ITALO CALVINO 1923-1985

ITALO CALVINO 1923-1985

Calvino nasce a Cuba, a Santiago de Las Vegas, nel 1923 ma a meno di due anni è già in Italia, a Sanremo. Il padre infatti era ligure e la madre di Sassari, si trovavano nelle Antille per dirigere una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola di agraria.

Il retaggio derivatogli da una famiglia i cui componenti erano tutti (i genitori, ma anche gli zii) scienziati ha sicuramente influenzato alcune opere e saggi successivi dello scrittore oltre che la scelta della facoltà universitaria -Agraria- poi abbandonata.

Calvino si laurea infatti nel 1947 in Lettere a Torino, dopo aver partecipato attivamente alla Resistenza sulle Alpi Marittime. Argomento della sua tesi fu J. Conrad. Nello stesso periodo entra in contatto con la casa editrice Einaudi e conosce Pavese e Vittorini.

Il suo primo libro, “Il sentiero dei nidi di ragno” viene pubblicato nel 1947, grazie all’interessamento di Pavese, e si rifà proprio all’esperienza della Resistenza inserendosi nella corrente neorealistica che nacque nel primo dopoguerra. Molto interessante, a tal proposito, l’introduzione all’opera, scritta dall’autore stesso nel 1964 per una nuova edizione del libro.

Nei primi anni ’50, su suggerimento di Vittorini, Calvino decide di puntare sull’ispirazione fantastica. Nascono  tre romanzi poi raccolti nel volume “I nostri antenati”: “Il visconte dimezzato” (1952) ,“Il barone rampante” (1956) e il “Cavaliere inesistente” (1959). Questi tre libri, ambientati in un vago passato, hanno uno stretto legame col presente e con i suoi problemi. Rimangono certamente il punto più alto raggiunto dall’opera di Calvino: in essi prevale la componente fantastica e ironica, filtro necessario per misurarsi con il reale e l’amore per la favola ( si ricordi a tal proposito “Fiabe italiane” (1956), una raccolta delle più belle fiabe popolari italiane divise per regione e mirabilmente tradotte dal dialetto ). Nel “Visconte dimezzato e nel “Cavaliere inesistente” ritroviamo il prevalere del male sul bene e l’uomo alienato di Marx, la cui personalità svapora all’interno di una professione. Nel “Barone rampante” compare invece la problematica del rapporto tra intellettuale e società. La visione di Calvino dell’argomento ci riporta alla Francia settecentesca e al “Secolo dei Lumi”, all’intellettuale che deve staccarsi dalla società, prenderne le distanze per meglio poterla comprendere. Con “Marcovaldo” (1963, ancora l’alienazione) si chiude il periodo dell’ispirazione puramente fantastica e si apre quello del romanzo-saggio.

Nel mezzo il breve filone realistico ( “La nuvola di smog” e “La speculazione edilizia” rispettivamente del 1957 e 1958) che tratta problemi del tempo quali l’industrializzazione e la cementificazione selvaggia e che culmina col breve romanzo “La giornata d’uno scrutatore“(1963). Qui lo scrittore affronta temi terribili come l’emarginazione e la degradazione a livello subumano e si chiede se esista un tipo di organizzazione della società che possa sopperire agli errori dell’ordine naturale. Calvino è stato definito uno scrittore di testa piuttosto che di cuore e, in effetti, dai primi anni ’60 in poi si affaccia nelle sue opere il retaggio scientifico di cui si è già detto e nasce una fase molto sperimentale della narrazione: vengono pubblicate “Le cosmicomiche” (1965) e “Ti con zero” (1967). Bisogna però ricordare che lo scrittore ligure si avvale del dato scientifico come di una carica propulsiva per costruire situazioni irreali e paradossali, grandi invenzioni narrative, immagini quasi fumettistiche al fine di verificare ipotesi razionali come quelle sulla nascita dell’universo.

