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Era una notte buia e tempestosa quando il 21 settembre 1944 le retroguardie tedesche,incaricate di far esplodere il Ponte di Tiberio per rallentare l’avanzata alleata, lasciarono defitivamente Rimini. Come è noto, fortunatamente il monumento romano si salvò,non così la città bombardata da quasi un anno…Ma come si era giunti aquesto epilogo? Perché Rimini non divenne una nuova Stalingrado, città da difendere casa per casa?L’offensiva alleata per la conquista di Rimini era iniziata il 18 settembre,preceduta da un massiccio bombardamento di 700 cannoni. Avevano proseguito 486 aerei nell’ammorbidire le difese sganciando a ripetizione le proprie bombe. A questi si aggiungevano i temutissimi cannoneggiamenti della 14ª Flotilla alla fonda a Cattolica, i quali, oltre al pericolo rappresentato,rendevano impossibile il sonno agli stanchi soldati tedeschi, che avevano turni di riposo di due ore in buche mimetizzate.
L’attacco venne portato lungo tutto il corso del fiume ausa compreso il territorio di San Marino, e per quanto non risolutivo, debilitò fortemente le difese tedesche. Il 19 settembre vide ancora bombardamenti e attacchi fino a San Fortunato, pericolosamente vicino a Rimini, ed
ancora bombardamenti, bombardamenti, fino ad arrivare ad un milione di colpi per il solo colle di Covignano. Il generale Patton rispondeva a chi gli chiedeva chi avesse vinto la guerra, con la parola “l’artiglieria” e lo stesso Stalin voleva ripetere che l’artiglieria era il dio della guerra. Ma i soldati Indiani, Inglesi, Canadesi, Neozelandesi, Greci, una volta esaurita la voce del cannone dovevano poi attaccare.
Un ufficiale dei Gurkha, le truppe nepalesi punta di diamante dello schieramento britannico, così descrisse la sua offensiva sulla Linea Gotica: «Il nemico combatteva freneticamente nella notte per andarsene all’alba, ma solo fino al crinale successivo. C’era sempre un altro crinale. Quando l’avevamo preso c’era sempre un corso d’acqua protetto dal fuoco dei mortai. Si avanzava su una ripida collina, si arrivava in cima, si discendeva sul pendio opposto in piena vista del nemico, si cercava un passaggio fra letali campi di mine, si attraversavano i torrenti dall’acqua gelata e poi c’era un altro crinale itto di nemici. Con le armi e i rifornimenti, i servizi del genio e quelli sanitari che ci seguivano, combattendo giorno e notte su un terreno orribile, in ogni tempo questo fu per cinque settimane la nostra avanzata “gotica” sull’Appennino marco-tosco-romagnolo». Il 20 settembre fu la giornata decisiva.
Il reggimento canadese dei Van Doos (che quest’anno celebra il centenario della sua fondazione) spezzava la difesa tedesca sul colle di Covignano nella notte tra il 19 e il 20: tra San Fortunato e Villa Paradiso, la compagnia del capitano Dougan del Loyal Edmonton trovò la via verso San Lorenzo Monte, mentre gli attacchi degli altri reparti costringevano i tedeschi a ripiegare su Vergiano e sul Marecchia. Invece la colonna corazzata britannica dei Queen’s Bays veniva inopinatamente distrutta a Montecieco, in quella che Amedeo Montemaggi chiamerà “la seconda Balaklava” a ricordo della carica suicida in Crimea nel 1855: in tal modo non si impedì la ritirata ai difensori di Covignano. Gli Indiani però occuparono San Marino e spinsero il nemico a ritirarsi sul Marecchia.
