INFERNO CANTO III RIASSUNTO

INFERNO CANTO III RIASSUNTO

Solo ora Dante affronta la descrizione dell’oltretomba. Tutto il canto è condotto sulla falsariga di Virgilio: dall’esortazione a lasciare prima di entrare nell’Inferno ogni esitazione e debolezza d’animo, alla stessa concezione d’un vestibolo infernale; senza dire del grande episodio dell’Acheronte che si può dire ricalcato sul testo del poeta latino. Tre sono i nuclei essenziali del canto:
1. la porta infernale;
2. la descrizione della sterminata massa dei pusillanimi, dei loro lamenti, della loro pena;
3. il passaggio dell’Acheronte

Dante immagina che la porta dell’Inferno rechi sulla sommità un’iscrizione come la recavano a suo tempo molte città. Ciò che Dante, ancora vivo non riesce a comprendere appieno è proprio il concetto di “eternità”, questa possibilità assoluta di sperare. La vita umana è essenzialmente cambiamento e quindi speranza. Neli uomini che soffrono in terra pene, vige sempre la speranza che esse possano, sia pure in un futuro lontano, diminuire, cambiare o cessare magari con la morte. Non così nei dannati: quel che rende le loro per assolutamente diverse dalle terrene è la condanna irremissibile a lasciare ogni speranza. Neppure la morte può segnare la fine di esse. Sulla terra, l’alternarsi di luce ombra, l’avvicendarsi delle stagioni danno all’uomo la sensazione della tregua, la certezza della ripresa della vita dopo ogni pausa. Qui lo stesso tempo è abolito: l’aura è sempre nera. Dante non può afferrare interamente questo concetto: lo intravede e ciò basta per spaventarlo. Ha pertanto dinanzi alla porta ancora un istante di esitazione, di pusillanimità: di nuovo si crede impari all’impresa, dubita di poter penetrare nell’Inferno; onde Virgilio gli rammenta la necessità di affrontare con coraggio l’ignoto.
Un vortice di lamenti investe il viaggiatore subito oltre la porta: sono i pusillanimi confinati qui, nel vestibolo dell’Inferno. Nella pena che immagina per i vili, Dante applica per la prima volta la legge generale del contrappasso: la pena corrisponde per somiglianza o opposizione al peccato che la origina. Essi sono costretti a correre nudi dietro una bandiera, loro che non ne ebbero alcuna, punti a sangue da mosconi e vespe e dei vermi raccolgono ai loro piedi lacrime e sangue. Per Dante, spiacente e amaro più della sofferenza è lo svilimento. Già questa scelta mostra quali sia la reazione dell’uomo Dante di fronte a chi non sa assumersi le proprie responsabilità, come lui seppe fare. 
Il pellegrino che all’affacciarsi al vestibolo, al primo urto dei lamenti dei suoi abitatori, aveva pianto, ora prova solo disprezzo. I vili non hanno lasciato di sé nel mondo alcuna fama; nell’oltretomba Dio non li degna della sua misericordia e neppure della sua giustizia, li rilega ai margini anche nell’Inferno. A essi il poeta mescola gli angeli “neutrali” coloro che non seguirono Lucifero nella sua ribellione, ma neppure presero posizione per Dio: anche essi sono indegni sia del cielo sia dell’Inferno. Pur avendo conosciuto qualcuno nella turba infinita dei vivi, il poeta degna naturalmente di nominarlo; c’è solo un riferimento a Celestino V, il papa la cui abdicazione aveva aperto l’accesso al pontificato di 
Bonifacio VIII, l’assertore della supremazia papale sull’imperatore, per Dante esempio supremo della cupidigia, male del mondo. Colui che aveva tentato di estendere il dominio della Chiesa su Firenze ed era stato responsabile dell’esilio di Dante. 
L’ultima parte del canto narra l’affollarsi delle anime da ogni paese sulle rive dell’Acheronte; l’arrivo del traghettatore Caronte, il “cruccio” di questo nel vedere tra i morti un vivo, il suo placarsi quando Virgilio gli dirà che ciò è voluto dal cielo, la disperazione e le maledizioni dei dannati e il loro imbarco. Infine la terra trema, balena una luce vermiglia e Dante cade in un profondo sonno. Quando Siviglia sarà di là del Acheronte. Quest’ultima parte è tra le più celebri del poema. Dante ci dona particolare i rispettivi potenti, ma sono darsi che impegnano più una fantasia letteraria che la coscienza del poeta. Questi non ancora acquistato la padronanza piena della sua nuova materia, procede non per dividere, ma per masse; sia potenza pittorica e plastica ma non l’impegno di uno scavo psicologico profondo. In effetti, i personaggi a tutto tondo si avranno solo cominciare il canto V: ancora se gli intellettuali, pur i nomi-emblemi sono quasi tutte le numerose persone menzionata il canto quarto. Si direbbe che Dante nel cominciare il suo poema pensasse una descrizione per categorie di peccatori e di pene e solo in un secondo tempo egli abbia puntato, oltre che sulle “masse”, su personaggi singoli, che nella loro pienezza della loro individuale e irripetibile umanità, potessero tuttavia porsi come esemplari della categoria di cui fanno parte. 