In questo modo il vecchio romanzo si sfalda, si annulla, e diventa quasi un saggio, una ipotesi narrativo-scientifica. Si ricordino a tal proposito i raffinatissimi “Il castello dei destini incrociati“(1972), dove una serie potenzialmente infinita di storie nasce da un mazzo di Tarocchi e “Le città invisibili“(1973). Ma è del 1979 il libro più maturo dell’attività dello scrittore :”Se una notte d’inverno un viaggiatore“. E’ anche questo un romanzo saggio, anzi, il romanzo del narrare, il racconto delle peripezie a cui il Lettore la Lettrice sono costretti per poter completare il libro che stanno leggendo.

La trama si delinea sotto i nostri occhi e mette in luce gli artifici su cui la letteratura si fonda. Nel 1980 si trasferisce a Roma, e pubblica una raccolta dei suoi saggi più importanti, Una pietra sopra. Nel 1983 escono i racconti di Palomar, ricchi di disillusa amarezza. Nel 1984 la crisi della casa editrice Einaudi lo induce a passare all’editore Garzanti, presso cui pubblica il volume Collezione di sabbia, oltre alla riedizione delle sue opere più importanti.

Nel 1985, avendo ricevuto l’incarico di tenere una serie di conferenze negli Stati Uniti a Cambridge, alla Harvard University, prepara le Lezioni Americane, che tuttavia rimarranno incompiute e saranno edite solo postume nel 1988: si tratta dei testi di alcune conferenze che avrebbero dovuto tenersi all’università di Harvard. L’argomento è la presenza, nella letteratura di tutti i tempi, di sei categorie: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, Consistenza (quest’ultima mai scritta).

All’inizio di settembre, infatti, Italo Calvino muore all’ospedale di Siena, colpito da un’emorragia celebrale.

Nel maggio 1986 presso Garzanti esce Sotto il sole giaguaro, il primo libro postumo di Calvino. Il volume raggruppa tre racconti: Il nome, Il naso, Sotto il sole giaguaro e Un re in ascolto. Calvino intendeva scrivere un testo dedicato ai cinque sensi. La morte gli impedì di completare i racconti dedicati alla vista e al tatto.


Il sentiero dei nidi di ragno

(le parti in corsivo tratte dall’introduzione dell’autore del 1964)

Protagonista è Pin, ragazzino cresciuto nei vicoli della vecchia San Remo, che un giorno ruba una pistola ad un ufficiale tedesco e la nasconde in un fosso dove “fanno i nidi i ragni”. Poi Pin fugge ed entra a far parte di un gruppo di partigiani. A molti racconta della sua pistola e del posto segreto in cui l’aveva nascosta. Ma a nessuno interessa veramente, a nessuno importa granchè dei nidi di ragno. Pelle, uno dei partigiani, trova la pistola ma tradisce e si arruola nella brigata nera fascista. Solo Cugino, al termine del racconto, si sofferma con Pin a cercare le tane dei ragni, a guardarci dentro. Cugino è l’amico che Pin sognava e cercava.  Insieme si allontanano, di notte, e Pin stringe la sua mano “fatta di pane”.

Attraverso gli occhi di un bambino Calvino ci racconta vicende di guerra e rapporti umani. L’ambiente è quello dei proletari e sottoproletari proprio della corrente neorealistica ma la differenza sta nel fatto che qui ogni cosa è vista attraverso lo sguardo di un bambino e di conseguenza proiettata in un mondo di fiaba. I partigiani, a volte, sembrano quasi gnomi del bosco, il cuoco del distaccamento pare uscito da un racconto di Salgari, col suo falchetto sulla spalla e il suo passato trascorso a bordo di centinaia di navi per tutti i mari del mondo.

Lo scrittore, nell’introduzione scritta nel 1964, ha modo di precisare che nell’estraneità dello sguardo di Pin si metaforizza il suo stesso rapporto con la guerra partigiana, l’inferiorità che lui sentiva, in quanto “borghese”, verso quel mondo.

