriosa perché saranno uccisi dal più forte dei nemici (rispettivamente Turno ed Enea).

(…) Hinc Pallas instat et urget,

hinc contra Lausus, nec multum discrepat aetas,

egregii forma, sed quis Fortuna negarat

in patriam reditus. Ipsos concurrere passus

haud tamen inter se magni regnator Olympi;

mox illos sua fata manent maiore sub hoste.

Interea soror alma monet succedere Lauso

Turnum, qui volucri curru medium secat agmen.

Ut vidit socios: “Tempus desistere pugnae;

solus ego in Pallanta feror, soli mihi Pallas

debetur; cuperem ipse parens spectator adesset.”

Haec ait, et socii cesserunt aequore iusso.

At Rutulum abscessu iuvenis tum iussa superba

miratus stupet in Turno corpusque per ingens

lumina volvit obitque truci procul omnia visu,

talibus et dictis it contra dicta tyranni:

“Aut spoliis ego iam raptis laudabor opimis

aut leto insigni: sorti pater aequus utrique est.

Tolle minas.” Fatus medium procedit in aequor;

Frigidus Arcadibus coit in praecordia sanguis.

Desiluit Turnus biiugis, pedes apparat ire

comminus; utque leo, specula cum vidit ab alta

stare procul campis meditantem in proelia taurum,

advolat, haud alia est Turni venientis imago.

Hunc ubi contiguum missae fore credidit hastae,

ire prior Pallas, si qua fors adiuvet ausum

viribus imparibus, magnumque ita ad aethera fatur:

“Per patris hospitium et mensas, quas advena adisti,

te precor, Alcide, coeptis ingentibus adsis.

Cernat semineci sibi me rapere arma cruenta

victoremque ferant morientia lumina Turni.”

Audiit Alcides iuvenem magnumque sub imo

corde premit gemitum lacrimasque effundit inanis.

Tum genitor natum dictis adfatur amicis:

“Stat sua cuique dies, breve et inreparabile tempus

omnibus est vitae; sed famam extendere factis,

hoc virtutis opus. Troiae sub moenibus altis

tot gnati cecidere deum, quin occidit una

Sarpedon, mea progenies; etiam sua Turnum

fata vocant metasque dati pervenit ad aevi.”

Sic ait, atque oculos Rutulorum reicit arvis.

At Pallas magnis emittit viribus hastam

vaginaque cava fulgentem deripit ensem.

Illa volans umeri surgunt qua tegmina summa

incidit, atque viam clipei molita per oras

tandem etiam magno strinxit de corpore Turni.

Hic Turnus ferro praefixum robur acuto

in Pallanta diu librans iacit atque ita fatur:

“aspice num mage sit nostrum penetrabile telum.”

Dixerat; at clipeum, tot ferri terga, tot aeris,

quem pellis totiens obeat circumdata tauri,

vibranti cuspis medium transverberat ictu

loricaeque moras et pectus perforat ingens.

Ille rapit calidum frustra de vulnere telum:

una eademque via sanguis animusque sequuntur.

Corruit in vulnus (sonitum super arma dedere)

et terram hostilem moriens petit ore cruento.

Quem Turnus super adsistens:

“Arcades, haec’ inquit ‘memores mea dicta referte

Evandro: qualem meruit, Pallanta remitto.

Quisquis honos tumuli, quidquid solamen humandi est,

largior. Haud illi stabunt Aeneia parvo

hospitia.” Et laevo pressit pede talia fatus

exanimem rapiens immania pondera baltei

impressumque nefas: una sub nocte iugali

caesa manus iuvenum foede thalamique cruenti,

quae Clonus Eurytides multo caelaverat auro;

quo nunc Turnus ovat spolio gaudetque potitus.

Nescia mens hominum fati sortisque futurae

et servare modum rebus sublata secundis!

Turno tempus erit magno cum optaverit emptum

intactum Pallanta, et cum spolia ista diemque

oderit. At socii multo gemitu lacrimisque

impositum scuto referunt Pallanta frequentes.

O dolor atque decus magnum rediture parenti,

haec te prima dies bello dedit, haec eadem aufert,

cum tamen ingentis Rutulorum linquis acervos!

Qui Pallante incalza e preme, qui di fronte a lui Lauso, e la loro età non è molto diversa, belli, ma ad essi la Fortuna aveva negato il ritorno in patria. Tuttavia il rettore del grande Olimpo non sopportò che si scontrassero tra loro; li attende a breve il destino per mano di un nemico più grande. Frattanto l’alma sorella consiglia a Turno, che attraversa in mezzo la schera su un carro veloce come un uccello, di subentrare a Lauso.

