INNO A SATANA di Giosuè Carducci

INNO A SATANA di Giosuè Carducci


Inno a Satana Documento importante del sistema di idee del Carducci e di una tendenza della cultura e mentalità contemporanea è l’Inno a Satana, che compone nel 1863 e pubblica due anni dopo. Satana per i reazionari era simbolo della modernità da condannare in tutte le sue forme. Al contrario Carducci in questa sua lirica celebra la figura di Satana e la rovescia in positivo; esso diventa quindi simbolo degli aspetti più positivi della vita. Nelle prime cinque strofe del componimento Satana rappresenta le gioie terrene: il banchetto, il vino, l’amore, princìpi della pienezza vitale. A questo proposito significativi sono i versi 19-20 nei quali il poeta con un apostrofe invoca Satana chiamandolo “Re del convito”. Nelle strofe seguenti Satana viene identificato con le bellezze naturali ed artistiche; infatti Carducci lo rappresenta con Agramainio, che nella mitologia iranica è il principio del male e della ribellione, con Adone, che nella mitologia greca è il bellissimo ragazzo di cui si innamorò Venere, allegoria della primavera e della natura e della natura fiorita, e infine Astarte, dea fenicia del piacere. Le bellezze naturali vennero fissate sulla tela o sulla carta o scolpite nei marmi dai Greci (cfr. verso 91 “i segni argolici”). Contro queste bellezze artistiche si scagliarono però con la loro ottusità ed il loro oscurantismo i primi cristiani, che non compresero il valore intrinseco di queste opere, e le considerarono solo idoli pagani. Ma il paganesimo, benchè bandito dal cristianesimo, sopravvisse nella plebe (vv 93-96).L’inno continua poi mettendo in campo due figure: quella dell’alchimista e del mago del medioevo, entrambi insoddisfatti del loro sapere. Essi sono esempi dell’oscurantismo medievale e della superstizione che la ragione e la scienza, incarnate da Satana, dovrebbero trasformare in vero sapere (vv 105-108). Nella strofa seguente (vv 113-116) Carducci descrive  i primi monaci cristiani che praticarono l’ascetismo nel deserto; il monaco è definito triste proprio perché fugge dalla natura, si nasconde da essa perché vede in questa una manifestazione di Satana. Ma certamente i più degni simboli dell’oscurantismo medievale, in quanto ne furono vittime, sono Abelardo ed Eloisa (vv 117-120).Abelardo fu un celebre filosofo vissuto nel XII secolo, propugnatore del libero pensiero, si innamorò della sua allieva Eloisa e venne punito dallo zio di lei con l’evirazione.Poi polemicamente il poeta descrive la vita nel chiuso del convento dove i monaci sono attratti in maniera peccaminosa dalla cultura classica, leggendo Virgilio, Orazio e gli elegiaci. Qui è Satana ad essere simbolo di questa cultura, in quanto espressione di valori come la bellezza, l’amore e i piaceri della vita.Con il passare dei secoli, soprattutto a partire dal 1300 Carducci mostra però come l’ascesi, la rinuncia, il dogmatismo non abbiano vinto del tutto: lo provano i roghi di Wicleff e di Huss, di Arnaldo da Brescia e di Savonarola, tutti monaci riformatori bruciati come eretici. A queste figure si associa quella di Lutero, l’iniziatore della riforma protestante, poi scomunicato dalla Chiesa di Roma. Nel finale dell’inno, Satana viene identificato con il progresso della scienza, forza “vindice” della ragione e del progresso che anche nel presente ha vinto ogni forma di oscurantismo e di dogmatismo del cristianesimo. L’immagine più evidente del progresso è la macchina a vapore, la locomotiva, “un bello e orribile mostro” (vv 169-170).  Le idee che il Carducci esprime nell’inno, così rivoluzionarie, e forti, erano comuni a buona parte dell’opinione pubblica del tempo, decisamente anticlericale, laica e vicina all’ottimismo della filosofia positivista.È altrettanto significativo come Carducci sviluppi una materia così nuova e rivoluzionaria in forme però classicheggianti: tutta la poesia è ricca di termini aulici, di riferimenti dotti, di latinismi. La sezione della poesia più ricca di preziosità e di erudizione è quella in cui Carducci fa sfoggio delle sue conoscenze mitologiche, cioè i versi dal 65 all’84, dove racconta il mito dell’amore tra Venere e Adone ed i luoghi dove le divinità venivano venerate;latinismi: es. il “brando”, la spada, al verso 27, “l’alma Cipride”, verso 75, che ci ricorda l’Alma Venus del proemio del De Rerum Natura, cioè la Venere datrice di vita, oppure anche la natura “egra” del verso 104. Egra deriva dall’aggettivo latino aeger, che significa malato, debole. Troviamo anche pugna (v 157), vindice (vendicatrice, da “vindix”).