In questo suo primo romanzo Calvino getta il seme di quelle che saranno le caratteristiche principali del suo percorso letterario: il realismo e l’ ispirazione fantastica :” …Fu Pavese il primo a parlare in tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me ne ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di confermare la definizione…”

Per lo scrittore ligure, il neorealismo, fu un insieme di voci provenienti dalle più disparate parti del paese e ad esse profondamente ancorate  con i dialetti e i gerghi che impastavano la lingua letteraria, ma fu anche l’occasione per fermare sulla pagina scritta il mondo  dei boschi, dei nascondigli, di uomini armati e inseguimenti.

La Resistenza ne esce non santificata ma nemmeno disprezzata, vista attraverso il filtro della favola che, come in altre opere di Calvino, è il componente necessario per comprendere la realtà.

I nostri antenati

( Il visconte dimezzato; Il barone rampante; Il cavaliere inesistente )

Nei tre romanzi pubblicati negli anni ’50, “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante” e “Il cavaliere inesistente”, Calvino analizza la figura dell’uomo contemporaneo e il suo rapporto con la società.

Trattandosi di tre favole, per di più ambientate in un passato più o meno immaginario fatto di cavalieri, re, castelli e dame, questo può apparire inverosimile.

Analizziamo però i protagonisti: Il Visconte Medardo ritorna in patria diviso in due da una palla di cannone, una metà è buona, l’altra cattiva; il barone Cosimo, per protesta nei confronti del padre decide di andare a vivere sugli alberi e di non scendere più; lo zelantissimo cavalier Agilulfo, invece, in realtà non esiste, esiste solo la sua volontà di compiere il proprio dovere.

I tre hanno in comune il fatto di avere una caratteristica ben definita, una regola fissa che rispettano per tutto il corso del romanzo e nella quale definiscono la propria personalità.

Sono esseri emblematici, balzani, che tentano disperatamente di realizzarsi come umani opponendosi ai limiti imposti dal mondo, dalla società e dalla loro stessa incompletezza.

Noi non sappiamo nulla dell’esistenza di Medardo prima del colpo di cannone e dopo l’operazione che lo ha “riunito”, non possiamo neppure immaginare Cosimo che cammina tranquillamente per strada, al suolo; e cosa sarebbe Agilulfo senza il suo zelo, la sua condotta perfetta e precisa di paladino? Un’armatura vuota, abbandonata, come accade alla fine del romanzo.

L’uomo di Calvino si compie in quello che fa e che è. Non è la lotta tra bene e male e il trionfo di uno sull’altro quello che veramente si vuole sottolineare nel “Visconte dimezzato” , quello che conta è “l’approfondimento ostinato di ciò che si è”. Buono o cattivo non importa, il contrasto serve solo a sottolineare il dimidiamento. Questo perchè “dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso è l’uomo contemporaneo; Marx lo disse ‘alienato’, Freud ‘represso’; uno stato d’antica armonia è perduto, a una nuova completezza s’aspira.”

Cosimo per poter capire la società, per occuparsi di essa e del bene del prossimo, se ne deve staccare in modo radicale. Solo così raggiunge la propria autodeterminazione. C’è, nel “Barone rampante” un vago sapore di settecento francese, la convinzione che l’intellettuale debba allontanarsi dal mondo circostante per meglio poterlo comprendere. Il passato in questo romanzo è meno vago che negli altri due e alcuni riferimenti storici sono piuttosto precisi e reali. Calvino sembra qui immedesimarsi col protagonista e non semplicemente raccontare una storia.

Agilulfo invece esiste solo nella sua professione e nella sua volontà.

Quando il suo compito finisce, al termine di una serie di ariosteschi inseguimenti, l’armatura perde vita.

Scrive Calvino (tra l’altro, probabilmente il migliore e più chiaro commentatore di se stesso): “Ho voluto fare una trilogia d’esperienze sul come realizzarsi esseri umani: nel Cavaliere la conquista dell’essere, nel Visconte l’aspirazione a una completezza al di là delle mutilazioni imposte dalla società, nel Barone rampante una via verso una completezza non individualistica da raggiungere attraverso la fedeltà a un’autodeterminazione individuale. Tre gradi d’approccio alla realtà.”  