1-21: I due poeti sono davanti alla porta dell’inferno. Dante elegge su di essa una terribile iscrizione che, dichiarando l’eternità del luogo, ammonisce chi entra a lasciare ogni speranza. Queste parole turbano poeta, ma Virgilio rinfranca esortandolo a lasciare ogni dubbio, ogni viltà. Preso per mano, non introduce nel regno dei morti.

22-69: Appena entrato nell’inferno Dante è colpito da sospiri pianti e lamenti; diverse lingue, tabelle spaventose, parole, urla, colpi di mani per potenti, turbinano in un tumulto che costringe il poeta alle lacrime. Chiesta Virgilio che sono quelle genti che si lamentano, viene sapere che sono le anime dei pusillanimità, respinte dallo stesso inferno dalla loro vita senza scopo. A queste sono mischiati gli angeli neutrali, che atteso l’esito della lotta tra Dio Lucifero. I ceri e cacciarono, l’inferno di respingere. Virgilio sdegnosamente invita il poeta a passare oltre. Dante scorge tra questi spiriti l’ombra di colui che fece un gran rifiuto, passa e non nomina neppure. Osserva la loro piena: sono costretti a correre eternamente dietro l’insegna, punti da parte mosconi, mentre il sangue, che riga loro il volto, e le lacrime cadono a terra, raccolte da schifosi vermi.

70-120: Dante guarda più oltre e vede sulla riva di un fiume, l’ Acheronte, una grande moltitudine di anime che appaiono, per quanto consente l’oscurità, desiderosa di passare all’altra riva. Dante richiede ragione Virgilio che rimane però aspirazione al momento in cui saranno sulle rive del Acheronte. Improvvisamente appare sul fiume una barca condotta da un vecchio nocchiero che rivolge le anime minacce terribili. Poi, voltosi a Dante, gli ordina di ritornare indietro perché di lì non potrà passare. È il demonio Caronte, che Virgilio invita a non crucciarsi perché il viaggio di Dante è voluto da Dio. Intanto le anime, gridando e bestemmiando, si affrettano a salire sulla barca, mentre Caronte le percuote con il remo; ma prima che quelle siano giunte all’altra riva, su questa se ne raduna una nuova schiera.

121-136: Con dolcezza Virgilio spiega Dante che attraverso Acheronte non può passare anima non dannata, perciò le parole di Caronte diventano ben chiare. Appena terminato questo discorso, un bagliore improvviso squarcia le tenebre preceduto da un terremoto pauroso per cui Dante perde i sensi.

/ 5
Grazie per aver votato!