INTRODUZIONE AL RISORGIMENTO

INTRODUZIONE AL RISORGIMENTO

INTRODUZIONE AL RISORGIMENTO


Una introduzione al risorgimento è necessaria, prima ancora di raccontarlo. Perché è un evento che unisce e divide, è amato e vilipeso, inorgoglisce l’Italia ma c’è chi lo contesta, ha dato uno Stato agli italiani ma ha la – sciato eredità difficili, è un esempio di moderazione e saggezza, oggetto di retorica e denigrazione. Occorrono decenni perché sia celebrato unitaria – mente, ma ancora oggi suscita passione, giudizi opposti, unilaterali. Né c’è accordo sui suoi protagonisti, visti di volta in volta come pragmatici o poco lungimiranti, saggi o rivoluzionari scriteriati, attenti ai propri interessi anziché a quelli generali. Soltanto nel 1911, il sindaco di Roma Ernesto Nathan compone l’icona nella quale Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini, sono insieme, quasi dimenticando che Mazzini ripudia l’Italia della monarchia sabauda, vive come ricercato in patria, muore nel silenzio delle istituzioni. Soltanto nel 1929 i cattolici si sentono parte integrante di uno Stato che li ha esclusi a lungo, ha emarginato il papa di Roma e ferito la sua universalità.

Eppure, con i suoi tempi, la Chiesa mette sugli altari Pio IX, nel 2011 consacra a Maria Mater unitatis proprio l’Italia unita cui Paolo VI, prima di diventar papa, rende onore in Campidoglio come opera della provvidenza. Alcune riflessioni sono dunque necessarie per narrare qualche verità offuscata della storia risorgimentale, che non è tutta bella, ma è tanto gloriosa da non patire i propri limiti, e non essere responsabile dei problemi maturati dopo, per prender coscienza delle virtù degli italiani che rie – scono a deprimersi anche per le belle imprese che compiono. La riflessione dice che non abbiamo nulla da invidiare ad altre nazioni, riusciamo a cambiare le cose senza voluttà rivoluzionarie, o divisioni irreparabili, saniamo le lacerazioni mirabilmente e con qualche ipocrisia, elaboriamo una memoria condivisa restando ciascuno della propria idea. A contestare l’unità d’Italia sono subito i mazziniani intransigenti che in – troducono la categoria della rivoluzione tradita, del risorgimento incompiuto, riempita dei contenuti più vari anche da chi con Mazzini non ha nulla a che vedere.

Per Alfredo Oriani, nel 1892, l’Italia è frutto di una «conquista regia», che non ha coinvolto il popolo né attuato la riforma morale necessaria per comporre Stato e Nazione.

Si trasfigura la realtà, per dire che «la rivo – luzione italiana anziché opera di popolo aveva trionfato per un sopruso eroico della sua minoranza aiutata da incidenze e coincidenze straniere, prima attirando nella propria orbita l’avventura del secondo impero napoleonico, poi approfittando dell’antagonismo di questo col nuovo impero germanico. Ma il popolo nella massa era rimasto come inerte; scarsi i volontari fino a non superare il numero e la fortuna di una milizia cavalleresca, poche le battaglie e quasi sempre decise dalla preponderanza degli alleati; malgrado la putredine di tutti i governi abbandonati dall’Austria non vere insurrezioni contro di essi (…); nel mezzogiorno giovò meglio la viltà borbonica che l’eroismo gari – baldino».

Ad Oriani fa eco, tra gli altri, Piero Gobetti che nel Risorgimento senza eroi del 1922 nega sia opera «di masse popolari nuove, rivolta di popolo condotta da scelte guide borghesi contro classi in decadenza», gli rimprovera di non aver promosso una riforma religiosa, base delle libertà politiche, di essere un involucro senz’anima, fonte dei malanni successivi d’Italia.


