LA GINESTRA PARAFRASI vv 1-317
giacomo leopardi
(vv. 1-86) Qui sul fianco riarso del monte Vesuvio, tremendo annientatore, che nessun altro tipo di vegetazione rallegra, spargi i tuoi cespi solitari intorno, profumata ginestra, appagata dai deserti. Ti vidi anche un’altra volta adornare con i tuoi cespi le solitarie rovine che circondano la città che un tempo fu dominatrici di popoli (Roma), rovine che sembrano rendere al viandante, con il loro cupo e silenzioso aspetto, una testimonianza dell’antica potenza ormai perduta. Adesso torno a vedere in questo luogo te,o ginestra, che prediligi i luoghi tristi e abbandonati dalla gente, te che sei compagna di grandezze decadute. Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante, dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio;questi luoghi deserti furono un tempo villaggi prosperi e campi coltivati, e biondeggiarono di messi, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e ville sontuose, che offrirono gradita ospitalità al riposo dei potenti; e furono città famose (Pompei, ercolano, Stabia) che il Vesuvio,lanciando torrenti di lava dal cratere che erutta fuoco,seppellì insieme agli abitanti. Oggi le rovine avvolgono il paesaggio desolato dove tu solo dimori, o fiore gentile e, quasi rivelando compassione per le altrui sciagure, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione. Chi ha l’abitudine di esaltare con stolido ottimismo la nostra condizione venga in queste campagne desolate e constati in che misura il genere umano stia a cuore alla natura che ci ama. E qui potrà anche giudicare opportunamente la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta, con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ più forti annientare del tutto. Su questi pendii sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità (IRONIA).
Vieni a guardare e a verificare le tue certezze in questi luoghi, secolo stolto e superbo, che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento e, volti i passi in opposta direzione, esalti il ritorno alle passate dottrine E chiami ciò progresso. Tutti gli intellettuali di cui il destino ingiusto ti rese padre esaltano il tuo ragionare infantile, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano. Io non andrò sottoterra macchiato di una simile vergogna, ma avrò rilevato nel modo più esplicito il disprezzo che nutro verso di te, benché sia consapevole che chi non piacque ai propri contemporanei è destinato ad essere dimenticato: nonostante io sappia che dimenticare preme chi alla propria età increbbe troppo. Dell’essere dimenticato, che con te sarà comune, fin da questo momento assai mi rido. O secolo sciocco e superbo elabori progetti di libertà politica e civile e nel contempo assoggetti a dogmi irrazionali quel pensiero in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie medioevale e in nome del quale soltanto si avanza sulla strada della civiltà, la civiltà che sola rende migliore il destino della società. Non hai avuto la forza e il coraggio di accettare le conclusioni a cui era giunto il pensiero(il razionalismo illuministico), ossia che la natura ci ha assegnato una condizione dolorosa e infima nella gerarchia degli esseri. Per questo volgesti le spalle a quel pensiero filosofico che rese evidenti queste verità e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine (il materialismo illuministico) e, viceversa, chiami coraggioso colui che illudendo se stesso o gli altri, innalza, esaltandola, la condizione umana fino al cielo.
(vv.87-157) Un uomo di umile condizione ed infermo, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non si vanta né si illude di essere ricco o forte e non ostenta ridicolmente una vita splendida o un fisico in piena salute fra la gente; ma senza vergognarsene non nasconde di essere debole e povero e si dichiara tale apertamente e giudica la sua condizione secondo quello che è in realtà. Non considero saggio e coraggioso, ma stolto quel essere vivente che, benché destinato a morire e cresciuto in mezzo ai dolori, dichiara di essere stato creato per provare piacere e stende scritti che trasudando orgoglio disgustoso, promettendo esaltanti destini e straordinarie felicità – quali non solo questa
terra, ma anche il cielo intero ignora – a popoli che un maremoto, un’epidemia, una scossa di terremoto distruggono in un modo tale che a stento rimane il ricordo di essi.
