La Divina Commedia analisi del canto primo dell’Inferno

La Divina Commedia analisi del canto primo dell’Inferno


La divina Commedia narra del viaggio che Dante compie nell’oltretomba, partendo dai cupi gironi infernali fino ad arrivare ai cieli più superiori del Paradiso, e il tutto dura tre giorni. L’anno in cui la vicenda si svolge è il 1300. La scelta di questa data, come del resto tutti i riferimenti numerologici presenti nella Commedia, non è casuale. Il 1300 era stato l’anno del Giubileo di Papa Bonifacio VIII, e rappresentava l’anno in cui si svolgeva la purificazione della cristianità (così come il viaggio aveva lo scopo di purificare Dante stesso). Persino il giorno è scelto con accuratezza: potrebbe essere la notte tra il 7 e l’8 aprile, venerdì santo, o la notte tra il 25 e il 26 marzo, data altamente simbolica perché oltre ad essere per i fiorentini il primo giorno dell’anno, sarebbe stata la data in cui – secondo la tradizione – coincidevano la creazione di Adamo e la morte di Cristo.
L’incipit quasi leggendario dell’opera recita “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. Tenendo conto della tradizione biblica e aristotelica, l’età in cui un uomo sarebbe arrivato alle metà della propria vita dovrebbe corrispondere a 35 anni, ma forse non si riferisce all’età di Dante in particolare, forse è inteso più in generale a tutta l’umanità. Geograficamente la scena ha luogo nell’emisfero boreale, vicino al monte di Sion, dove sorgeva un tempo il tempio del re Salomone. La selva a cui Dante allude rappresenta un periodo infelice e torbido che può essere inteso (allo stesso modo dell’età) sia in particolare riferimento a Dante sia più in generale all’umanità intera, degradata dal peccato e dalla corruzione. In realtà i fatti da cui Dante inizia a raccontare sono posteriori all’entrata e alla permanenza nella selva: questo periodo rappresenta un antefatto che Dante solo cita e rammenta per via della grande amarezza e angoscia che gli ha lasciato. Ricorda di avere smarrito la via che stava percorrendo per via del sonno che l’aveva colto e di essersi ritrovato a girovagare in questa foresta oscura ed angosciosa (Il sonno altera le percezioni di Dante che finisce nella selva così come l’uomo può cascare nel peccato solo quando la mente è offuscata). Tuttavia decide di resistere al dolore che questo ricordo risveglia per poter raccontare anche il bene che vi ha trovato (probabilmente si riferisce a Virgilio e al viaggio futuro, sebbene non incontri Virgilio nella selva). Uscito da questo foresta oscura, aspra e intricata, Dante si ritrova in una piaggia diserta, cioè in una valle deserta ai piedi di un colle illuminato dal sole. Il fatto che il posto sia deserto può avere vari aspetti simbolici: in primis, il deserto è da sempre lo scenario ideale della lotta tra Bene e Male; il deserto, poi, è il luogo della predicazione dei profeti e della penitenza; il fatto che la piaggia sia deserta può anche significare che, tra coloro che finiscono nella selva, quasi nessuno a parte pochi prescelti come Dante riescono ad uscirvi. Dante comincia poi a descrivere il colle che si trova davanti: il fatto che i raggi del sole lo illuminino è una caratteristica assai positiva, dal momento che la luce solare e il sole stesso sono rappresentazione di Dio e della sua Grazia. Dante, infatti, è attratto verso l’alto, ma ancora esita nella sua salita, e rimane in una posizione ancora simbolica, con un piede che tende alla salita e l’altro piede – quello saldo – che invece è attratto verso il basso. Dal momento che la luce divina si trova in cima al colle e che ai suoi piedi si trova la selva, si capisce che Dante è ancora incerto nel suo salire per ritrovare la grazia e che è ancora in qualche modo prigioniero della perdizione.