Splendidi riassunti, realistici, che però dicono mezze verità, tacciono ciò
che rovescerebbe il giudizio. Non dicono che gli eroismi delle minoranze sono la regola nella formazione degli Stati nazionali, e quando vi sono coinvolte direttamente le masse, come in Inghilterra o in Francia, sono immesse in una guerra sanguinaria in cui devono scegliere se fare la parte del persecutore o quella della vittima, o l’una e l’altra insieme, uscendone sempre sconfitte. Dimenticano che quella milizia cavalleresca risorgimentale non trova mai davanti a sé altre milizie con vere identità, conclude l’impresa con il minor sacrificio e il massimo beneficio perché munita di un ideale fortissimo, che nessuno riesce a contestare. Non si dice che la viltà borbonica nasconde l’assenza di quel «sentirsi nazione» che anima le truppe italiane e condottieri come Giuseppe Garibaldi.

Neanche si ricorda che la mancanza della riforma religiosa evita all’Italia i bagni di sangue delle guerre civili e le pagliacciate di Robespierre e il suo culto alla Dea Ragione. Per questo motivo, con linguaggio religioso che in Italia usano un po’ tutti, il liberale Alfonso Omodeo replica a Gobetti che «gli uomini del nostro Risorgimento operarono essi per il popolo. Si adattarono ad essere loro la nazione, come i settemila Israeliti che ai tempi di Elia non avevano piegato il ginocchio a Baal, costituivano il vero Israele».

I limiti del risorgimento cambiano natura e si moltiplicano con le «Lettere meridionali» del 1875 di Pasquale V illari, e le analisi di Giustino Fortunato, che pongono la centralità della questione meridionale sempre irri – solta, inaugurando di fatto il concetto di «due Italie», che verrà utilizzato da altri per indicare il contrasto tra paese legale e paese reale, tra élites e masse estraniate, tra Italia liberale dominante e Italia cattolica dominata. Antonio Gramsci inaugura la storiografia marxista rovesciando il giudizio di Crispi, «cosa fece il Cavour? Niente altro che diplomatizzare la rivoluzione». Per Gramsci è vero il contrario: «Cavour non fu solo un diplomatico, ma anzi essenzialmente un politico “creatore”, solo che il suo modo di «creare» non era da rivoluzionario, ma da conservatore: e in ultima analisi non il programma di Mazzini e di Garibaldi, ma quello di Cavour trionfò».

Con Oriani, egli critica i liberali, «perché concepiscono l’unità come allarga – mento dello stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia»5 . Ricorre alle locuzioni di rivoluzione passiva, o di rivoluzione-restaurazione 6 , perché la borghesia francese ha saputo legare a sé le classi contadine, facendole alleate «per distruggere definitivamente il vecchio regime» in un blocco sociale ad egemonia borghese, dando così allo «Stato nuovo una base permanente». L’Italia ha più difficoltà, per la debolezza del suo ruolo internazionale e la ristrettezza della borghesia, tuttavia nulla viene fatto per propiziare una alleanza con la classe contadina, e Gramsci definisce quella italiana come una «rivoluzione agraria mancata».

Queste visioni colgono dei frammenti di verità ma riversano sul risorgimento i problemi del dopo, e le risposte migliori le ricevono da destra e da sinistra, da Benedetto Croce, Gioacchino V olpe, Gaetano Salvemini. Per Croce il processo risorgimentale è un processo spirituale, da valutare con realismo. Nel 1912 respinge il pessimismo dilagante dal momento che «nessuno dei disastri profetati è mai accaduto» e l’Italia va avanti e progredisce.