Sulla costa la difesa tedesca era durissima e solo nel pomeriggio del 20 settembre i Greci giunsero alla chiesa della Colonnella. Alle 18,00 iniziò a piovere fittamente mentre al Comando tedesco si vivevano ore drammatiche; il dubbioso “Che fare?” assalì Kesselring, comandante supremo delle forze in Italia e il generale Von Vietinghoff, comandante della 10ª armata. Gli archivi ci hanno consegnato i colloqui telefonici tra i due alti ufficiali: Kesserling propendeva per trasformare Rimini in una trappola urbana, utilizzando proprio quei “Diavoli Verdi” che avevano reso celebre la battaglia di Montecassino: «Io penso che Rimini debba essere tenuta dai paracadutisti che combatteranno casa per casa. Sono particolarmente abili nella difesa urbana e se tengono la linea della costa all’altezza di Piazza Tripoli, impegneranno il nemico sul fianco… Da Rimini si potrebbe prendere d’infilata, sul fianco, il nemico che avanza da Spadarolo verso il Marecchia…».
La decisione avrebbe quindi comportato la completa distruzione di ciò che restava ancora in piedi di Rimini (il 10% circa), un rinvio alla liberazione della città, ma anche una probabile eliminazione di provetti combattenti. Temendo quest’ultima eventualità, Von Vietinghoff aveva predisposto una linea difensiva sulla riva sinistra del Marecchia, tra Rivabella e Viserba, ma ciò ovviamente significava l’abbandono di Rimini. Kesselring era contrario, insisteva perché non voleva abbandonare “la famosa Rimini”; egli era il comandante supremo, ma chi si trovava sul luogo era Von Vietinghoff, un valente generale che conosceva il territorio e lo stato delle sue truppe: quest’ultimo non poteva contraddire il suo diretto superiore, ma abilmente gli prospettò gli aspetti negativi di quella sua eventuale decisione. Alla fine Kesselring cedette: «Non si possono lasciare retroguardie a Rimini, a 4 o 5 chilometri dal grosso. Sarebbero subito eliminate». Inoltre il pessimo tempo atmosferico, che impediva l’impiego di forze aeree e limitava la visibilità, agevolava una ritirata ordinata e perciò alle 19,30 venne emanato l’ordine di ritirata, da svolgersi durante la notte. I genieri si occuparono di far esplodere i punti strategici e i palazzi, soprattutto ad angolo, ancora illesi, e in questa occasione il maresciallo Willi Trageser risparmiò l’Arco di Augusto e, forse involontariamente, il ponte di Tiberio. Alle prime ore del 21 settembre tutti i tedeschi avevano lasciato la città, mentre i Greci, alla Colonnella, si chiedevano che cosa significassero quelle esplosioni: intuendo le mosse avversarie si avvicinarono e giunsero indisturbati al ponte sull’Ausa, dove incontrarono due ufficiali neozelandesi in avanscoperta per trovare vie di accesso non minate.
Il 21 settembre Rimini era una città fantasma, con poche decine di abitanti che avevano trovato ricoveri fortunosi e avevano rischiato la vita pur di non allontanarsi. Proprio questi ultimi per primi si erano resi conto che i Tedeschi se ne erano andati: due di essi, Remo Samaritani e Umberto Antoni, avvisarono i greci che i tedeschi avevano lasciato la città. Intanto via radio gli ufficiali neozelandesi diedero le istruzioni ai loro blindati di percorrere la via Bastioni Meridionali per giungere in Piazza Malatesta e poi in Piazza Cavour. Nel frattempo i Canadesi erano avanzati su due direttrici: verso San Martino in Riparotta e verso la parte nord della città, tra il borgo Sant’Andrea e la zona del Crocifisso, giungendo prima dei Greci al ponte di Tiberio. Gomberto Bordoni, socialista antifascista col fratello Romolo e il cognato Biagio Del Prato, incontrò i soldati greci e li portò fino a Piazza Cavour, dove fu issata la loro bandiera. Quando un neozelandese chiese chi fossero, Antoni indicò Bordoni dicendogli «È il sindaco di Rimini». E così nelle storie greche e neozelandesi è inserito un sindaco in più rispetto all’albo ufficiale. Nella prima mattina del 21, sotto una pioggia battente, finalmente Rimini era libera. Ma quale Rimini? Una città bombardata per cielo e per mare centinaia di volte, con i propri ediici distrutti, compreso l’inestimabile gioiello del Rinascimento, il Tempio Malatestiano.