LA MORTE DI DIDONE ENEIDE IV VV 584 A 666

LA MORTE DI DIDONE ENEIDE IV VV 584 A 666

LA MORTE DI DIDONE ENEIDE IV VV 584 A 666

Il IV libro dell’Eneide contiene la tormentata vicenda della storia di amore tra Enea e la regina di
Cartagine Didone. Nata quasi per gioco per il volere della dea Venere, che voleva semplicemente rendere
la permanenza di suo figlio a Cartagine la più sicura possibile, questa relazione diventa velocemente una
vera e propria tragedia. Enea è stato infatti costretto dal volere del fato a partire per raggiungere il Lazio,
e per questo motivo Giove invia il suo messaggero Mercurio a ricondurre l’eroe a quel destino che il
protagonista si è quasi dimenticato. Ma così facendo trasforma il figlio di Anchise in un inconsapevole
carnefice, sordo a tutte le implorazioni sempre più accorate che la regina di Cartagine rivolge al suo
indirizzo. Si apre così l’ultima fase di questa relazione, che Virgilio descrive con toni patetici. Durante la
notte Enea fa salpare la flotta e prende il largo evitando un ultimo confronto con la sua amante, che
poteva essere anche letale, dal momento che si temeva che Didone potesse far appiccare fuoco alla
flotta, uccidendo tutti i troiani. In un primo momento la regina pensa solo alla vendetta, passando
velocemente al rimpianto per non aver ucciso i troiani quando era ancora possibile. Didone evoca dunque
diverse divinità vendicatrici e lancia una terribile maledizione su Enea stesso e i suoi discendenti. Infine,
stravolta dall’odio, la regina di Cartagine si suicida, non prima di aver scagliato contro Enea, il traditore,
terribili maledizioni, che gettano un’ombra inquietante sui futuri destini di Roma.
L’episodio della morte di Didone è strutturata da Virgilio con una sapiente regia di straordinario effetto
drammaturgico. La scena esordisce con le tenebre notturne che si aprono come un sipario per mostrare
nella cruda luce del mattino le vele della flotta di Enea che prendono il largo; l’aurora, tradizionalmente
associata alla vita, appare qui invece presagio di morte. La sequenza si conclude con l’immagine patetica
di Didone che si batte il petto con i capelli scarmigliati.
Segue il patetico monologo in cui la regina offesa sfoga la sua frustrazione, vorrebbe far pagare
all’advena l’affronto subito; la volontà di vendetta si traduce immediatamente in risposta armata; salvo
riconoscere che è ormai troppo tardi: Didone non può fare altro che rammaricarsi di non aver impedito a
suo tempo lo sbarco dello straniero e di non averlo sterminato assieme a tutti i suoi uomini, anche a
costo di rimanere a sua volta uccisa. Allo sfogo della regina umiliata si sovrappone quello della donna
tradita, e Didone arriva a espressioni di odio selvaggio. Due elementi colpiscono: Didone realizza di
essere votata in ogni caso alla morte, e inoltre il sarcasmo con cui dipinge la pietas che rappresenta il
carattere saliente di Enea.
La seguente maledizione, introdotta da una invocazione agli dei, è divisa in due parti: nella prima Didone,
preso atto che l’arrivo di Enea in Italia è fatale, augura all’eroe di dover lottare duramente per insediarsi
nella nuova terra e di morire prematuramente, senza poter godere delle gioie della pace; nella seconda
l’augurio espresso dalla regina è che odio eterno e implacabile divida sempre i due popoli, arrivando a
prefigurare la futura venuta di Annibale vendicatore che metterà a ferro e fuoco l’Italia.
Si arriva infine al momento del suicidio: subito è affermata la volontà che si è ormai impadronita della
regina; dopo avere messo in atto un’abile simulazione del rituale magico per liberarsi dall’amore e dal
ricordo di Enea, chiamando in causa la sorella Anna, in realtà allo scopo di eluderne la vigilanza, Didone si
ritira nelle sue stanze per mettere in atto il suo vero proposito: raffigurata come folle, con sul volto i
segni della devastazione interiore (lo sguardo iniettato di sangue, le macchie sul viso già cosparso di
pallore cadaverico), snuda con gesto teatrale la spada di Enea. La vista del letto la getta però in una
malinconia dolorosa, la furia si stempera in amaro rimpianto: Didone passa in rassegna la propria vita
vissuta invano e richiama dolente l’antica idea dell’”invidia degli dei”, che non consentono a un mortale di
essere troppo felice. Le ultime sue parole sono compenetrate di questo nuovo rancore che ha preso il
posto della furia selvaggia, e Didone ribadisce la propria maledizione: il proprio sangue versato costituirà
per Enea una contaminazione che lo perseguiterà per sempre. Infine l’esecuzione vera e propria dell’atto:
qui Virgilio con sapiente intuizione abbandona il punto di vista del narratore epico (esterno) per adottare
quello interno delle ancelle atterrite.
Nell’epilogo Virgilio ricorda come ad uccidersi non sia stata una donna qualunque, ma una regina: lo
strazio esce dalla reggia e invade la città, giunge fino al cielo. La similitudine conclusiva, di alto sapore
epico, sugella l’analogia tra il dolore del singolo e quello di un intero popolo.
Il lessico dell’episodio è altamente drammatico. Uno dei primi aspetti a essere sottolineato è la selvaggia
violenza del sentimento che rapisce la mente della regina: Virgilio ha sfruttato il repertorio del linguaggio
erotico di tradizione neoterica, insistendo in particolare sulla passione e sul pallore che contrasta
cromaticamente con le immagini del fuoco e del sangue e propone l’immagine della donna votata alla
morte. Di grande violenza è poi il repertorio verbale. Si notano infine passaggi di straordinaria densità
espressiva con inarcature, iperbati, anafore, metafore, allitterazioni, chiasmi.