ILLUMINISMO ITALIANO

ILLUMINISMO ITALIANO

L’illuminismo italiano

In Italia non si ebbe uno sviluppo della borghesia paragonabile a quello degli altri paesi europei. Nonostante ciò, a partire dalla seconda metà del Settecento la cultura e la letteratura italiane furono rinnovate dalla diffusione delle idee illuministiche. I nostri scrittori più importanti sentirono il bisogno di riprendere contatto con la cultura europea perché compresero che solo inserendosi nel circolo della nuova storia europea l’Italia avrebbe potuto risollevarsi e partecipare al progresso e alla civiltà.

Illuminismo significò in letteratura reazione al vuoto accademico, significò ricerca di “cose”, non più soltanto di parole ornate, di una letteratura più seriamente legata alla realtà. Per questo motivo i nuovi scrittori polemizzarono contro l’Arcadia opponendosi alle “pastorellerie” cioè ad una poesia d’evasione che si risolveva in forme frivole, lontane dal nuovo ideale di una letteratura fondata su un serio impegno spirituale, morale, civile.

L’Illuminismo in Italia non assunse il tono accesamente polemico e rivoluzionario che ebbe in Francia. Meno aspra fu la polemica contro la Chiesa, attaccata solo sul piano politico e giuridico, dei suoi rapporti, cioè con lo Stato, e non su quello religioso. I nostri scrittori collaborarono prevalentemente con i sovrani “illuminati”, aderendo a un programma di riforme riguardanti l’agricoltura, il commercio, le strutture giuridiche e sociali.

Il classicismo continuò ad operare potentemente nella nostra letteratura, anche perché le esigenze da esso affermate di ordine, equilibrio e chiarezza espressiva non discordavano dalla nuova cultura razionalistica. Le nuove idee s’affermarono soprattutto a Napoli e a Milano, dove più decisa fu la politica di riforme seguita dai rispettivi governi. Importanza minore ebbero Torino e Firenze, che pure furono anch’essi centri cospicui di discussioni culturali, mentre a Venezia non partecipò in modo attivo al movimento.

Gli illuministi napoletani ebbero un atteggiamento un po’ utopistico, quelli lombardi ebbero uno spirito più concreto, pratico e fattivo e collaborarono attivamente alle esperienze di governo “illuminato”, cioè alle riforme promosse dagli austriaci. Tra gli illuministi napoletani fu Gaetano Filangieri che scrisse “Scienza della legislazione”, un’opera che rappresentava il grande ideale illuministico di un radicale mutamento delle strutture politiche e sociali, fondato su una nuova legislazione, che, eliminando i privilegi e gli arbitri feudali, ristabilisse un’autentica uguaglianza tra i cittadini.

Mentre i primi libri dell’opera insistono sui fondamenti giuridici e sulle leggi dello stato, concepiti in senso egualitario, gli altri riguardano l’educazione pubblica, l’istruzione, che doveva essere per l’autore, il vero strumento di rigenerazione della società. Abolendo le sperequazioni sociali, il contrasto tra i pochi “illuminati” e la grande massa degli ignoranti, essa avrebbe creato una partecipazione di tutti alla vita dello stato, migliorato i costumi, ispirato nell’animo dei cittadini un comune ideale, che fondesse l’amore la patria con quello della gloria e della virtù.

Le buone leggi sono l’unico sostegno della felicità nazionale. Filangieri accetta da Montesqueu la dottrina della divisione dei poteri. Sul piano dell’analisi economica critica la grande proprietà laica ed ecclesiastica, avanzando l’idea di una più equa ridistribuzione della terra. Nel rapporto tra Stato e Chiesa propone la totale sottomissione della Chiesa allo Stato. Vede le ragioni della ricchezza nell’industria, nel commercio e soprattutto nell’agricoltura. Il concetto di democrazia, che appunto nell’età illuministica ebbe la sua origine.

Importante fu anche Giambattista Vasco, il maggiore economista piemontese del Settecento, quello che indagò i problemi sociali del tempo. In un’opera “La felicità pubblica considerata nei coltivatori di terre proprie”, Vasco non si limita all’affermazione della superiorità della proprietà contadina sul latifondo, ma postula la necessità d’una legge agraria, d’una equa distribuzione delle terre, difendendo la dignità delle plebi contadine contro il disprezzo dai nobili, e soprattutto affermando la necessità, per la vita stessa dello stato di liberarle dallo sfruttamento e di dare ai lavoratori della terra umane condizioni di vita e il giusto livello di benessere.

Animatore del gruppo milanese fu il conte Pietro Verri, fondatore della “Società dei Pugni”, un’accademia dove si commentavano e discutevano le opere degli illuministi inglesi e francesi e del giornale “Il Caffè” che affrontava argomenti letterari, economici, scientifici. Attorno a questo giornale gravitano i migliori illuministi lombardi come Alessandro Verri e Cesare Beccaria. Pietro Verri collaborò con il governo austriaco, impegnato, sotto Maria Teresa e Giuseppe II, in un’opera di ammodernamento dell’amministrazione del Ducato di Milano.

