IL SUICIDIO DI PAVESE

IL SUICIDIO DI PAVESE


La stessa delusione del suo personaggio, ma con tanto minore capacità di rassegnazione e di sopportazione, vive anche l’uomo Pavese. Il successo e i riconoscimenti (nello stesso 1950 riceve il premio Strega per La bella estate) non valgono a cancellare le incomprensioni e il senso tragico di solitudine. Il rapporto con il PCI, già difficile, si deteriora definitivamente dopo che Rino Dal Sasso, sull`Unità”, accusa Pavese di avere messo sullo stesso piano, nella Casa in collina, lotta partigiana e Fascismo, suscitando a risentita reazione dello scrittore:

“non dobbiamo dimenticare, come ci insegna l’Iliade, che la guerra è triste cosa, e anche e soprattutto perché bisogna uccidere i nemici.”

I condizionamenti imposti dal partito agli intellettuali gli risultano ormai inaccettabili, come pure, sul piano letterario, il diffondersi della moda neorealistica, con le inevitabili schematizzazioni e semplificazioni che comporta. In questo clima, si risolve dopo molte esitazioni a collaborare alla rivista “Cultura e realtà”, che raduna un folto gruppo di esponenti della sinistra cattolica (tra gli altri, Balbo, Del Noce, Guerrieri). A far precipitare una situazione già precaria, giunge nel 1949 l’incontro a Roma con l’attrice americana Constance Dowling. Pavese se ne innamora subito; ma le sue speranze cadono ben presto, quando Constance, fallito il proposito di far carriera nel cinema, decide di tornare in America senza neppure avvertirlo. Rientrato a Torino, il 26 agosto 1950, si suicida in una camera dell’albergo Roma, ingerendo una forte dose di barbiturici.

Il suicidio di Pavese costituisce un evento con cui è impossibile non fare i conti, anche per il ruolo decisivo che ebbe nella creazione del mito dello scrittore: ma vanno evitatigli opposti eccessi di ridurlo a gesto impulsivo e passionale, o di negare il peso effettivo che le delusioni personali vi ebbero. Un primo strumento per comprenderne le ragioni sono le parole scritte sulla prima pagina della copia dei Dialoghi con Leucò, l’opera più cara allo scrittore, rimasta sul suo comodino: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi. Cesare Pavese.” E’ evidente, anche solo dalla firma, che non si tratta di una scrittura destinata ai familiari, ma di un documento pensato come pubblico. Pavese vi appare come la vittima di interlocutori che necessitano di essere perdonati (per le delusioni politiche, sentimentali, letterarie, di cui si sono resi responsabili), ma ai quali a vario titolo (per la sofferenza che il suo gesto provocherà in loro, o per le scelte compiute, diverse dalle loro attese e desideri) si sente tenuto pure a chiedere perdono. Un invito a non fare troppi pettegolezzi (avvertiti dunque come inevitabili) è l’invito a non ridurre in maniera automatica e immediata le ragioni del suicidio a quelle della biografia, per quanto tale legame non sia del tutto negato.

Viene in soccorso, allora, una nota del diario, datata 25 marzo 1950, che chiarisce il senso di tale affermazione:

Non ci si uccide per amore di [una] donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.

Un’altra, datata 27 maggio, pone invece il suicidio in relazione con l’impegno politico:

Adesso, a mio modo, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola: suicidio.

Né con ciò si deve ridurre il suicidio ad una forma di evasione dal dovere: nel privato, dall’incapacità di essere marito e padre; nel pubblico, di essere intellettuale civilmente impegnato. Un’evasione, semmai, è l’illusione di poter risolvere lo scacco esistenziale in termini di possesso (di una donna o dell’impegno politico): e la delusione che ne consegue è in tal senso illuminante. Nel modo di ragionare di Pavese, afferrare una donna o affermare un’idea è negarla in quanto simbolo; laddove la morte rappresenta l’unica, vera azione possibile, il viaggio risolutore verso l’eterno presente, in cui tutto vive e, nello stesso tempo, tutto si annienta. Già il 30 novembre 1937 aveva scritto:

Non riesco a pensare una volta alla morte senza tremare a quest’idea: verrà la morte necessariamente, per cause ordinarie, preparata da tutta una vita, infallibile tant’è vero che sarà avvenuta. Sarà un fatto naturale come il cadere di una pioggia. E a questo non mi rassegno: perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire? Perché? 

Conclusione A questo punto, si pongono alcuni interrogativi. Che cosa rappresentò e cosa rappresenta Pavese nel quadro della letteratura italiana? Quali furono i suoi rapporti col Neorealismo? E quelli con la contemporanea narrativa europea? 

1) Pavese non fu isolato: al contrario fu espressione completa e complessa di una particolare temperie culturale e spirituale che si formò in Italia tra le due guerre. Come tanti «solariani» oppose la sua resistenza culturale al fascismo (lo stesso mito dell’America che egli coltivò a lungo fu una manifestazione, come sappiamo, di questo atteggiamento politico); ed ebbe la volontà di uscire dal chiuso ed egoistico culto dell’arte («La Ronda») per aderire ad un’esigenza costruttiva di valori morali e partecipare alle responsabilità dei suoi contemporanei. Questi propositi non rimasero allo stato velleitario, ma presero vita trasfigurati “in pensiero e fantasia» nelle opere, le quali si presentano così non solo come un fatto estetico, ma come testimonianza di tutto un clima storico.

2) Mise a nudo l’alienazione, l’angoscia di vivere in solitudine tra milioni di uomini, lo spietato meccanismo della civiltà industriale, la dissacrazione dei valori primigeni dell’uomo, l’ansia di un ritorno alle origini attraverso la natura e la memoria dell’infanzia: per queste tematiche s’inserisce nell’alveo della letteratura decadente europea.

3)Rinnovò, nello svolgimento delle sue trame, i vecchi modelli naturalistici, in quanto il dato umano e ambientale, pur evidente e reso con intensità, finisce coi rivelarsi sempre sottilmente allusivo ad una dimensione simbolica del reale; parallelamente, anche la psicologia dei personaggi è semplificata, risolta più che altro in evocazione di atmosfere spirituali (quelle «atmosfere» tanto care ai solariani), volta a fare dei personaggi stessi altrettanti «tipi» esemplari dell’umana vicenda. Da quanto si è detto, emerge il divario che separa Pavese dai «neorealisti» dei quali pure, per certi squarci crudamente veristici della sua opera, e per certi temi (la Resistenza, la guerra, l’impegno) fu considerato un maestro. In effetti il realismo di Pavese è di una qualità particolare: è un realismo lirico e, ripetiamo, simbolico, che si estrinseca, nell’ultima produzione, anche nelle tecniche del «monologo interiore» e del «tempo della memoria», e che permette d’individuare nell’opera dello scrittore alcuni degli orientamenti più significativi delle letterature contemporanee.