“Il castello dei destini incrociati” e “Se una notte d’inverno un viaggiatore”: la sfida al labirinto. Nel 1962, sulla rivista “Menabò” , viene pubblicato un articolo-saggio di Calvino intitolato “La sfida al labirinto.”

Il “labirinto” è il dipanarsi continuo e potenzialmente infinito delle strade della narrazione. Questo concetto in particolare caratterizza la produzione del Calvino più maturo che in questo labirinto si addentra, scoprendone gli artifizi e i meccanismi.

Consideriamo a questo proposito due opere in particolare: “Il castello dei destini incrociati”(1969) e “Se una notte d’inverno un viaggiatore” (1979).

E’ evidente, in queste due opere, la volontà dell’autore di esplorare le molteplici strade che una vicenda può prendere, sottolineando come ogni decisione presa dal protagonista o da un personaggio implica una serie praticamente infinita di variazioni.

Nel primo, raffinatissimo, romanzo i personaggi si trovano in un castello al centro di un bosco, seduti intorno ad un tavolo. Non possono parlare a causa di una specie di incantesimo e per raccontare la loro storia si servono di un mazzo di tarocchi. Affiancano una carta all’altra costruendo la vicenda e intersecandola con quella di un altro convitato.

Calvino costruisce un “cruciverba” perfetto di storie (ne traccia anche un preciso schema) in cui ogni tarocco compare una sola volta e perfettamente si inserisce nella vicenda. “…Passavo giornate a scomporre e a ricomporre il mio puzzle, escogitavo nuove regole del gioco, tracciavo centinaia di schemi, a quadrato, a rombo, a stella, ma c’erano carte essenziali che restavano fuori e carte superflue che finivano in mezzo…”

Nella seconda parte del libro “La taverna dei destini incrociati” il meccanismo rimane lo stesso, cambia solo il fatto che qui una carta può comparire più volte all’interno di una storia, non esiste quindi uno schema preciso. 

La macchina combinatoria da cui prende l’impulso il “Viaggiatore” è invece diversa. Calvino si identifica non con l’autore del libro ma con il lettore. Non si tratta di un romanzo, ma della combinazione degli incipit di 10 differenti romanzi la cui lettura, per una serie di incredibili e inverosimili cause (quinterni di pagine mancanti, libri che sono in realtà altri libri e appaiono sotto falso titolo ecc…) non può essere portata a termine dal “Lettore” e dalla “Lettrice”. I due protagonisti cercano in tutti i modi di trovare i seguiti delle storie e si imbattono in professori, artisti, falsificatori di romanzi, traduttori, editori .

Al termine dell’opera il “Lettore” entra in una biblioteca con l’elenco dei 10 libri interrotti. Gli viene fatto notare che i titoli formano un acrostico che a sua volta è l’incipit di un altro romanzo.

“…Lei crede che un racconto abbia un inizio e una fine? Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire: passate tutte le prove, l’eroe e l’eroina si sposavano oppure morivano…”

Il Lettore, rassegnatosi a non trovare il seguito dei racconti, decide così di sposare la Lettrice.

Paradossalmente in questa maniera si giunge al termine del libro.

Appare chiaro come l’idea di Calvino sia anche qui, come nel “Castello”, quella di dimostrare che, nella narrazione, ogni avvenimento produce molteplici effetti che diramano e frammentano la storia. Nel tentativo di risalire all’incontrario la sequenza di cause ed effetti si producono altre cause ed altri effetti. 

Non bisogna però ridurre queste due opere alla stregua di semplici esperimenti, ma è necessario cogliere il gusto per il divertimento e l’intento “giocoso” di “smascherare” alcuni dei mezzi che la letteratura utilizza per prendere vita.  

Le cosmicomiche

Nei racconti che fanno parte di questo libro, Calvino prende spunto da una teoria scientifica per trovare l’impulso necessario alle sue invenzioni narrative.