A questo punto a Dante si presenta un ulteriore ostacolo alla salita: tre fiere spaventose gli sbarrano la strada. Per prima gli compare una lonza, per secondo un leone e per terza la più spaventosa di tutte, una lupa. Sul significato attribuibile alle tre bestie si è a lungo discusso e si discute ancora. Innanzitutto in questa scena c’è un richiamo alla Bibbia e al profeta Geremia (in cui si parla di una lonza, un leone e un lupo). La convenzione è di collegare la lonza al peccato della lussuria, il leone alla superbia e la lupa all’avarizia, intesa come cupidigia. E’ da rimarcare il cambio di sesso che Dante ha attuato su questo animale (in Geremia era un lupo), forse per riferirsi ad un soggetto particolare, ad esempio la Curia Romana o la città di Firenze. Altre interpretazioni assegnano alla lonza l’attributo della malizia, al leone della matta bestialità e alla lupa l’incontinenza; altri ancora preferiscono la terna invidia, superbia e avarizia. Ad ogni modo, la scelta preferita fin dall’antichità rimane la prima esposta. La lupa, comunque, è fra le tre quella che maggiormente spaventa Dante, e quella che più gli ostacola il cammino. Il significato di questo cammino diventa a questo punto importante. E’ da chiarire che non si tratta più della diritta via che Dante ha smarrito prima di perdersi nella selva. Nel Convivio Dante tratta di due strade che portano alla felicità, quella della vita attiva che porta la felicità morale, e quella della vita di contemplazione che porta la felicità contemplativa. Se prima di perdersi Dante percorreva la strada della felicità morale, dopo essere uscito dalla selva, il poeta si ritrova a salire il sentiero della felicità contemplativa. Ma il suo passo è incerto, e non trova da solo la forza per aggirare l’ostacolo delle tre fiere: questo perché, prima di raggiungere la vetta della Grazia, c’è bisogno che Dante percorra un lungo ed estenuante percorso conoscitivo che passa attraverso la conoscenza della colpa, della pena e della speranza. Per volere divino, dunque, gli viene assegnata una guida, Virgilio, che lo scorti attraverso il mondo ultraterreno iniziando dall’Inferno, passando per il Purgatorio e terminando con il Paradiso.
La comparsa di Virgilio viene descritta attraverso una sinestesia interessante: al verso 63 Dante scrive di vedere un uomo che per lungo silenzio parea fioco. La sinestesia è una figura retorica che consiste nell’accostare termini appartenenti a due sfere sensoriali diverse, come in questo caso silenzio (che riguarda l’udito) e fioco (che riguarda la vista). Il significato di questa scelta stilistica è duplice: si può intendere che Virgilio, essendo morto e quindi muto da tanto tempo, parli con voce flebile. Oppure si potrebbe pensare che la voce di Virgilio sia così fioca perché non è stata ascoltata dall’umanità, ma solo da qualche predestinato come Dante.
La figura di Virgilio è chiaramente quella del profeta, così come altrettanto chiaramente quella di Dante è la figura del penitente (del resto il suo comportamento segue gli schemi del penitente, gridando “Miserere me” e abbassando il capo). Siamo dunque arrivati alla fase del riconoscimento delle proprie colpe e della richiesta di aiuto.
Ritornando a Virgilio, è interessante notare che egli è una delle figure della Commedia per cui si parla di critica figurale. Su questo nel 1938 Hauerback pubblica il saggio “Figura”, in cui spiega questo concetto, proprio della retorica medievale: si usavano personaggi o eventi storici reali come allegoria, come simbolo, facendogli assumere un significato pur non perdendo la loro identità storica. In questo caso, ad esempio, Virgilio diventa la figura della Ragione, così come Beatrice diventa la figura della Teologia.
Virgilio inoltre è anche un poeta: il fatto che sia stato scelto proprio un poeta per guidare Dante verso la salvezza significa che Dante credeva che quest’ultima potesse essergli concessa attraverso la poesia, attraverso lo bello stile. A proposito di questo, c’è da chiarire un concetto che di primo acchito può stupire, ma che in realtà ha una sua logica: perché un’opera di contenuto tragico ai nostri occhi come questa è stata intitolata Commedia? La commedia come noi la intendiamo e come la intendevano gli antichi era qualcosa di ben diverso. Eppure Dante sceglie di chiamare così la sua opera per via di una schema che prevedeva che la tragedia avesse un inizio lieto e un finale tragico, mentre che la commedia avesse un inizio tragico ed un finale lieto. Dal momento che Dante parte tragicamente attraversando l’Inferno e finisce felicemente salendo in Paradiso, l’opera è stata giustamente classificata Commedia.
Durante il suo discorso, Virgilio, oltre a presentarsi, accenna all’interessante figura del veltro, facendo una profezia. Il veltro sarebbe arrivato e avrebbe ucciso la lupa che tanto faceva penare Dante, e sarebbe nato tra feltro e feltro, cioè da umili origini o comunque la sua vita sarebbe in qualche modo legata alla povertà e alla semplicità. Che cosa rappresenti questo veltro ancora non è chiaro. Potrebbe simboleggiare qualche figura politica importante, provvidenziale, qualche imperatore, ad esempio. Oppure, visto che il veltro è un cane da caccia, forse Dante con un gioco di parole alludeva a Cangrande della Scala.
Virgilio persuade Dante ad abbandonare la scalata del colle, sbarratagli dalla lupa e dalle fiere, per ripiegare su un altro cammino in cui lui gli avrebbe fatto da guida, attraversando l’oltretomba per avere coscienza della colpa e della pena. Una volta acquisite queste conoscenza, Dante avrebbe ottenuto la salvezza. Se poi a Dante fosse venuto il desiderio di visitare anche il Paradiso, allora avrebbe dovuto lasciarlo ad una guida più degna di lui (Beatrice).