Ma nel 1916 avverte che «L’Italia è da tener viva nelle fantasie e nei cuori», la sua storia «dev’essere prosaicizzata perciò non si raccomanderà mai abbastanza di farla il più possibile realistica e critica, movendo dalla consapevolezza che la storia della nostra Italia è una storia non antica e secolare marecente, non strepitosa ma modesta, non radiosa ma stentata»8 . È sua la sintesi più veritiera e gratificante, quando osserva nella Storia d’Europa nel secolo decimonono del 1932, che, «se per storia politica si potesse parlare di capolavori come di opere d’arte, il processo della indipendenza, libertà e unità d’Italia meriterebbe di essere detto il capolavoro dei movimenti liberal-nazionali del secolo decimonono: tanto ammirevole si vide in esso la contemperanza dei vari elementi, il rispetto all’antico e l’innovare profon – do, la prudenza sagace degli uomini di stato e l’impeto dei rivoluzionari e dei volontari, l’ardimento e la moderazione; tanto flessibile e coerente la logicità onde si svolse e pervenne al suo fine». La scansione storica di Gioacchino Volpe è diversa ma la conclusione è la stessa.

L ’Italia può datarsi almeno all’anno mille, quando si forma la grande cultura nazionale e si di – spiega la funzione universale del cattolicesimo; il risorgimento è collegato a questa storia millenaria ma va trasfigurato in una dimensione che giustifica ed eleva le sue miserie. Per i Principi di Risorgimento nel Settecento italiano del 1938 «il risorgimento dell’Italia è opera dell’Italia, sia pure rappresentata da non grandi schiere elette di popolo. Essa ha attratto a sé i Savoia, ha immesso nel corso della propria storia il corso della storia sabauda, ha affidato a quella dinastia e a quel Regno la direzione della comune impresa». Gaetano Salvemini, vicino a Mazzini e agli ideali democratici, critica l’Italia liberale, ma il realismo politico gli fa dire nell’Italia politica nel secolo XIX, del 1925, che il risorgimento è un movimento nazionale composto da una mino – ranza borghese, «mentre la grande maggioranza della stessa borghesia rimaneva inerte e badava solo ai propri affari», e questo è quanto di meglio ci si possa attendere. Però, pensare ad una rivoluzione popolare come quella ideata da Mazzini è fantasia, le moltitudini rivoluzionarie sono solo un sogno.

Dopo l’unità, dal 1860 al 1870 la costruzione dello Stato unitario è «opera ciclopica, che si è dovuta confrontare con mille problemi e anzitutto con l’estraneità allo Stato della grande massa dei contadini, rimasta nell’insieme assolutamente favorevole agli antichi regimi». Insomma, se a fine Ottocento si agisse diversamente, senza la scelta centralista che unifica l’Italia, lo Stato si sfascerebbe. Un capitolo a parte merita il rapporto tra risorgimento e fascismo nel senso che nel periodo autoritario viene utilizzato o denigrato secondo le convenienze politiche. Per gli apologeti nazionalisti il fascismo è legittimo erede del risorgimento, lo porta a compimento, esalta lo Stato, risveglia le capacità guerriere degli italiani. All’opposto, per il solo fatto che il fascismo esalta il risorgimento, c’è chi lo denigra oltre il lecito, salvo tornare ad esal – tarlo quando il fascismo è sconfitto; e chi, analizzando più a fondo la questione, riconosce l’antitesi tra le due epoche.

Le opere di Gioacchino Volpe L’Italia in cammino e di Giovanni Gentile I profeti del Risorgimento, proseguono nella scelta ecumenica che riconosce le rispettive funzioni di ogni componente risorgimentale, riprese e compiute dalla nuova Italia di Mussolini. La quale deve integrare le masse popolari nello Stato, spingere lo Stato a svolgere la sua missione nel mondo. Giovanni Gentile pone Gioberti tra i profeti del risorgimento, perché supera l’astrattismo di Mazzini e col mito guelfo apre la strada al Quarantotto, comprende anche il fallimento delle rivoluzioni del 1848-49, apre la strada alla politica di Cavour e con il Rinnovamento civile d’Italia indica in Casa Savoia la guida del risorgimento.

