La morte di don Rodrigo

La morte di don Rodrigo

Fermo e Lucia, cap. 9; I Promessi Sposi, cap. 35

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L’episodio della morte di don Rodrigo cambia profondamente nel passaggio dal Fermo e Lucia ai
Promessi Sposi. È una trasformazione significativa, che permette di comprendere come Manzoni
riscrivendo il romanzo abbia voluto abbandonare i toni cupi e a tratti violenti della prima versione,
per trovare uno stile più equilibrato e piano.
Ecco quindi la morte di don Rodrigo nella narrazione del Fermo e Lucia.
Ritto sul mezzo dell’uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e la barba, scalzo, nudo le
gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto di avanzi di biancheria pendenti qua e là a brani
e a filaccica; stava con la bocca semi-aperta guatando le persone raccolte nella capanna con certi
occhi nei quali si dipingeva ad un punto l’attenzione e la disensatezza; dal volto traspariva un
misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare
inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire. Ma in
quello sfiguramento Lucia aveva tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo riconobbero gli altri
due. Quell’infelice da una capanna, posta lungo il viale, nella quale era stato gittato, e dove era
rimasto tutti quei giorni languente e fuor di sè, aveva veduto passarsi davanti, Fermo, e poi il
Padre Cristoforo; senza esser veduto da loro. Quella comparsa aveva suscitato nella sua mente
sconvolta l’antico furore, e il desiderio della vendetta covato per tanto tempo, e insieme un certo
spavento, e con questo ancora una smania di accertarsi, di afferrare distintamente con la vista
quelle immagini odiose che le erano come sfumate dinanzi. In una tal confusione di passioni, o
piuttosto in un tale delirio s’era egli alzato dal suo miserabile strame, e aveva tenuto dietro da
lontano a quei due. Ma quando essi uscendo dalla via s’internarono nelle capanne, il frenetico non
aveva ben saputa ritenere la traccia loro, né discernere il punto preciso per cui essi erano entrati
in quel labirinto. Entratovi anch’egli da un altro punto poco distante, non vedendo più quegli che
cercava, ma dominato tuttavia dalla stessa fantasia, era andato a guardare di capanna in capanna,
tanto che s’era trovato a quella in cui mettendo il capo su la porta aveva rivedute in iscorcio quelle
figure. Quivi ristando stupidamente intento, udì quella voce ben conosciuta che nel suo castello
aveva intuonata al suo orecchio una predica, troncata allora da lui con rabbia e con disprezzo, ma
che aveva però lasciata nel suo animo una impressione che s’era risvegliata nel tristo sogno
precursore della malattia. Quella voce lo teneva immobile a quel modo che altre volte si credeva
che le biscie stessero all’incanto; quando Lucia s’accorse di lui. Dopo la sorpresa il primo
sentimento di quella poveretta fu una grande paura; il primo sentimento del Padre Cristoforo e di
Fermo: bisogna dirlo a loro onore, fu una grande compassione. Entrambi si mossero verso
quell’infermo stravolto per soccorrerlo, e per vedere di tranquillarlo; ma egli a quelle mosse, preso
da un inesprimibile sgomento, si mise in volta, e a gambe verso la strada di mezzo; e su per quella
verso la chiesa. Il frate e il giovane lo seguirono fin sul viale, e di quivi lo seguivano pure col
guardo: dopo una breve corsa, egli s’abbattè presso ad un cavallo dei monatti che sciolto, con la
cavezza pendente, e col capo a terra rodeva la sua profenda: il furibondo afferrò la cavezza, balzò
su le schiene del cavallo, e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le

calcagna, e spaventandolo con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di tutta carriera. Un romore si
levò all’intorno, un grido di «piglia, piglia»; altri fuggiva, altri accorreva per arrestare il cavallo; ma
esto spinto dal demente, e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s’inalberava, e
scappava vie più verso il tempio.
I due dei quali egli era stato altre volte nemico tornarono tutti compresi alla capanna, dove
Lucia stava ancora tutta tremante.
«Giudizii di Dio!» disse il padre Cristoforo: «preghiamo per quell’infelice».
Nel Fermo e Lucia, quindi, l’ultima macabra immagine del malvagio don Rodrigo è quella di una
figura stravolta e diabolica che fugge a cavallo, conservando anche davanti alla morte tutto il suo
furore e la sua superbia. Nei Promessi Sposi gli estremi momenti del persecutore di Renzo e Lucia
sono narrati con toni meno accesi. Don Rodrigo muore nel silenzio, in un angolo oscuro del
Lazzaretto, ormai privo della superbia che ne aveva sempre caratterizzato il personaggio.
Dopo pochi passi, il frate si fermò vicino all’apertura d’una capanna, fissò gli occhi in viso a
Renzo, con un misto di gravità e di tenerezza; e lo condusse dentro.
La prima cosa che si vedeva, nell’entrare, era un infermo seduto sulla paglia nel fondo; un
infermo però non aggravato, e che anzi poteva parer vicino alla convalescenza; il quale, visto il
padre, tentennò la testa, come accennando di no: il padre abbassò la sua, con un atto di tristezza e
di rassegnazione. Renzo intanto, girando, con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti,
vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte sur una materassa, involtato in un lenzolo,
con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta: lo fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece un
passo indietro; ma il frate, facendogli di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo tirò
appiè del covile, e, stesavi sopra l’altra mano, accennava col dito l’uomo che vi giaceva.
Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di
macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione
violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando,
con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere
adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.