Come vide gli alleati disse : “è tempo di desistere dalla battaglia; solo io vengo spinto contro Pallante, solo a me P=allante è dovuto: come vorrei che suo padre fosse qui a guardare!”. Dice così, e gli alleati si ritirarono dalla pianura interdetta. Ma allora, dopo la ritirata dei Rutuli, il giovane, stupido per l’oltraggioso ordine, rimane stupefatto guardando Turno, e gira gli occhi per l’immenso corpo, e squadra tutto da lontano con sguardo truce, e con queste parole in risposta a quelle del re avanza. “Sarò ormai lodato: o per avere strappato le spoglie opime, o per una morte gloriosa: il padre è sereno per ciascuna delle due sorti. Smetti di minacciare”. Dopo aver detto così, avanza in mezzo alla pianura. Il sangue si gela nel cuore degli Arcadi. Turno salta giù dal carro, si prepara ad avvicinarsi a piedi. Come un leone, quando vede dall’alto del suo nascondiglio, lontano sui campi, un torno che si appresta al conflitto, vola verso di lui: non diversa è l’immagine di Turno che avanza. Quando Pallante credette che Turno fosse a tiro di lancia, avanza per primo, se un qualche destino potesse aiutare l’audacia nonostante le forze impari, e parla così al grande cielo: “Per l’ospitalità e la casa del padre, che hai raggiuinto come straniero, ti prego, Ercole Alcide, sii presente alla grande impresa. Possa lui vedere che gli strappo le armi insanguinate, mentre sta morendo, e gli occhi di Turno, nel momento della morte, possano vedermi vincitore”. Udì l’Alcide il giovane, e nel cuore soffocò un gran gemito, e sparse lacrime vane. Allora il padre (Giove) parla al figòlio con parole amorevoli: “per ciascuno è stabilito il giorno; il tempo della vita è per tutti breve e senza ritorno; ma l’opera del valore è proprio questa: rendere lunga la fama con le azioni. Sotto le alte mura di Troia morirono tanti figli di dei, anzi, insieme a loro morì Sarpedone, mio figlio! Il suo destino chiama anche Turno e si avvicina alla meta del tempo che gli è stato concesso”.

Dice così, e ritira lo sguardo dai campi dei Rutuli. Ma Pallante con gran forza scaglia l’asta, e sfodera la fulgida spada dalla profonda guaina. Quella, volando, si conficca dove si leva in alto la corazza che copre la spalla e, aprendosi la via attraverso il bordo dello scudo, infine sfiora anche il gran corpo di Turno. a questo punto Turno, bilanciandola a lungo, scaglia contro Pallante l’asta munita di una punta acuta e dice così: “Guarda se il mio giavellotto non sia più penetrante. La punta, con un colpo vibrante, attraversa nel mezzo lo scudo, tante lamine di ferro, tante lamine di bronzo, nonostante sia coperto da una pelle di toro stesa attorno tante volte; attraversa la resistenza della corazza e colpisce il gran petto.

Lui tenta di strappare la calda asta dalla ferita : per una stessa via escono il sangue e la vita. Crollò sulla ferita (le armi risuonarono) e morendo, con la bocca insanguinata, cadde sulla terra nemica. E turno, standogli sopra, disse: “Arcadi, ricordate e riportate le mie parole a Evandre: gli rimando Pallante come se lo meritò. Concedo l’onore del tumulo, quale che sia, e la consolazione della sepoltura. Non gli costerà poco avere ospitato Enea!” Dicendo così, schiacciò il cadavere col piede sinistro, strappandogli il gran peso del balteo, su cui era scolpito un delitto: un gruppo di giovani turpemente massacrati in una sola notte di matrimonio, e i talami insanguinati, che Clono figlio di Eurito aveva cesellato con molto oro; e adesso Turno se ne vanta e gode di essersi impossessato della spoglia.

O mente degli uomini, ignara del destino e della sorte futura, e incapace di mantenere la misura, se è esaltata da circostanze fortunate! Verrà per Turno un giorno in cui desidererà Pallante incolume, riscattato a gran prezzo e odierà questo giorno e questa spoglia. Ma i compagni in massa riportano Pallante disteso dullo scudo, gemendo e piangendo molto. “o tu che tornerai come grande dolore e grande onore per tuo padre, questo giorno per primo ti ha dato alla guerra, questo stesso giorno te ne sottrae, per quanto tuttavia tu lasci grandi caterve di Rutuli uccisi!

Le Danaidi

Il crimine rappresentato nel balteo di Pallante è legata alla vicenda delle Danaidi: le cinquanta figlie di danao erano state costrette a sposarsi con i cinquanta figli di Egitto, fratello di Danao. Il padre aveva suggerito alle figlie di approfittare della prima notte di nozze per uccidere i mariti, cosa che le figlie, strage che le figlie, obbedientemente, compiono (tutte, tranne una, innamorata del marito) e che costituisce la scena della cesellatura del balteo.