Il fascismo elabora l’eredità del risorgimento esaltandone la continuità ideale con il regime, anche se non mancano elementi di discontinuità. Si moltiplicano i monumenti ai protagonisti dell’unità d’Italia, Mussolini fonda il «museo del risorgimento», nel 1932 si celebra il 50° della morte di Garibaldi, e si inaugura il monumento ad Anita sul Gianicolo, si aggiungono nuove feste nazionali come il 4 novembre, si declassa la festa del 20 settembre, per poi dimenticarla. Ma l’impegno maggiore è profuso in una operazione complicata, nel far credere che l’esaltazione dello Stato, il potere assoluto all’in – terno e le ambizioni imperiali all’esterno, sono compatibili con il risorgi – mento perché i nostri padri della patria sono stati nazionalisti, autoritari, colonialisti. Con la scuola riformata di Gentile si trasmette per generazioni un modello di interpretazione che amalgama gli elementi etici e organicisti presenti nel pensiero di Gioberti, Mazzini (popolo, nazione, doveri dell’uomo), Cavour, la tradizione nazionalista del risorgimento, il superamento dello iato tra religione e società operato dai Patti lateranensi del 1929, visti come cor – rezione e completamento dei limiti dell’’800.

Tutto ciò permette a Giovanni Gentile di dire che «il Fascismo è figlio del Risorgimento: del Risorgimento, creatore di uno Stato moderno, che è potenza politica, in quanto potenza economica, civiltà: un uomo nuovo, vivo, sano, intelligente, originale».

Nel rispondere a questa appropriazione indebita, alcuni esagerano, uniscono nella condanna fascismo e risorgimento, frutti avvelenati di una storia negativa. Palmiro Togliatti, che cambierà idea, afferma nel 1929 che «il Risorgimento è, per il piccolo borghese italiano, come la fanfara militare per gli sfaccendati. Fascista o democratico, egli ha bisogno di sentirsela squillare agli orecchi per credersi un eroe».

E nel 1931 che «il Risorgimento ebbe un carattere stentato, una impronta reazionaria, mancò del tutto dello slancio di altre rivoluzioni borghesi. Appunto per ciò è assurdo pensare che vi sia un Risorgimento da riprendere, da finire, da fare di nuovo, e che questo sia il compito dell’antifascismo democratico. La rivoluzione antifascista non potrà essere che una rivoluzione contro il Risorgimento». Con maggior realismo, e aderenza al vero, Carlo Rosselli vuole impedire che si faccia «tabula rasa» del risor – gimento, «lasciandone il monopolio al fascismo», propone di distinguere tra risorgimento «ufficiale» e risorgimento «popolare» e afferma: «noi dobbiamo, il Risorgimento, ancora conoscerlo e studiarlo. Contro il Risorgimento ufficiale, scolastico, piemontese; per il Risorgimento popolare, rivoluzionario, ignoto ancora a troppi, stracciando gli interessati veli della storiografia ufficiale».


Più meditata, la lettura di quanti (ieri e oggi) vedono il fascismo come anti-risorgimento. Perché fonda lo Stato totalitario mentre il risorgimento è liberale e democratico, divide gli italiani in fascisti e antifascisti creando di nuovo due Italie, mentre il risorgimento voleva unire tutti gli italiani, riconoscendo pluralità di partiti e movimenti, perché le guerre di indipendenza sono state guerre liberatrici non di oppressione. Lo stesso Togliatti nel 1943 muta opinione 11 e sostiene che «l’unica tradizione militare che vive nel po – polo italiano è la tradizione delle guerre di liberazione nazionale del secolo scorso, dalle Camicie rosse di Garibaldi, la tradizione cioè di un esercito popolare pronto a combattere, e che combatté realmente sotto la bandiera dell’indipendenza e della libertà di tutte le nazioni». Per Emilio Gentile «con il fascismo assistiamo a uno stravolgimento completo, anche sul piano europeo: tutti coloro i quali non si identificano nell’idea di patria così come la definisce Mussolini non solo sono antifascisti, ma diventano antitaliani».