Consideriamo in particolare il primo racconto: “La distanza dalla luna”. La storia è introdotta, come tutte le altre, da un brevissimo prologo di sapore scientifico che serve da “motivo di partenza” e che viene poi sviluppato dall’immaginazione dello scrittore.

Protagonista è Qfwfq, nostro antichissimo antenato, ma anche nostro contemporaneo, che ci racconta di come milioni di anni fa la luna fosse vicinissima alla terra, raggiungibile con una scala a pioli, poi si allontanò da essa a causa delle maree.

Sulla luna praticamente attaccata alla terra si andava a raccogliere il “latte lunare”, proprio durante una spedizione il satellite si allontanò portandosi via la donna amata da Qfwfq che da quel giorno guarda il cielo e alla fine del racconto ci confida: “…m’immagino di vederla, lei o qualcosa di lei ma nient’altro che lei, in cento in mille viste diverse, lei che rende Luna la Luna e che ogni plenilunio spinge i cani  tutta la notte a ululare e io con loro.” 

La teoria, il dato scientifico, diventano nelle “Cosmicomiche” invenzione pura. Ritorna l’amore per la favola, per i personaggi senza tempo, il gusto per il gioco. Li potremmo immaginare come strisce a fumetti questi racconti, come scene di cinema muto.

Non sono avvicinabili alla letteratura di fantascienza perchè in essi non c’è nulla di futuristico, c’è piuttosto una parodia del mito delle origini, un’atmosfera strana e affascinante. E ci sono passi di poesia indimenticabili.

Liberamente tratto da italialibri.net; vari 

La coscienza ecologista di Italo Calvino: “La Nuvola di Smog” e “Le città invisibili” 

L’analisi delle problematiche ambientali che nel Terzo Millennio coinvolgono ancora l’umanità lascia comprendere quanto sia controproducente il modo in cui, finora, la società occidentale ha affrontato la questione: cercare di mettere a tacere la coscienza, fingendo che tali problemi non esistano. Il punto fondamentale è che la crescita deve fermarsi. Crescita dell’inquinamento, delle alterazioni climatiche, degli sprechi energetici. E tutto ciò prima che le emergenze planetarie si aggravino al punto tale da sopprimere la nostra libertà di scelta. Il primo passo da compiere è di ordine culturale, per attuare quella che Gregory Bateson definisce “Ecologia della mente”, intendendo con ciò la presa di coscienza, da parte della società intera, dei problemi ecologici che ci affliggono, per mettere in discussione l’attuale modo di vivere, di produrre e di consumare. Perché ciò possa avvenire, è necessario che l’ecologia non sia limitata all’ambito scientifico, ma trascendendo la scienza, giunga ad un punto di contatto con la cultura umanistica.

In Italia, Italo Calvino è uno dei pochi intellettuali che ha seguito questa strada, riservando un posto, all’interno della sua produzione letteraria, alla tematica ecologista, confrontandosi con questioni di ordine ambientale.

Dall’ambiente familiare, Calvino ricavò un forte interesse per le scienze naturali: il padre era un agronomo di fama mondiale, la madre botanica e biologa.

Nel corso degli anni Cinquanta, seguendo il filone neorealistico, per misurarsi direttamente con i problemi della contemporaneità, pubblica “La nuvola di smog”, racconto in cui affronta la realtà industriale, e in particolare la devastazione operata dall’industria sull’ambiente.

L’opera risale al 1958, quando lo scrittore aveva trentacinque anni, e fu pubblicato prima su “Nuova corrente“, poi nel volume dei Racconti, quindi in una edizione a parte insieme a La

formica argentina. Il taglio narrativo è quello della short-story, che Calvino prediligeva, come afferma anche nella prefazione alle Fiabe italiane (1956). Sostiene infatti che la riduzione all’essenziale gli sembra un atto di moralità letteraria e nelle Lezioni americane aggiunge che la velocità deve far parte del modello narrativo ideale.