Alla sua lotta per la liberalizzazione del commercio, lo sviluppo dell’industria, il risanamento delle strutture giuridiche dello Stato e l’eliminazione di corpi parassitari, sono legati i suoi saggi economici di risonanza europea come ad esempio “Meditazioni sopra l’economia politica”. Rilevante è anche l’opera intitolata “Osservazioni sulla tortura, in cui il Verri sostiene l’abolizione in Lombardi della pratica criminale della tortura sancita in Austria da Maria Teresa. La tortura impedisce di conoscere la verità e solo i popoli retrogradi la usano per la loro procedura criminale. E’ necessario abolirla per agevolare una retta amministrazione della giustizia.

Il suo ideale illuministico era quello d’una cultura impegnata, intesa a dare alla società consapevolezza piena dei suoi problemi, premessa necessaria a ogni slancio riformistico, e soprattutto a ridestarla dal suo torpore per congiungerla al grande movimento di idee e di rinnovamento economico, culturale, politico e civile che si verificava nei grandi paesi europei. Il re dell’Illuminismo si attribuisce al saggio “dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. Quest’opera affronta il problema della legislazione criminale in modo rivoluzionario.

Il Beccaria afferma che la pena di morte è inutile, assurda la tortura, ancora usata ai suoi tempi, negli interrogatori come procedura normale, e che le pene debbono essere miti, non intese a straziare il reo, ma a distogliere con la minore crudeltà possibile, gli altri dal compiere gli stessi delitti. Egli rigetta il concetto della pena come vendetta perché visto come residuo delle barbarie germanica medievale o come espiazione e purgazione del reo secondo la sensibilità cristiana propria della teocrazia medievale.

Pone una netta differenza tra peccato, la punizione del quale deve essere lasciata a Dio, e che, interessa la morale e la religione, e il delitto che la società deve considerare dal punto di vista strettamente giuridico, applicando le leggi da lei stabilite ed uguali per tutti. I principi del Beccaria sono ispirati all’idea dello Stato come contratto, cioè come libera associazione di individui rivolta a un fine di utilità comune. Di qui egli deduce l’inutilità della pena di morte e la sua illegalità, dato che nessuno nell’originario contratto sociale può avere affidato alla società il diritto di ucciderlo. L’ispirazione dell’opera è morale ed umanitaria perché afferma l’inviolabilità, la santità della persona umana.

L’accademia milanese dei Pugni, il cui tono ironico e battagliero mostra il tono di sfida culturale che il gruppo lancia ai settori più sonnolenti della cultura, ebbe l’organo di diffusione delle proprie idee nel “Caffè”, il periodo fondato da Pietro Verri e uscito regolarmente dal 1764 al 1766. Il nome del giornale deriva dal fatto che i suoi articoli sono presentati come la trascrizione di discussioni avvenute in un caffè gestito dal greco Demetrio. Il suo programma era quello di contribuire alla formazione di una cultura nuova nata non nello studio solitario dei dotti, ma dalle libere discussioni dei cittadini, volta allo studio dei problemi concreti della società.

Modello del Caffè fu lo Spectator dell’inglese Addison ma mentre quest’ultimo era opera di un solo autore e trattava varie questioni secondo un piano di svolgimento organico, il foglio milanese aveva parecchi collaboratori ed affrontava i più disperati problemi letterari, economici, sociali, giuridici, di igiene pubblica senza un ordine preciso. Centro unificatore del giornale fu il suo culto del nuovo e dell’utile, la sua accesa polemica, intesa alla svecchiamento delle strutture letterarie, economiche e civili della società milanese e, in generale, italiana e la fondazione di una cultura diffusa, critica e del governo austriaco.

Lontani da ogni utopia, interessati alla soluzione dei problemi concreti e più urgenti, gli uomini del Caffè accettano il dispotismo illuminato, ma soltanto come il mezzo attualmente necessario a produrre le desiderate riforme. Essi cominciano a intravedere una forma di governo migliore della propria. Era il loro patriottismo non utopistico, perché non consisteva nell’orgogliosa e ostinata affermazione di un primato culturale italiano nel mondo, che era ormai da molto tempo tramontato, ma nella convinzione che per far risorgere l’Italia occorreva inserirla nuovamente nel circolo vivo della moderna storia europea.

La polemica letteraria del Caffè si racchiude nel motto “cose e non parole”, nel senso della nuova responsabilità umana e civile assegnata all’uomo di lettere. Di qui nascono la lotta contro la letteratura frivola e accademica e l’affermazione dell’esigenza di ricostruire un contenuto serio e dell’arte, traendolo non dalle regole o dalla piatta imitazione degli antichi, ma dal mondo degli affetti reali. Vivacissima è la polemica contro l’Accademia della Crusca, cioè contro l’astratto purismo linguistico.