I giudizi storici successivi al fascismo sono maturi, equilibrati, consapevoli delle condizioni nelle quali si è realizzato il risorgimento, esprimono ampia convergenza di storici liberali e di altra scuola. Rosario Romeo invita a tener presente il contesto ottocentesco, non pretendere dal risorgi – mento la soluzione dei problemi dell’epoca e dei decenni successivi.

È Romeo che riconosce il ruolo centrale di Cavour nel decennio decisivo per l’Unità d’Italia, elabora l’interpretazione più compiuta della sua opera, la libera dall’ingenua apologetica, ne esalta i meriti che riguardano l’affermazione del regime liberale e la laicizzazione dello Stato in Piemonte, la capacità diplomatica dispiegata nei momenti cruciali dell’800. È un punto di non ritorno per chiunque voglia comprendere gli eventi che hanno porta – to all’unità. Giorgio Candeloro, da sinistra, vede nel risorgimento «la condizione che rese possibile una forte accelerazione del processo di sviluppo tendente a fare dell’Italia un paese moderno di livello europeo (nel senso dei paesi più progrediti d’Europa). A questo processo, che nel corso di un secolo ha fatto dell’Italia un paese industriale, non lontano dal livello sopra indicato, la costruzione dello Stato unitario dette una spinta decisiva». Si consolida una tendenza che riconosce la legittimità delle critiche del risorgimento, ma ricorda a tutti che le condizioni del tempo sconsigliavano scelte premature e pericolose.

Anche per ciò, dice Candeloro, Mazzini è certamente in anticipo sui tempi, ma il risorgimento non poteva fare di più. Il tempo che passa favorisce giudizi obiettivi, e Rosario Romeo osserva nel 1964 che, «una volta superata vittoriosamente la battaglia per la riconquista della libertà, [gli italiani] sentono di appartenere, ed apparten – gono, a un mondo in cui altri e diversi sono i problemi e i valori. Ai loro occhi, il Risorgimento ha perduto molto della sua attualità politica e morale, si è venuto configurando più nettamente come realtà storica, da cono – scere e indagare col senso di quanto lega ad esso la presente realtà italiana,ma anche con il distacco che inevitabilmente ci divide dal passato che si è fatto storia».

Per gli storici liberi da pregiudizi politici, questa lezione è agevolmente assimilata, e porta a differenziarsi su aspetti particolari. Già nel 1915 Omodeo nega il ruolo di profeta attribuito a Vincenzo Gioberti perché inventa il mito neoguelfo, non è altro che un cavallo di Troia per penetrare nell’Italia cattolica ed assolutista del primo Ottocento.

E cerca di armonizzare, cedendo all’ecumenismo, il ruolo svolto da Cavour , Mazzini e Garibaldi, esaltandone le rispettive funzioni politiche e carismatiche. Omodeo vuole liberare la figura di Mazzini dall’aura di negatività e passività che gli è ri – masta addosso, perché esprime l’anima popolare, la spinta all’azione, lo stimolo rivoluzionario, necessari e complementari rispetto all’opera politica e diplomatica di Cavour. Garibaldi è adeguatamente valutato dal momento che l’impresa dei Mille colma «un hiatus nella politica cavouriana», ma Cavour vince perché la sua è la «sola politica giusta dell’epoca per l’assenza di validi e intelligenti (politicamente) competitori». Saggiamente, egli nega a Garibaldi il titolo di Washington italiano, non avendo l’eroe italia – no le doti politiche e costruttive di statista e stratega politico. A Luigi Salvatorelli il compito di ribadire che «non sarebbe esatto dire che Mazzini e Cavour abbiano concorso entrambi (salvo a discutere la parte di cia scuno) a un risultato che, unificando l’opera loro, li ha trascesi ambedue. Sarebbe una bella costruzione di conciliatorismo storicistico, ma arbitraria: poemetto, egloga pastorale, non storia. In realtà, ci fu nella lotta un vincitore e un vinto; vincitore Cavour , vinto Mazzini»; anche se, ribal – tando il giudizio, altrove sembra contraddirsi 18. Quando, però, gli storici si dividono sul ruolo dei singoli personaggi, vuol dire che sul resto sono abbastanza d’accordo.