(vv.111)Considero indole nobile e dignitosa quella di colui che ha il coraggio di guardare in faccia il destino umano e che con franchezza, senza mistificazioni, o utopistiche illusioni, riconosce la sorte dolorosa e l’insignificante e fragile condizione che ci furono assegnate; (indole nobile è) quella che si rivela grande e forte nelle sofferenze (TITANISMO), che non ritiene responsabili delle proprie sciagure gli altri uomini, aggiungendo in questo modo alle sue miserie, già tanto numerose, odio e rancore tra fratelli, ossia un male ancora peggiore, ma attribuisce l’origine del dolore umano a colei che è la vera responsabile (la Natura), che è madre degli uomini, in quanto li ha generati, ma, per il trattamento che riserva loro, è da considerarsi alla stregua di una matrigna. (Indole nobile è quella che)Considera la natura una nemica, pensando, come del resto è, che la società umana si sia unita e organizzata all’origine per combattere e contrastare la natura,(indole nobile è quella che) ritiene che tutti gli uomini debbano essere alleati fra loro, e tutti abbraccia con amore vero, prestando valido e sollecito aiuto, e aspettandolo in cambio nei pericoli che a vicenda sovrastano gli uomini e nel dolore della lotta comune contro la natura. (indole nobile è quella che) Ritiene che sia da sciocchi armare la propria mano per contrastare un altro uomo e preparare insidie e danni al proprio vicino, così come sarebbe sciocco in un campo circondato da nemici, proprio mentre infuriano gli assalti, dimenticandosi di questi, aprire ostilità crudeli e feroci contro i propri compagni (Il pensiero del Leopardi si ricollega qui ai concetti roussoniani di fraternità e cosmopolismo) Questo modo di pensare (coraggioso e generoso) quando sarà, come fu agli inizi dell’umanità, evidente al popolo, e quando quel terrore (dei fenomeni naturali) che alle origini spinse gli uomini primitivi a stringere legami sociali contro le forze naturali ostili, sarà almeno parzialmente ripristinato da una sapienza conquistata con l’uso della ragione, l’onesta e la rettitudine dei rapporti sociali,(conversar cittadino),la giustizia e la pietà verso gli altri, avranno allora un fondamento (radice) ben diverso che non fantasie inconsistenti e superbe(superbe fole),fondandosi sulle quali l’onestà del popolo può reggersi (star suole in piedi) a malapena, così come può reggersi colui che si basa (ha la sede) sull’errore.
(vv. 158-201) Spesso in questi luoghi alle pendici del vulcano che, desolate, la lava solidificata ricopre di scuro, e sembra accavallarsi come onde marine, trascorro la notte; e sulla campagna triste in azzurro purissimo vedo dall’alto brillare le stelle, cui da lontano il mare fa da specchio, e tutto in giro di scintille nella cavità serena, immensa, del cielo brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci rivolgo, che agli occhi sembrano un punto, mentre sono immense, tanto che rispetto a loro la terra e il mare sono davvero un punto; per quelle stelle non solo l’uomo, ma anche questo pianeta dove l’uomo è nulla è sconosciuto del tutto; e quando scruto quella ancora lontana nebulosa, che a noi pare quasi nebbia, a cui non l’uomo e non la terra soli, ma insieme, infinite nel numero e nella grandezza, le stelle del nostro sistema solare, compreso il sole luminoso o sono sconosciute, o così paiono come essi alla terra, un punto di luce nebulosa; al pensiero mio che sembrino allora, o genere umano? E io, ricordando la tua condizione miserevole, di cui è testimonianza il luogo in cui mi trovo che, nonostante ciò, tu, credi di essere stata destinata ad essere dominatrice e scopo ultimo dell’universo, e quante volte ti sei compiaciuta immaginando che gli dei, creatori dell’universo, siano scesi in questo oscuro granello di sabbia che ha nome a terra per prendersi cura di te ed abbaino conversato con piacere insieme agli uomini e che perfino il secolo attuale, che pare di tanto superiore alle età precedenti per conoscenze e grado di civiltà, col restaurare le credenze religiose schernite nel Settecento, insulta coloro che conservano un po’ di saggezza, quale sentimento o quale riflessione prevale allora in conclusione nei tuoi riguardi, o infelice genere umano? Non so dire se prevale il riso per l’assurdità dei tuoi errori o la pietà per il bisogno di conforto che ti induce a quelli.
