IN MEMORIA UNGARETTI

IN MEMORIA UNGARETTI


-Il titolo (In memoria) fa riferimento alla formula tipica delle sepolture: sta a significa “per ricordare”.

L’imperfetto del v. 1 fa riferimento sia alla dipartita di Sceab sia al fatto che l’uomo, una volta raggiunta la Francia, decise di cambiare il proprio nome in Marcel (v. 10). Ungaretti spiega questa scelta con l’amore per il nuovo Paese, ma questo non bastò.

Ai vv. 5-7 Ungaretti spiega il gesto del suicidio (il termine «suicida» è posto isolato dal resto al v. 5, per dargli ancora più rilevanza): «non aveva più / Patria». Sceab aveva abbandonato il paese d’origine, ma non riuscì mai ad adeguarsi alla cultura e alla società francesi: «non era Francese / e non sapeva più / vivere / nella tenda dei suoi» (vv. 11-14). Si sentiva un esule privo di identità e non sapeva spiegarlo con la poesia («non sapeva / sciogliere / il canto / del suo abbandono», vv. 18-21). Nonostante la similarità tra le esperienze Ungaretti riuscì, a differenza dell’amico, a vedere nella poesia un appiglio contro lo smarrimento e il dolore.

Nei versi successivi, Ungaretti ricorda il corteo funebre dalla loro abitazione, in un «appassito vicolo» del Quartiere Latino («L’ho accompagnato / insieme alla padrona dell’albergo / dove abitavamo», vv. 21-22), verso il «camposanto d’Ivry» (v. 29), nella zona sud di Parigi, che al poeta ricorda una «decomposta fiera» (v. 34), una sorta di festa paesana che volge al termine e che vede la folla defilarsi in maniera disordinata.

I versi finali rivelano la desolazione del poeta: forse lui è l’unico depositario della vicenda dell’amico e questa lirica si propone in qualche modo di evitargli l’oblio, ricordando la sua identità e la sua storia. La poesia diventa quindi quello strumento attraverso cui si può offrire consolazione e garantire il ricordo di ciò che è stato.I versi brevi, costituiti anche da una sola parola, danno alla poesia un ritmo lento e frantumato. Si parla di morte, ma non traspare disperazione: il racconto della vita di Moammed Sceab avviene attraverso una serie di negazioni («non aveva più / Patria», «non era Francese», «non sapeva più / vivere», «non sapeva sciogliere / il canto / del suo abbandono») e la rievocazione assume la forma di una marcia funebre non fisica.


ANALISI

La poesia è aperta da un imperfetto (“si chiamava”) e si snoda, nei suoi passaggi essenziali, fino alla penultima strofa, attraverso verbi coniugati all’imperfetto come “non aveva” (v. 5), “non era” (v. 11), “non era” (v. 12), “non sapeva” (ripetuto, quindi, al v. 18), cui è affidato il ruolo si stabilire una “durata” al negativo, come sottrazione; al contrario, gli imperfetti si alternano ad una quantità altrettanto significativa di passati remoti, da “amò” (v. 8), “mutò” (v. 9), “fu” (v. 10), che, per il contrasto anche fonico, dato dal loro carattere sincopato, monosillabico “fu”, accentuati gli altri, creano un piano “altro” del discorso, dal tono fortemente assertivo quanto il primo procedeva per definizioni vaghe e indefinite, difficilmente riconducibile all’unità oggettiva di una sintesi organica. Esemplificativo in questo senso il “salto” dei vv. 10-3 dove al “fu” viene immediatamente opposto un “non sapeva”, quest’ultimo poi nella rilevante funzione di reggere l’infinito “vivere”, verso isolato e perno anche concettuale di tutta la strofa, in cui i quattro versi seguenti constano di sue presenti, un indicativo e un gerundio, la cui azione, che si trova su un piano di contemporaneità a quello dell’imperfetto “non sapeva”, appare tuttavia quasi anacronistica, senza un riferimento reale.
Le ultime due strofe impostano una nuova dimensione temporale. Nella penultima è ancora forte lo scarto tra l’apparente oggettività del presente che i due verbi “riposa” e “pare” determinano sintatticamente, e il senso di durata non misurabile che sottintendono: riposare “nel camposanto d’Ivry” è infatti in palese contraddizione con qualsiasi concezione del tempo come “hic et nunc”, mentre “pare”, verbo di per sé di durata, è rafforzato dal “sempre” del v. successivo, significativamente “isolato” nel verso come il “vivere” del v. 13, e qui come lì perno concettuale della strofa, e seguito da “in una giornata / di una / decomposta fiera” dove gli articoli “una”, “una” lasciano ancora imprecisata la dimensione temporale, e qui anche spaziale, entro la quale ci troviamo, mentre l’enjambement una / decomposta fiera non fa che accentuare il senso di estraneamento.
L’ultima strofa, infine, vede i due piani del presente, il piano del poeta, soggetto del ricordare, e del passato, che appartiene all’oggetto del ricordo, immediatamente contigui e giustapposti: “so ancora / che visse”. È così colmata la “distanza” tra l’io e l’altro che nella poesia era interrotta solo nella strofa aperta da “L’ho accompagnato”. I due poli sono ora lo stesso: l’altro trova la sua ragione di esistere nel ricordo del’io, che ne riconosce l’esistenza. Questa agnizione è sottolineata da una chiusura essenziale, costituita da solo quattro parole, di cui due monosillabiche.


LA MEMORIA

La memoria è dunque memoria mentale, interiore, quasi un fatto privato che coinvolge solo il poeta e l’oggetto della memoria, sia che questo sia un “altro” da sé come nel caso di “In memoria”, ma anche, per restare a Ungaretti, “La madre”, dove però la partecipazione emotiva appare ben diversamente preponderante, sia che, come spesso accade, l’”altro”, altro non sia che una proiezione del sé, un alter-ego.
Pur nel variare degli oggetti della poesia, delle sue occasioni, dello stesso approccio alle tematiche che tocca, i poeti del Novecento, considerati attraverso lo specchio dei suoi due più rilevanti esponenti, Ungaretti e Montale, restano debitori, per quanto il rapporto con la memoria, con la lezione leopardiana particolarmente del periodo pisano-recanatese e delle canzoni “A Silvia” e “Le ricordanze”. Anche in quel caso Silvia e Nerina apparivano come le proiezioni nel passato di una memoria incentrata quasi esclusivamente sull’io, nel quadro tuttavia di un costante ripensamento della propria giovinezza perduta, delle speranze e dei ricordi che l’hanno accompagnata.
Negli esempi novecenteschi che si possono addurre come esempio, testi tra loro differenti come “La casa dei doganieri” e “Xenia, II, 13” di Montale, l’oggetto della memoria si muove in uno spazio mentale dominato, nel primo caso, da una profonda ambiguità “tu non ricordi” dice il poeta ad un “altro” che non è nella condizione di ricordare dal momento che è l’oggetto stesso del ricordo e dunque, come in Leopardi (“Silvia, rimembri ancora”), l’interrogazione funziona come uno sdoppiamento dell’io, che provoca estraneamento. Per quanto meno ambiguo nella sua formulazione e inserito in un discorso che ha un andamento colloquiale e prosastico, e quindi all’opposto stilisticamente rispetto a “In memoria”, il rapporto che si istituisce tra io e altro nel secondo esempio è identico a quello della poesia di Ungaretti per la distanza che li separa e che termina al momento dell’agnizione e quindi dell’immedesimazione, che si serve di termini che la rendono esplicita: “sono rimasto il solo per cui egli è esistito”.

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