Il protagonista narra la vicenda in prima persona. Le informazioni specifiche sul suo conto sono di carattere sia esteriore sia psicologico. Non è più molto giovane ed è in crisi. Dice infatti: “Non mi importava niente di niente”, parla di una vita “squinternata”, di “logorii esterni ed interni”, di “stridori”, dice che non trovava più cose in cui riuscisse a “riconoscersi come prima e a decifrare l’avvenire”. 

La narrazione ha inizio in autunno, in una città di cui non si dice il nome. L’anonimo protagonista ama il grigio, e trova una camera d’affitto grigia e misera appartenente ad una signorina grigia e misera. La sede de “La Purificazione”, il giornale contro l’inquinamento dove egli è stato assunto come redattore, si trova invece in una zona residenziale elegante della città e in un bell’ufficio dove tutti sembrano efficientissimi, cioè in grande contrasto con il suo stato d’animo.

Il procedimento narrativo ha caratteri di staticità in quanto poverissimo di fatti. Il protagonista va in ufficio, frequenta un ristorante toscano, una birreria, riceve la visita della sua ragazza, fa con lei una passeggiata in collina da dove vede una nuvola di smog gravare sulla città, visita la fabbrica del suo direttore, discute con un sindacalista e alla fine fa una passeggiata in campagna dove la biancheria sporca della città viene lavata e stesa ad asciugare, quindi torna indietro.

E’ tutto? Fino dall’inizio il lettore si rende conto che esiste un motivo narrativo sempre presente, fino a divenire ossessionante perché ripetuto più e più volte, cioè la polvere e tutti i vocaboli legati al suo campo semantico. Essa diventa dunque un segno fortemente indicativo di senso reale e metaforico. Nell’ufficio de “La Purificazione”, la conversazione è euforica, ma il luogo è pieno di polvere e polvere troviamo dappertutto, nella strada, nella camera, perfino il momento di amore del protagonista con la sua ragazza si configura come un disperato impegno da parte di lui per proteggere, per salvare la bellezza e la freschezza di lei, prendendo su di sé tutti i granelli grigi di polvere che cadono su di loro.

La scena è sicuramente più disperata che erotica. La polvere arriva addirittura a solidificarsi assumendo l’aspetto di una grossa massa bituminosa che grava sulla città e si trasforma progressivamente in una pesante nube atomica, minacciante tutto il pianeta, quasi un simbolo del male. Il rapporto con lo smog è il cardine attorno al quale ruotano tutti i personaggi del racconto, i quali reagiscono in modo diverso di fronte al grigiore che avanza. C’è chi finge di combatterlo, ma in realtà contribuisce a peggiorare la situazione, come il direttore del giornale (l’ingegner Cordè) che è anche dirigente industriale; c’è chi lo ignora, come la bella ragazza, Claudia, che vede tutto di color rosa, chi isola dei valori fittizi da contemplare e continua a vivere nello sporco quotidiano, come l’affittacamere, la signora Margariti. Il sindacalista Basaluzzi, aspirante funzionario, fa della lotta il proprio lavoro, ama illudersi che esistano modelli di vita non inquinati lontani dal nostro mondo occidentale; il capoufficio Avandero se ne lava le mani e va in vacanza appena può. Il nostro narratore, sempre in cerca di segni chiarificatori e di immagini da salvare, è ansioso di conoscere la realtà che lo circonda, e guarda senza illusioni lo squallore che dilaga. Nel racconto sono frequenti gli enunciati che indicano un processo di attenzione e di conoscenza. Vedere, guardare, osservare, pensare, meditare, riflettere, sapere. Guardare da lontano e dall’alto per capire meglio. Come quando guarda la nuvola dall’alto della collina insieme a Claudia che non capisce la sua angoscia e trova tutto sempre entusiasmante.

