LA CONGIURA DI CATILINA

LA CONGIURA DI CATILINA

Il tradimento, invece, venne da una donna, Fulvia, moglie di Quinto Curio, ex senatore entrato nel gruppo dei congiurati. La donna riuscì a carpire informazioni al marito, un individuo poco serio e facile alla chiacchiera, per poi rivenderle in moneta sonante alla polizia, ma soprattutto a Cicerone. Marco Tullio venne quindi a sapere che Catilina aveva impiegato ogni suo avere per la preparazione militare della congiura, stava assoldando, tramite uomini come Caio Manlio, Settimio, Caio Giulio, Caio Marcello, soldati in Etruria, nel Piceno, in Umbria, in Puglia. Ad un colpo di mano in città, nel quale i catilinari avrebbero assassinato gli avversari nel sonno, si sarebbe accompagnato quindi un movimento di truppe verso l’Urbe. Altre informazioni utili a Cicerone vengono da Cesare che, abilmente, rimane ai margini della congiura, per vedere come si sviluppa, e allo stesso tempo aiuta Cicerone. Nel Bellum Catilinae, lo storico Sallustio si impegnerà con zelo per smentire queste accuse nei confronti del suo padrino. Cicerone aveva consistenti elementi per sventare la congiura, ma mancava di prove concrete per denunciare Catilina e i suoi uomini di fronte al Senato. Non poteva bruciare i suoi informatori (tra l’altro poco affidabili e facilmente attaccabili in un processo), e non aveva nulla di inoppugnabile, di scritto. Il Senato, poi, si dimostrava scettico sulle sue continue allusioni ad una catastrofe imminente.

A togliere le castagne dal fuoco a Cicerone (che non avrebbe mai tentato una prova di forza, temendone le conseguenze in caso di fallimento) fu Crasso che, insieme a due senatori, Marco Marcello e Scipione Metello, si recarono a casa di Cicerone portando con sé alcune lettere nelle quali, a sentir loro, c’era la prova scritta della congiura. Erano lettere anonime indirizzate a vari senatori. Crasso aveva aperto la sua, nella quale si annunciava un’azione sanguinaria imminente. Non ci vuol molto a comprendere che a redigere quelle lettere era stato proprio Crasso, sfruttando informazioni passategli da Cesare, che sulla congiura, come detto, era ben informato. Il giorno dopo Cicerone ebbe buon gioco nella seduta del Senato a far approvare il Senatus Consultum Ultimum col quale si davano pieni poteri ai consoli. Catilina, presente, ovviamente smentì e propose di consegnarsi per gli arresti domiciliari nella casa di qualche senatore al di sopra ogni sospetto (era, questa, una misura tradizionale a Roma).

Cicerone nel frattempo si fornì di una scorta impressionante. I ribelli, intanto, avevano stabilito il proprio quartier generale a Fiesole, guidati da Caio Manlio. Il Senato inviò truppe al comando di due generali, Quinto Marcio e Quinto Metello, rispettivamente a Fiesole e nelle Puglie. La congiura era quindi scoperta, eppure Catilina continuava a farsi vedere, a Roma, nei luoghi che contano.

Egli era stato messo formalmente agli arresti domiciliari nella casa di Marco Metello (del quale si pensava, tra l’altro, facesse parte dei congiurati), dopo che il senatore Marco Lepido, e lo stesso Cicerone, si erano rifiutati di prenderlo in consegna. Ci si è chiesti perché Catilina, a questo punto, non abbia fatto cadere ogni suo proposito. La congiura era smascherata, e le truppe governative stavano andando a cacciare i rivoltosi nel fiesolano. Nessuno è riuscito a darne una spiegazione. Quel che è certo è che Catilina prepara un’ultima riunione di congiurati, beffardamente, nella casa in cui è agli arresti domiciliari. È la notte tra il 5 e il 6 novembre del 63 a.C., e il gruppo prende una decisione che si rivelerà fondamentale: Catilina avrebbe preso la strada di Fiesole, raggiungendo Manlio e i suoi uomini, mentre alcuni congiurati (Lentulo, Cetego e Cassio) avrebbero preparato l’insurrezione della plebe in città.

Ultima mossa: il governo organizza distribuzioni gratuite di grano per tenere calmo il popolo. La congiura prende comunque il via, disperatamente. Il 7 novembre due congiurati, Vergunteio e Cornelio, si recano all’abitazione di Cicerone, con i pugnali sotto la toga, ma Cicerone non farà aprire. I due, smascherati, lasceranno la città. Si giunge quindi alla leggendaria riunione del Senato dell’8 novembre, presso il tempio di Giove Statore ai piedi del Palatino. Il luogo è facilmente difendibile e pieno zeppo di guardie armate. Il gesto di sfida, terribile e magnifico, di Catilina lascia ammutoliti i senatori: il patrizio si presenta nel consesso, va a sedersi (completamente isolato) su un gradino.  Catilina non sa ancora che verrà sommerso dalla mitica orazione (che passerà alla storia, riveduta e corretta, come Prima Catilinaria) di Cicerone. Ovviamente i toni, in quella drammatica seduta, furono meno fermi di come immortalato in seguito da Cicerone.

Ripetutamente, Cicerone chiese a Catilina di lasciare la città. Perché Catilina non venne arrestato? Dopo tutto Cicerone, da ormai venti giorni, avrebbe avuto quel potere. Probabilmente Cicerone temeva le conseguenze dell’arresto di Catilina (la città era però, come detto, presidiata): forse con quell’esortazione Cicerone (che già sapeva delle intenzioni di fuga di Catilina), voleva apparire come colui che lo aveva spinto a questa decisione. Arrestare Catilina, poi, avrebbe significato istruire un processo, nel quale l’imputato, secondo le leggi, avrebbe potuto appellarsi al popolo, al giudizio dei comizi centuriati. L’unica soluzione – ma che avrebbe richiesto a Cicerone un coraggio che non aveva – era fare arrestare l’avversario e farlo giustiziare senza processo. Catilina, quindi, poté ascoltare in tutta calma l’orazione di Cicerone, finché non lo interruppe, cercò di giustificarsi, di dimostrare che un patrizio come lui non avrebbe mai mirato ad una rivoluzione pericolosa per la Repubblica. Non poté finire il discorso, perché i senatori cominciarono a lanciargli improperi. L’uomo si alzò e (a quanto afferma Sallustio) disse: “Dal momento che, stretto tutto intorno da nemici, mi si vuole ridurre alla disperazione, estinguerò sotto un cumulo di rovine l’incendio acceso contro di me”. Dopodiché uscì.

Catilina fuggì in Etruria dove si ricongiunse con gli armati raccolti da Caio Manlio, lasciando a Cornelio Lentulo, un suo partigiano che aveva rivestito in passato il consolato, la responsabilità di continuare a tessere le file della trama in città.

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