Rimpianti e recriminazioni

Di recente è emerso un fermento critico nuovo nei confronti del risorgimento. Di chi ritiene che gli italiani non meritino l’eredità risorgimentale perché hanno perso coscienza dei suoi valori. E di chi, in qualche settore cattolico, ripropone l’immagine delle «due Italie», vede nel conflitto tra Stato e Chiesa il peccato originale del liberalismo italiano. Le due correnti di pensiero rischiano quasi di concordare in una critica severa verso l’Italia del presente e quella del passato. Emilio Gentile è il più coerente esponente della prima scuola di pensiero, quando lamenta che il nostro è un «Risorgimento senza eredi, nel senso che nel paese è difficile rintracciare idee, comportamenti e mentalità riconducibili al movimento nazionale da cui trasse origine l’Italia unita». E il primo tradimento è quello di un «valore fondamentale che è la laicità. Quella che creò lo Stato unitario era una cultura laica e anticlericale ma non anticattolica né anticristiana, come erroneamente confondono alcuni fra gli attuali demolitori del Risorgimento. Oggi tutti i partiti politici – tranne i radicali e altre minoranze di politici non credenti o di credenti in altre religioni – tendono a riconoscere pubblicamente alla Chiesa cattolica un primato morale e pedagogico nei confronti della collettività che si chiama Stato italiano».

Per Gentile, difettiamo di senso dello Stato anche perché «a noi certamente è mancata quella lunga unità statuale che è stata operante in Francia, in Inghilterra e in altri Stati nazionali, capace di superare anche profonde lacerazioni, favorendo la formazione di una coscienza nazionale più ampia e più costante. Lo Stato italiano s’è formato tardi e non ha avuto sufficiente tempo per consolidarsi». D’altronde, molti italiani non sanno nemmeno che lo Stato unitario è nato il 17 marzo 1861, al punto che «non siamo riusciti ad avere una festa nazionale paragonabile, per la sua funzione unificante, al 4 o al 14 luglio».

La disaffezione al risorgimento, per Gentile, ha radici anche nel secondo dopoguerra che vede affermarsi due patrie aliene, universalistiche, quella del comunismo internazionalista e l’altra democristiana. Entrambi gli schieramenti utilizzano il risorgimento per i propri scopi; la sinistra sceglie Giuseppe Garibaldi come simbolo del Fronte popolare nel 1948, la Democrazia cristiana vede nella conciliazione con la Chiesa il compimento degli ideali risorgimentali. Però, «dietro questi appelli patriottici, i due più grandi partiti di massa in realtà favorivano l’obbedienza a due patrie differenti – quella nazionale e quella ideale: nel caso del PCI la patria ideale è rappresentata dal comunismo internazionalistica, nel caso dello scudocrociato è invece rappresentata dall’adesione al cattolicesimo. Quest’ambivalenza favorisce una dissociazione dell’idea di patria dalla realtà dello Stato nazionale (…). Prima ancora di essere cittadini italiani, si era comunisti, socialisti, democristiani».

Con qualche analogia, Massimo Salvadori lamenta che le ideologie rivoluzionarie non promuovono «in concreto alcuna rivoluzione, nessun capovolgimento di sistema. Infatti, a differenza che in altri Paesi europei che conobbero vere rivoluzioni o quanto meno assalti alle istituzioni autenticamente rivoluzionari – si pensi solo alle rivoluzioni inglesi del Seicento, alla rivoluzione francese del 1789, alla Comune di Parigi del 1871, alle rivoluzioni russe, ai tentativi rivoluzionali nella Germania degli anni ’20, alle vicende della Spagna durante la guerra civile – in Italia nessuna rivoluzione è mai stata attuale e neppure concretamente tentata». Di qui la con – clusione che i nostri furono «rivoluzionari senza rivoluzione»

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