  “Lo smog! –  gridai a Claudia – Vedi quella? E’ una nuvola di smog! Ma lei, senza ascoltarmi, era presa da qualcosa che aveva visto volare, uno stormo di uccelli, e io restavo lì affacciato a guardare per la prima volta dal di fuori la nuvola che mi circondava in ogni ora, la nuvola che abitavo e che mi abitava, e sapevo che di tutto il mondo variegato che m’era intorno solo quella mi importava.” (p. 49)

Nelle ultime pagine il narratore si reca in campagna, nella cooperativa di lavandai di Barca Betulla, l’unico luogo che abbia un nome: un sapore di fiaba, quasi di ninnananna. E’ primavera, è una festa di colori, di sole, di verde, di risate, di candida biancheria tesa ad asciugare, mentre nel canale scorre l’acqua gonfia di bolle azzurrine. Il protagonista guarda e poi torna verso la città. E’ solo, come era solo anche al principio della storia, ma il suo stato d’animo non è identico a quello dell’inizio. Qualcosa è avvenuto dentro di lui, a testimoniare che pur senza avvenimenti risolutivi, qualche spiraglio di speranza si è aperto. Infatti egli conclude, guardando la campagna piena di colori: “Non era molto, ma a me che non cercavo altro che immagini da tenere negli occhi, forse bastava.” La fine dell’apologo ci suggerisce, senza alcuna pesantezza moralistica e con il sorriso che nasce dalla malinconia, una via da seguire: tornare ad affrontare il labirinto della città, ma con il cuore caldo di immagini da conservare.

Italo Calvino fa riferimento, all’interno della sua produzione, anche al sempre più grave problema dei rifiuti.

In una conferenza tenuta in inglese agli studenti della Graduate Writing Division della Columbia University di New York, Calvino commenta la sua opera “Le città invisibili”, pubblicata nel 1972, con le parole qui riportate.

“Nelle Città invisibili non si trovano città riconoscibili. Sono tutte città inventate; le ho chiamate ognuna con un nome di donna; il libro è fatto di brevi capitoli, ognuno dei quali dovrebbe offrire uno spunto di riflessione che vale per ogni città o per la città in generale.”

“Per qualche tempo mi veniva da immaginare solo città tristi e per qualche tempo solo città contente; c’è stato un periodo in cui paragonavo le città al cielo stellato, e in un altro periodo invece mi veniva sempre da parlare della spazzatura che dilaga fuori dalle città ogni giorno.”

“Le città invisibili si presenta come una serie di relazioni di viaggio che Marco Polo fa a Kublai Kan imperatore dei Tartari. (Nella realtà storica, Kublai, discendente di Gengis Kan, era imperatore dei Mongoli, ma Marco Polo nel suo libro lo chiama Gran Kan dei Tartari e tale è rimasto nella tradizione letteraria). Non che mi sia proposto di seguire gli itinerari del fortunato mercante veneziano, […] ma in tutti i secoli ci sono stati poeti e scrittori che si sono ispirati al Milione come ad una scenografia fantastica ed esotica.”

“Ogni capitolo del libro è preceduto e seguito da un “corsivo” in cui Marco Polo e Kublai Kan riflettono e commentano. […] A questo imperatore melanconico, che ha capito che il suo sterminato potere conta ben poco perché tanto il mondo sta andando in rovina, un viaggiatore visionario racconta di città impossibili…”

“Credo che non sia solo un’idea atemporale di città quella che il libro evoca, ma che vi si svolga, ora implicita ora esplicita, una discussione sulla città moderna.”

“Che cosa è oggi la città, per noi? Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. Oggi si parla con eguale insistenza della distruzione dell’ambiente naturale quanto della fragilità dei grandi sistemi tecnologici che può produrre guasti a catena, paralizzando metropoli intere. La crisi della città troppo grande è l’altra faccia della crisi della natura. L’immagine della «megalopoli», la città continua, uniforme, che va coprendo il mondo, domina anche il mio libro.”

Ecco il brano dell’opera in cui Calvino tratta il problema delle città invase dai rifiuti.

“La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio. Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell’esistenza di ieri è circondato d’un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare.” “Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. È una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne.                                                                                    Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altro ieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri.” “Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano. Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai”.