Gli uomini del Caffè considerano il linguaggio “segno di idee” ed usavano anche termini francesi italianizzandoli. Questa posizione contribuì alla formazione di una nuova prosa non più latineggiante ma vivace, adatta alla divulgazione delle idee. I principali collaboratori del Caffè furono Alessandro Verri, fratello di Pietro, Cesare Beccaria, Gian Rinaldo Carli. Animatore ne fu Pietro Verri. Del Carli si ricorda l’articolo “Della patria degli italiani”, dove l’autore esorta gli italiani a sentirsi connazionali a far si che le loro città, anche se politicamente divise, formino per i progressi delle scienze e delle arti un solo sistema. In questo messaggio del Carli si coglie un invito alla cultura viva e moderna, lontana da ogni provincialismo e legata al progresso europeo.

Uno dei bersagli favoriti dagli uomini del Caffè è l’Accademia della Crusca, in quanto simbolo della tradizione puristica, toscaneggiante della vecchia letteratura fatta di parole e non di cose. Il rinnovamento spirituale e culturale propugnato dall’illuminismo non poteva prescindere da un rinnovamento anche linguistico, perché la lingua si evolve con la civiltà e con il pensiero, mentre il toscano o fiorentino illustre dei puristi era rimasto al Cinquecento. Gli uomini del Caffè affermano il proposito di usare una lingua che sia compresa da tutti gli uomini da Reggio Calabria alle Alpi e sia aperta all’apporto di altre lingue e, quindi agli scambi con le altre nazioni; questo significa affermare l’esigenza di una cultura non più provincialistica, ma italiana ed europea.

Importante a questo proposito è la figura di Alessandro Verri che ha scritto “Rinunzia avanti al vocabolario della Crusca”. Egli rinunciava alla “toscana novella” difendendo l’uso di una lingua attiva, ricorrendo se occorre a espressioni tolte agli stranieri detto forestierismi e ai dialetti o accogliendo parole nuove adatte a rendere concetti nuovi. Le nuove idee ebbero riflessi anche nella critica letteraria per cui si incominciava ad affermare la validità di un’opera d’arte in relazione all’effetto concreto che essa aveva sulla sensibilità del levamento dell’illuminismo disponeva agli animi a gustare una poesia che fosse fondata su un contenuto attuale, che avesse per fine l’utile sociale, dibattesse problemi interessanti, cioè fosse imperniata sulle cose non sulle parole.

Nasce una critica nuova, personale, soggettiva e polemica che rigetta le regole. Il nuovo critico non vuole essere più un dotto o un teorico, ma un letto che mette per iscritto le sue impressioni immediate e i suoi personali risentimenti. Immediato bersaglio polemico fu l’Arcadia, in quanto espressione di una poesia avulsa dalla realtà; di qui si risalì a una considerazione limitativa di tutta la nostra tradizione letteraria come il petrarchismo, il boccacismo, il classicismo tardo rinascimentale.

Giuseppe Baretti e Saverio Bettinelli sono i due critici più importanti della secondà metà del Settecento. Di Bettinelli si ricordano le “Lettere virgiliane” che costituiscono un atto di accusa di tutta la nostra tradizione poetica. Particolarmente severo è il giudizio su Dante: la Commedia appare al Bettinelli un poema oscuro e stravagante, scritto in cattivo stile. Esalta il Petrarca e l’Ariosto, combatte il petrarchismo degenere, l’eccessiva influenza della letteratura francese su quella italiana. Consiglia di chiudere l’Arcadia, che secondo lui aveva ridotto poesia a svago, di abolire l’imitazione passiva degli antichi e di suscitare il bisogno di una cultura e di una letteratura veramente nuove. Importante sono le “Lettere inglesi”, nelle quali condanna la vacuità della presente letteratura e ne vede la ragione nel fatto che manca in Italia una cultura veramente filosofica e unitaria, cioè nazionale, e “l’entusiasmo delle belle arti” dove sostiene il valore predominante della fantasia e dell’entusiasmo nella creazione poetica.

Giuseppe Baretti rappresenta la figura del nuovo critico e letterato che vive dei proventi tratti dalla propria professione, senza dover dipendere da alcun mecenate e può quindi esprimere liberamente le proprie idee. La sua opera più celebre è la “Frusta Letteraria”. Si tratta di un giornale concepito sull’esempio di quello inglese in cui l’autore celandosi dietro immaginaria e bizzarra figura di Aristarca Scannabue, vecchio soldato e giramondo in pensione, frustava gli scrittori italiani contemporanei accusandoli di vuoto fanatismo, di inerzia mentale e spirituale. Egli scagliò contro poeti e prosatori che scrivono componimenti senza “sugo”, senza cioè la minima sostanza. Colpiti sono gli Arcadi e gli illuministi. L’importanza del Baretti consiste nel fatto che egli cercò di ricondurre la letteratura verso un contatto più concreto e immediato con la vita.

/ 5
Grazie per aver votato!