(vv.202-236) Come un frutto di modeste dimensioni, nel cadere da un albero, che il semplice processo di maturazione fa precipitare a terra in autunno inoltrato, senza l’intervento di alcuna forza e schiaccia, annienta e sommerge in un attimo gli amati nidi scavati dalle formiche con grande fatica e lavoro e provviste che i laboriosi insetti avevano accumulato con previdenza, a gara, durante l’estate; allo stesso modo le tenebre ed una valanga piombando dall’alto, dopo esser stata scagliata verso il cielo dalle viscere rombanti del vulcano, oppure un’immensa piena di massi liquefatti, o di metalli e di arena infuocata, scendendo furiosa tra la vegetazione lungo il pendio della montagna, devastò, distrusse e ricoperse in pochi istanti le città che il mare lambiva là sulla costa: per cui sopra le città sepolte oggi pascolano le capre, e nuove città sorgono dall’altra parte, distanti dal mare, di cui le città sepolte costituiscono le fondamenta, e le mura diroccate, l’altro monte al suo piede quasi calpesta. La natura non nutre verso la specie umana più sollecitudine e interesse di quanto nutre verso le formiche, e se avviene che le stragi sono meno frequenti tra gli uomini che tra le formiche, ciò dipende solo dal fatto che la stirpe degli uomini è meno feconda.
(vv.237-296) Ben milleottocento anni passarono dopo che sparirono, sepolti dalla forza della lava infuocata, le città popolose e il giovane contadino addetto ai vigneti, che la terra arida e bruciata fa crescere a stento in questi campi malgrado siano passati tanti secoli alza lo sguardo con apprensione alla sommità del vulcano, che neppure minimamente si è fatta più mite ed ancora sovrasta tremenda, ancora minaccia a lui strage ed ai figli e ai loro averi poverelli. E spesso il meschino trascorrendo la notte insonne all’aperto sul tetto della modesta abitazione e balzando più volte, scruta con attenzione l’avanzare del fronte lavico che si riversa dall’interno del vulcano sul pendio sabbioso, al cui bagliore riluce la marina di Capri, il porto di Napoli e Mergellina. E se lo vede avvicinarsi, o se mal sente gorgogliare nella profondità del pozzo di casa l’acqua che ribollendo segnala il sopraggiungere della lava, sveglia i figli, sveglia la moglie in fretta, e via, con ciò che delle loro cose possono sottrarre alla distruzione; scappando, vede da lontano la sua abitazione di sempre, e il piccolo campo, che li fu l’unica difesa dalla fame, essere lambito dal fronte lavico che avanza, e inesorato per sempre si distende sul campo e sull’abitazione per sempre si distende sul campo e sull’abitazione. Pompei, cancellate dall’eruzione, torna alla luce dopo un oblio protrattosi per molti secoli, che l’avidità di guadagni o un sentimento di pietà restituiscono alla luce togliendolo dalla terra; e il visitatore contempla dalla piazza deserta, stando tra le file dei condannati diroccati, la sommità ancora minaccia le rovine sparse intorno. E nell’errore delle notte che cela ogni cosa per i vuoti teatri , per i templi che non hanno più la forma originaria e per le case dal tetto sfondato, dove il pipistrello nasconde i piccoli per proteggerli, come una fiaccola infausta che lugubre si aggiri per i palazzi vuoti, avanza il bagliore della vita che porta lutti con sé, che da lontano rosseggia nelle tenebre della notte e colora i luoghi tutto intorno.
(v. 289) Così la natura sta immobile, sempre giovane, indifferente all’uomo, alle età che egli chiama antiche e al susseguirsi delle generazioni, o meglio, avanza anch’essa ma con un processo così lento che sembra stare immobile. Nel frattempo i ragni, i popoli, le nazioni vanno in rovina; la natura assiste impassibile, e l’umanità rivendica a se con arroganza il vanto dell’immortalità.
(vv.297-317) E tu, flessibile ginestra, che con i tuoi cespugli profumati adorni queste campagne desolate, anche tu presto soccomberai alla crudele possanza del fuoco sotterraneo, che ridiscendendo per il medesimo percorso stenderà il suo flutto infuocato, avido di distruggere e bruciare tutto quello che incontra, sui tuoi cespugli flessibili. E tu, senza opporre resistenza piegherai il tuo capo innocente sotto il peso della lava che provoca morte: ma non avrai piegato il tuo capo prima di allora per supplicare inutilmente in modo codardo davanti al fuoco della lava che sta per sopprimerti; ma non hai mai alzato il tuo capo con insensata presunzione alle stelle, né lo hai eretto sul deserto dove, non per tua volontà ma per caso, cresci e sei nata, ma tanto più saggia, tanto meno insensata dell’uomo, in quanto non hai mai avuto la presunzione di ritenere che la tua stirpe fosse stata resa immortale ad opera del destino o tua.