INFERNO CANTO 13 ANALISI

INFERNO CANTO 13 ANALISI


Nel 13º canto Dante si trova con Virgilio nel secondo girone del settimo cerchio, quello in cui si trovano i violenti contro se stessi, che per Dante sono i suicidi e gli scialacquatori. Il canto si apre con la descrizione del girone, che consiste in un bosco di cespugli sparsi a caso (questi sono spinosi ma non bassi, perché quando verrà il giudizio universale i corpi di queste anime-cespugli verranno appesi su di questi). In questi versi vengono fatti un’ anafora, un parallelismo e delle antitesi: l’anafora consiste nella ripetizione di “non” ai versi 1, 4, 5, 6 e 7; il parallelismo nella disposizione di “non” e “ma” negli stessi versi; le antitesi nella contrapposizione tra “verde” e “color fosco” (v.4), tra “schietti” e “nvolti” (v.5), tra “pomi” è “stecchi” (v.6). Poi, dato che spesso i luoghi dell’Inferno dantesco sono difficili da concepire per un uomo, il poeta richiama, per una maggiore comprensione del lettore, un ambiente reale, la Maremma, caratterizzata (a quel tempo) da una vegetazione a macchie, di arbusti bassi e irti.


Quindi viene fatta la descrizione delle Arpie, che è piuttosto statica e non incide molto (anzi niente) sugli eventi del canto, in cui si trova un iperbato (v.15: “fanno lamenti in su li alberi strani”).Comincia un dialogo tra Dante e Virgilio. Quest’ultimo, comprendendo i desideri di Dante (“cred’io ch’ei credette ch’io credesse”, un poliptoto), lo invita rompere un rametto di un cespuglio che gli sta vicino per rendersi conto della verità. Quindi rompe il ramo di Pier della Vigna (e non del cespuglio di Pier della Vigna, perché il cespuglio è l’anima, infatti dal cespuglio non escono solo parole, ma anche sangue) e comincia in dialogo intricato ricco di figure retoriche. La condizione dei suicidi viene espressa pienamente da Pier delle Vigna al verso 37 con un chiasmo, “uomini fummo, e or siam fatti sterpi” (nome + verbo + verbo + nome), e già da questo verso si comprende il contrappasso: i suicidi sono trasformati in piante, forma di vita interiore, perché essi hanno rifiutato la loro condizione umana uccidendosi, quindi (per analogia) non sono degni di riavere il loro corpo, neanche quando arriverà il giorno del Giudizio Universale.


Al verso 40 viene fatta una similitudine (“come d’un stizzo verde ch’arso sia”), seguita da un anacoluto ai versi 43 e 44, cioè una concordanza a senso tra il verbo “usciva” e i soggetti “parole e sangue”. Al verso 48 Dante ammette di aver usato come come fonte Virgilio, anzi è il poeta stesso dirlo: “ciò c’ha veduto pur con la mia rima”, c’è un evidente riferimento al terzo libro dell’Eneide, dove si parla dell’episodio di Polidoro. In riparazione del danno, viene chiesto a Pier delle Vigna di presentarsi, cosicché Dante potrà ricordarlo tra i vivi. Questi accetta e decide di non esplicitare il suo nome, ma di utilizzare una perifrasi (“Io son colui….”), Ai versi 55 e 57 vengono utilizzati due verbi tipici della pratica venatoria, passatempo tipico della corte dell’impero di Germania di Federico II, come “adescare”, prendere con l’esca, e “invischiare”, afferrare con vischio, accorgimenti che ci fanno comprendere l’innalzamento del tono stilistico del canto, sempre più ricercato e artificioso. Queste due metafore sono seguite da una terza ai versi 58 e 59: “tenni ambo le chiavi del cor”. Al verso 60 c’è un’antitesi (“serrando è disserrando, sì soavi”). Al verso 64 comincia un’altra perifrasi per descrivere l’invidia, che viene paragonata con una metafora a una meretrice. In questi versi vengono utilizzati un poliptoto (“infiammò contra me li animi tutti; e lì infiammati infiammar si Augusto”), due antitesi (“che ‘ lieti onor tornaro in tristi lutti” e “ingiusto fece me contra me giusto”), un ossimoro (“l’animo mio, per disdegnoso gusto”) e una metonimia (“per le nuove radici d’esto legno”, dove legno sta per cespuglio). Dante è colpito dalle parole di Pier delle Vigna così tanto da non riuscire a porgli nessuna domanda, quindi dovrà farlo Virgilio per lui. Questi chiede quindi come le anime si trasformino in piante se alcuna di esse si divincoli mai da tale forma. Della risposta di Pier della Vigna ho già detto sopra. Il dialogo si interrompe improvvisamente: Dante e Virgilio infatti credevano che proseguisse il dialogo, perché di Pier delle Vigna non vedono né occhi né bocca, ma soltanto cespugli. Quindi entrano in scena gli scialacquatori: essi, che in vita distrussero le proprie sostanze, adesso per la legge del contrappasso vengono distrutti da cagne fameliche. Dante nomina Lano da Siena, membro della brigata spendereccia e morto alle “giostre dal Toppo”, e Iacopo da Sant’Andrea, oggetto di numerosi aneddoti su come distrusse le proprie ricchezze. Quest’ultimo, per difendersi dalle cagne si getta inutilmente dietro un cespuglio, lacerandolo. Il cespuglio che si lamenta chiede a Virgilio e Dante di raccogliere i rametti spezzati e metterli ai suoi piedi; quindi si presenta, utilizzando una perifrasi per descrivere la propria città, Firenze.